CONTENUTO
La nascita e i tre aspetti fondamentali della società sovietica
L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, più conosciuta come Unione Sovietica o URSS nasce il 30 dicembre 1922 sulle ceneri dell’impero zarista russo a seguito della rivoluzione bolscevica guidata da Lenin nell’ottobre del 1921 (novembre secondo il nostro calendario).
Fin dai primi giorni di vita dell’Unione Sovietica il partito Bolscevico, ribattezzato in seguito Comunista, diviene il centro di tutta l’attività politica ed economica del paese e già sotto la guida di Stalin (dal 1922 al 1953 anno della sua morte) il Partito diventa una enorme macchina burocratica con uffici permanenti a tutti i livelli dell’amministrazione; negli anni ’50 gli aderenti al partito arrivano ad essere sette milioni (negli anni Ottanta arriveranno a diciotto milioni). Tutto il potere economico e politico, oltre a tutti i mezzi di controllo della cultura, dell’istruzione e degli organi di informazione di massa, sono detenuti dall’apparato di partito.
Altri due aspetti fondamentali della società sovietica sono: l’economia pianificata, ovvero l’eliminazione del mercato sostituito dalla pianificazione dell’intera produzione da parte dello Stato-Partito, e il complesso militare industriale. Il settore industriale sovietico è quasi esclusivamente adibito ai bisogni della struttura militare statale; nel 1986 il 75,3% del prodotto nazionale è investito nel cosiddetto “settore A”.
La stabilità Brežneviana e la svendita delle risorse
L’URSS raggiunge il momento di massima espansione economica e culmine della sua potenza nella seconda parte degli anni Settanta. Sotto la guida di Brežnev l’URSS raggiunge nel campo degli armamenti per quantità e per qualità il suo principale rivale, ovvero gli Stati Uniti e nello stesso decennio riesce a innalzare lentamente, ma in modo costante il tenore di vita della popolazione.
Raggiunto il punto di massima maturazione e stabilità negli anni ’80 il sistema sovietico inizia a manifestare i primi sintomi di debolezza che indicano il carattere sistemico della crisi e la crescente inadeguatezza e incapacità del sistema di adattarsi ai cambiamenti. Leonid Brežnev, Segretario generale del Partito Comunista dal 1964 fino alla sua morte nel 1982, rinuncia ad attuare qualsiasi tipo di riforma strutturale, sostituendo queste con l’esportazione massiccia di materie prime ed energia, soprattutto verso i paesi dell’Europa orientale e appartenenti al Patto di Varsavia.
In politica estera Brežnev è rimasto celebre per la cosiddetta “dottrina Brežnev” secondo la quale nel caso in cui “forze ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo diventa un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti”. Resta implicito nella dichiarazione, ma in seguito confermato dai fatti, che nella situazione descritta la leadership sovietica si riserva il diritto di intervenire anche militarmente nel paese a “rischio” capitalismo. Tale dottrina è utilizzata per giustificare nel 1968 l’invasione della Cecoslovacchia che pose fine alla primavera di Praga, e nel 1979 l’invasione dell’Afghanistan.
Durante gli anni ’70 incentivando uno sviluppo rapido e ipertrofico dell’industria estrattiva, in primo luogo di petrolio e gas, riesce a mantenere lo sviluppo dell’industria e a creare un gran numero di posti di lavoro. Tramite la vendita di risorse riesce inoltre a mantenere prezzi politici bassi sui principali generi alimentari e di consumo sebbene l’agricoltura interna si allontani sempre di più dagli standard di produttività e qualità internazionali.
Prezzi bassi e relativa stabilità economica accompagnate da una forte repressione di ogni forma di dissenso interno mostrano un sistema sovietico talmente saldo e stabile da rendere irrealistica agli occhi dei contemporanei l’ipotesi che tale sistema nel giro di dieci anni avrebbe smesso di funzionare. I tre aspetti fondamentali della società sovietica già elencati in precedenza hanno, nel lungo termine, contribuito alla grave crisi economica che affligge il paese dagli anni ’80 fino alla sua dissoluzione nel 1991.
La crisi sistemica: la “degenerazione” dei tre aspetti fondamentali
Politicamente l’Unione Sovietica si organizza in un rigido sistema monopartitico. In tale sistema politico è la nomenklatura del Partito a selezionare i quadri dirigenti del paese in base ai criteri scelti dalla leadership. La costante e in certi periodi violenta repressione del dissenso ha per la società sovietica un effetto stabilizzante fino a quando questa è accompagnata dal divieto assoluto di lasciare il paese, poiché quando, all’inizio degli anni Settanta, tale divieto cade la popolazione inizia a ricevere informazioni riguardo il tenore di vita occidentale e prende coscienza della situazione economica e politica del proprio paese.
Insieme alla repressione vige anche un sistema di segretezza e falsificazione statistica che avvolge l’intera vita politica del paese e in particolare il settore industriale-militare e la ricerca tecnologica ad esso collegata. Il meccanismo funzionante nelle democrazie occidentali per cui le nuove tecnologie scoperte in ambito militare vengono poi trasferite e trasformate anche per l’industria civile non può svilupparsi in in URSS, vittima di uno stretto sistema di segretezza e falsificazione. Gli stessi membri del governo e del Partito non conoscono i dati reali riguardo la spesa militare e industriale o riguardo la situazione delle risorse estratte e spesso svendute.
L’economia pianificata è inaugurata in URSS negli anni ’30 da Stalin e rimane tale e quale fino alla fine degli anni ’80. Nel sistema di pianificazione dall’alto la fusione totale dell’economia con lo Stato sostituisce il mercato, le sue regole e i suoi criteri di valutazione oggettivi. I dirigenti del Partito stanziano le risorse finanziare per la produzione di ogni bene che ritengono necessario alla società, e sono cosi create delle imprese-monopolio[1] ognuna specializzata nella produzione di beni e servizi specifici. Dal punto di vista della singola impresa l’unico criterio di successo o insuccesso è l’esecuzione del piano di produzione statale. Ogni sforzo è rivolto all’attuazione del piano senza valutazioni o analisi dei costi-benefici.
La retribuzione del personale e i parametri dell’attività nel sistema sovietico non dipendono dai costi di produzione o dalla qualità del prodotto, ma sono decisi dallo Stato tramite negoziati tra le imprese e i “pianificatori”: in questo contesto ogni dirigente d’impresa cerca di ottenere piani di produzione più bassi possibili e allo stesso tempo la più alta quantità di materie prime e forza-lavoro possibile, in questo modo l’impresa può utilizzare in modo massiccio le risorse messe a disposizione dallo Stato e creare riserve e scorte da utilizzare nel caso di futuri aumenti del piano di produzione. Tale sistema genera continuamente carenze e sprechi e paradossalmente queste aumentano con l’aumentare delle risorse disponibili.
La falsificazione dei dati, per ottenere maggiori risorse di quelle realmente necessarie, è comune per ogni dirigente di una impresa sovietica. Accanto agli sprechi e alla manipolazione dei dati c’è un disinteresse totale delle imprese per il risparmio delle risorse erogate gratuitamente dallo Stato e verso l’innovazione tecnologica che porterebbe ad un aumento della produzione.
Lo sviluppo tecnologico e il possibile aumento della produzione è visto dai “pianificatori” statali come lavoro aggiuntivo poiché dovranno rivedere e ri-pianificare la produzione di tutte le imprese tenendo conto delle nuove tecnologie; per i dirigenti di impresa oltre al lavoro aggiuntivo l’aumento della produzione comporterebbe piani di produzione più alti, maggiori difficoltà nel ricevere e risparmiare risorse e maggiori rischi di non riuscire a eseguire i piani di produzione, tutto ciò senza che nessuna delle due figure lavorative veda aumentare la propria retribuzione.
Tale sistema economico “al ribasso” genera prodotti di scarsa qualità non esportabili sul mercato mondiale; ciò ha esentato le imprese sovietiche dalla concorrenza straniera, in quanto orientate esclusivamente alla domanda interna dove, in condizione di perenne deficit quantitativo e qualitativo delle merci, hanno l’assoluto dominio sui consumatori.
Negli anni Trenta per volere di Stalin anche il settore agricolo viene completamente integrato nel sistema di pianificazione centrale: sono creati i Kolchoz ovvero fattorie agricole di proprietà collettiva, i contadini sono obbligati a farne parte, sono pagati in base al lavoro svolto e devono pagare gravose tasse per l’utilizzo della terra e per l’utilizzo delle macchine agricole che restano di proprietà dello Stato.
I Kulaki ovvero i contadini più benestanti e più produttivi che si rifiutano di cedere la propria terra e i loro averi sono deportati e in gran parte fucilati: fra il 1929 e il 1934 sono liquidate circa 3 milioni e 200 mila aziende contadine private dove lavovano dalle 7 alle 9 persone; il numero preciso di persone uccise non è noto e molti fuggirono in città quando ciò era ancora possibile. Una grande quantità di kulaki risiedevano in Ucraina e l’inverno 1932-33 è restato nella memoria collettiva del paese come quello delle deportazioni staliniane e della fame prodotta dagli scarsi raccolti e dalle requisizioni forzate. Gli studiosi fanno oscillare il numero delle vittime complessivo di quegli anni dai 6 ai 14 milioni.
Come per le altre imprese anche i contadini dipendono dai piani di produzione centrali e sono obbligati a consegnare i beni prodotti nelle quantità prescritte dal piano. Il poco che resta dopo le consegne obbligatorie e le tasse può essere liberamente venduto a prezzo di mercato libero. La reazione dei contadini a tali condizioni di lavoro è la fuga dai Kolchoz verso le città e per questo Stalin nel 1932 istituisce dei passaporti interni per viaggiare nell’Unione e non li concede ai Kolchoziani legandoli cosi alla terra. Analizzando i dati economici, la collettivizzazione dell’agricoltura, promossa e attuata allo scopo di centralizzare anche questo settore economico, provoca un enorme calo della produzione e della produttività del lavoro agricolo con perdite addirittura maggiori rispetto a quelle della Seconda guerra Mondiale[2].
Questo sistema economico si è rivelato adatto al raggiungimento degli obiettivi economici del regime nel primo stadio dell’industrializzazione: in un paese prevalentemente contadino che sfrutta il suo ricco patrimonio di risorse naturali e mobilita una massa di forza-lavoro sotto utilizzata. Inoltre la pianificazione centrale dell’economia è particolarmente adatta e efficiente per edificare una economia militarizzata come quella sovietica.
Negli anni successivi alla morte di Stalin il sistema economico sovietico però si trova a dover funzionare durante un lungo periodo di pace dove è impossibile l’uso delle armi per ottenere i propri obbiettivi ed è proprio in questo periodo che tale sistema economico mostra i suoi gravi limiti, in particolare il suo carattere anti-innovativo e il sempre crescente spreco di risorse.
Gorbačëv e le riforme tardive: Perestrojka e Glasnost
Alla morte di Brežnev nel 1982 la leadership sovietica trova un paese sempre più economicamente in crisi e impelagato in una guerra in Afghanistan, iniziata nel 1979, sottovalutando i rischi e le conseguenze di un tale intervento militare. Gli ingenti aiuti americani ai “ribelli” afghani mettono in evidenza il gap tecnologico, anche nel settore militare, fra i due paesi.
I due successori di Brežnev, prima Andropov e poi Čhernenko, entrambi anziani e appartenenti all’ala conservatrice del Partito, scelsero di proseguire il conflitto con più massicce risorse, tuttavia nel 1985 la situazione economica del paese e le enormi spese militari non lasciavano più scampo: l’immobilismo e il rifiuto delle riforme non erano più una scelta perseguibile. Alla morte di Čhernenko nella nomenklatura del Partito crescono gli esponenti (sopratutto gli alti comandi militari e del KGB[3]) riformisti i quali anche solo per spirito di sopravvivenza prendono coscienza della urgente necessità di attuare delle riforme all’intero sistema sovietico.
In una lotta all’ultimo sangue con l’ala brezneviana e conservatrice del Partito viene nominato Segretario Generale Michail Gorbačëv, riformatore convinto, oltre che di gran lunga il più giovane dei membri del Politburo (nel 1985 ha 54 anni). Sarà lo stesso Gorbačëv a decidere nel febbraio del 1989 di concludere l’operazione militare sovietica in Afghanistan. La serie di riforme introdotte da Gorbačëv e note generalmente come politica della Perestrojca (in russo ricostruzione) hanno come obiettivo la razionalizzazione e riorganizzazione del sistema economico sovietico, lasciando però intatte le istituzioni e le principali organizzazioni politiche.
La popolazione viene invitata a lavorare di più e meglio stimolando l’entusiasmo popolare e l’“emulazione socialista”; è invece fortemente contrastato il consumo di alcool e si cerca di ridurre al minimo le economie nascoste come le imprese private semi legali e illegali. La reazione della popolazione, interessata a mantenere immutato il proprio contratto sociale, è sempre di apatia e indifferenza e i risultati non sono migliori di quelli ottenuti dai precedenti Segretari, come ad esempio, Jurij Andropov, ex famigerato capo del KGB, che nel 1982 da Segretario Generale promosse una campagna disciplinare per migliorare la qualità del lavoro nelle aziende e nelle amministrazioni statali ottenendo però risultati simili e la stessa reazione apatica e indifferente della popolazione.
Gorbačëv decide inoltre di rinnovare il personale amministrativo e manageriale a tutti i livelli amministrativi applicando nella selezione, con maggiore o minore successo, il criterio meritocratico. Tale insieme di riforme con l’obbiettivo di combattere la corruzione e i privilegi del sistema politico sovietico prendono il nome di Glasnost (in russo trasparenza). In campo economico il nuovo Segretario Generale propone una mobilitazione tecnocratica ovvero un aumento degli investimenti nella produzione di macchinari, nell’industria estrattiva e metallurgica e nel rinnovamento della pianificazione centrale.
Tale politica ha avuto effetto negativo sull’economia sovietica poiché ha rafforzato gli interessi dei settori monopolistici quali il complesso militare industriale e l’industria pesante in generale che stavano già portando altri settori dell’economia alla “bancarotta tecnologica”; secondo gli economisti russi nel 1987 su sedici milioni e mezzo di operai solo cinque milioni e seicentomila lavoravano per imprese civili[4]. L’accelerazione della crescita lasciando inalterate la struttura e le priorità dell’economia sovietica ha acutizzato il calo della produttività sopratutto dei beni di consumo e la loro conseguente scarsità sui mercati interni, aumentando invece il deficit di bilancio e l’inflazione.
Resosi conto del fallimento di tale politica economica il gruppo riformista si rende conto di dover accompagnare alle riforme economiche e sociali anche una maggiore partecipazione popolare al processo decisionale in primo luogo nei posti di lavoro e nella società. Ciò avrebbe dato impulso al cambiamento facendo emergere l’economia di mercato come forma superiore di organizzazione sociale.
Le principali conseguenze della democratizzazione sovietica gorbaceviana si materializzano molto presto: i paesi dell’Europa orientale invece di marciare insieme all’URSS verso la democrazia preferiscono interrompere con essa tutti i rapporti: sciolgono il COMECON[5] e contestualmente anche il Patto di Varsavia. Sciolte le due organizzazioni che nei decenni precedenti avevano tenuto legate all’URSS tutte le società dell’Europa Orientale, l’“impero esterno” sovietico crolla in tempi brevissimi.
Il fermento covava da tempo nei paesi dell’Europa Orientale, la crisi sistemica ed economica ha aggravato la situazione, le economie pianificate sono tenute in vita dalla forza militare e dall’assistenza economica erogata dall’URSS sotto forma di forniture di materie prime e di energia a prezzi bassissimi rispetto a quelli di mercato. Solo una Unione Sovietica forte con enormi risorse e un vasto apparato coercitivo e militare può preservare tale stato di fatto, tali condizioni nell’URSS della fine degli anni ’80 non esistono più e di ciò Gorbačëv è perfettamente consapevole.
Da tale consapevolezza trae la decisione di non fornire aiuto militare ai leader dell’Europa orientale messi alle strette dalla crisi economica e sociale e assediati dai loro popoli in rivolta: i due esempi di maggior rilievo sono Honecker in Germania-Est e Ceauşescu in Romania. Senza il supporto sovietico, nel 1989 prima, in novembre cade il Muro di Berlino e la Germania-Est viene annessa alla Repubblica Federale di Germania e poi in Dicembre Ceauşescu viene prima destituito da una rivolta di piazza, poi processato e giustiziato.
La democratizzazione e i differenti movimenti di massa
Una parziale democratizzazione della vita politica sovietica imposta dall’alto e introdotta dall’ala riformista del Partito e un conseguente risveglio politico della popolazione hanno come conseguenza non intenzionale il manifestarsi di una grande varietà di azioni sociali collettive e movimenti di massa di varia natura politica: fra questi i numerosi movimenti nazionalisti rappresentati delle varie nazionalità che compongono l’Unione. I movimenti nazionalistici e le relative questioni nazionali all’interno di un sistema sovietico limitatamente democratico hanno definitivamente fatto esplodere il processo di disintegrazione dell’URSS.
Quella del nazionalismo non è certamente una delle cause generali e primarie della dissoluzione dell’Unione Sovietica tuttavia nel periodo finale della sua esistenza l’elemento nazionalistico ha accelerato il processo di disgregazione del paese. A mantenere stabili per almeno 50 anni le relazioni fra le tante etnie che abitano l’URSS sono serviti sia il potente apparato coercitivo centrale, che è riuscito a reprimere i movimenti etnici e nazionalistici e ad isolare e distruggere i loro leader, sia le politiche di trattamento preferenziale delle nazionalità nei loro territori.
La difesa della classe media e della élite politica locale hanno contribuito alla stabilità politica che, nel periodo brezneviano sembrava illimitata e naturale nelle istituzioni sovietiche. Quando questi due fattori sono venuti meno le Repubbliche hanno deciso di tagliare i rapporti con l’URSS. Come ha notato lo scrittore russo Boris Strugatskij[6]: “le Repubbliche avevano tutte le caratteristiche di Stati indipendenti che avessero perduto la loro indipendenza”.
Fra le varie Repubbliche dell’URSS ci sono però differenze sostanziali. Ad esempio nelle Repubbliche dell’Asia centrale alla fine degli Anni ’80, in seguito alla sempre crescente mancanza di risorse erogate da Mosca e alla contemporanea crescita demografica, si avvia un processo di mobilitazione etnica che ha come capro espiatorio le minoranze che abitano le Repubbliche, in particolare i turchi meshketi[7] invidiati per il loro tenore di vita e considerati estranei alla popolazione locale uzbeca. Tale aggressività ha il suo apice nei pogrom del 1988 e 1989. Tali episodi costrinsero il governo centrale ad una vera e propria evacuazione dei turchi dalla regione e gli uzbechi ereditarono beni, proprietà e posti di lavoro lasciati liberi.
Nelle regioni dell’Asia centrale tuttavia questi movimenti etnici non ebbero mai obbiettivi o richieste separatiste poiché temevano il conseguente passaggio all’economia di mercato in cui non avrebbero potuto sostenere i costi di produzione e distribuzione dei beni. Inoltre trovavano nell’URSS e nel governo di Mosca la loro fonte di risorse e ricchezza principale.
In altre Regioni, come quelle baltiche i movimenti etnici diventarono ben presto movimenti nazionalisti e separatisti. Già subito dopo l’annessione all’Unione Sovietica nel 1940 era seguito il terrore staliniano con l’imposizione forzata del nuovo sistema socioeconomico e con politiche statali che minacciavano deliberatamente la sopravvivenza etnica delle popolazioni indigene. La politica sovietica per combattere il nazionalismo baltico incoraggia l’immigrazione slava per aumentare la presenza russa nelle regioni baltiche, è continuata fino all’arrivo di Gorbačëv e ha avuto effetti particolarmente evidenti in Estonia e Lettonia. Se nel 1959 gli estoni costituiscono il 75% della popolazione, nel 1989 la percentuale era scesa al 61% e nelle aree urbane al 50%.
Quarant’anni di massiccia immigrazione slava polarizza la società baltica dividendola in due grandi comunità contrapposte: quella baltica e quella russo-slava divise in quasi tutti gli aspetti della vita e uniti soltanto da contatti sporadici. Sebbene Gorbačëv abbia interrotto tale politica, tali tendenze demografiche hanno provocato la preoccupazione della popolazione locale che è sfociata in un processo di crescente mobilitazione politica.
Oltre alla questione demografica le repubbliche baltiche soffrivano la politica di equiparazione economica fra le repubbliche dell’URSS: il surplus economico creato nelle regioni baltiche era utilizzato per finanziare l’economia di altre regioni meno sviluppate; cosi in queste regioni nasce un forte movimento secessionista fondato sulla difesa dell’identità etnica e su forti interessi economici. Le riforme per l’attenuazione del ruolo repressivo di Mosca hanno favorito la crescita elettorale dei Fronti Popolari e il crollo politico dei partiti comunisti nei paesi baltici.
La dissoluzione dell’URSS
Fino al 1990 la richiesta dei paesi baltici era di “sovranità all’interno dell’Unione Sovietica”, durante gli anni Novanta la richiesta diviene quella di completa indipendenza ed è a questo punto che l’amministrazione di Gorbačëv ha iniziato a combattere il separatismo baltico in nome dell’integrità territoriale dell’Unione Sovietica: si cerca di vietare la secessione o almeno stemperare il processo di autodeterminazione delle nazioni.
Per prima la Lituania, nel marzo del 1990, e a seguire gli altri paesi baltici dichiarano la loro indipendenza e approvano un programma di sviluppo congiunto basato sulla comunanza di destino storico e di interessi economici. Le sanzioni economiche imposte da Mosca e in particolare il blocco delle forniture di molte materie prime non sono sufficienti a paralizzare l’industria lituana. I movimenti separatisti dei paesi baltici incontrano anche il favore dei paesi occidentali i quali non hanno mai riconosciuto come legittima l’annessione di tali paesi all’URSS per mano di Stalin. Anche all’interno della stessa Unione Sovietica l’indipendenza baltica ha ricevuto sostegno e appoggio: sia da parte di altre Repubbliche, sia da parte dei governi eletti democraticamente fra cui i municipi di Mosca e San Pietroburgo.
Gorbačëv, pressato dai funzionari di partito e dai vertici del complesso militare-industriale, decide di prendere misure radicali per reprimere e frenare il separatismo baltico: nel gennaio del 1991 sono inviate in Lituania e Lettonia truppe speciali del ministero degli Interni e del KGB che uccidendo una ventina di persone e ferendone un centinaio occupano i centri radiotelevisivi nei due paesi con l’intenzione ultima di sciogliere i governi locali e dichiarare lo stato d’emergenza. Tale politica repressiva scatena una inattesa reazione popolare, centinaia di migliaia di persone scendono in piazza a sostegno dei governi indipendenti; inoltre la svolta repressiva di Gorbačëv danneggia anche la sua credibilità come leader riformista e mette in discussione tutto il suo programma politico compresa la Perestrojka.
Per l’ultimo leader sovietico gli ultimi mesi alla guida dell’URSS sono trascorsi nel disperato tentativo di opporsi alla frammentazione dell’Unione e delle sue istituzioni; la continua ricerca di un compromesso fra i vari interessi si rivela totalmente vana. Gli strumenti economici, coercitivi e istituzionali necessari per mantenere in piedi il sistema sovietico perdono di forza e di valore, molto spesso le direttive del Soviet supremo sono ignorate dalle autorità locali, in queste condizioni Gorbačëv abbandona l’idea di reprimere con la forza i movimenti nazionalisti e decide di patteggiare con i governi locali.
Nell’agosto del 1991 forze anti-riformiste e conservatrici, fra cui anche vertici del KGB, molti militari e alcuni dirigenti di partito mettono in atto un colpo di Stato per il timore di perdere definitivamente il potere. Il colpo di Stato fallisce miseramente perché gli artefici non sono in grado di guadagnare nè il sostegno del popolo nè dei molti dei funzionari statali; molti dei leader delle varie Repubbliche, fra cui Eltsin, nel frattempo eletto Presidente della Repubblica russa, si oppongono strenuamente al colpo di stato.
Lo stesso Presidente russo, sventato il colpo di stato, dichiara illegale il Partito Comunista poiché alcuni suoi membri erano coinvolti. Tale decreto non provoca nessuna reazione e toglie a Gorbačëv l’unica e ultima legittimazione per mantenere il posto di Segretario Generale dell’URSS. Il tentativo di colpo di stato che aveva come obiettivo il mantenimento del potere da parte del Partito Comunista e della sua èlite ha avuto l’effetto contrario di accelerare significativamente il processo di dissoluzione dell’Unione.
Gli stati baltici ottengono l’indipendenza approfittando del fallimento del colpo di stato e quando a dicembre dello stesso anno le tre Repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia) non trovano un accordo sul nuovo Trattato dell’Unione ne annunciano la dissoluzione. Il 25 dicembre 1991 Gorbačëv si dimette da Presidente dell’URSS e il 31 dicembre dello stesso anno la dissoluzione dell’Unione Sovietica è resa definitiva. Sparisce cosi l’ultimo degli imperi, nascono nuovi paesi che tuttavia mantengono i confini nazionali e le identità politiche delle Repubbliche sovietiche; si apre una nuova fase mondiale senza più i due vecchi blocchi contrapposti.
Per i nuovi stati, compresa la Russia, si presentano i problemi legati al passaggio dall’economia centralizzata a quella di mercato e gli avvenimenti degli anni ’90 ne sono la prova: la disgregazione violenta avvenuta in Ex Jugoslavia è un esempio delle possibili conseguenze della caduta dei regimi comunisti. Sul piano mondiale i vari interventi militari più o meno leciti degli Stati Uniti spesso tramite la NATO sono il tentativo di svolgere, anche con l’uso della forza, il ruolo di unica grande potenza mondiale.
[1] Sono imprese-monopoli poiché per i “pianificatori” centrali considerano uno spreco la concorrenza tra imprese.
[2] I dati economici e il numero approssimativo delle vittime in Victor Zaslavsky “Storia del sistema Sovietico l’ascesa, la stabilità, il crollo”, Carocci Editore, 1995.
[3] KGB è la sigla di “Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti” traducibile come Comitato per la Sicurezza dello Stato” ed è la principale agenzia di sicurezza, servizi segreti e polizia segreta dell’Unione Sovietica.
[4] I dati economici riportati in Victor Zaslavsky “Storia del sistema Sovietico l’ascesa, la stabilità, il crollo”, Carocci Editore, 1995.
[5] Il COMECON è il mercato comune dei paesi socialisti.
[6] Boris Strugatskij (1933-2012) e suo fratello Arkadij sono stati due scrittori russi autori di romanzi e racconti di genere fantascientifico.
[7] I turchi meshketi sono un popolo turco di religione musulmana, vivono ancora oggi dispersi fra i paesi dell’ ex URSS, parlano prevalentemente un dialetto turco, in alcuni casi sono di lingua russa o parlano georgiano. La stessa parola Meskh era originariamente applicata ad un gruppo etnico che viveva in Georgia e ha dato il nome ad una regione del paese: la Meskhétie.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
Hai voglia di approfondire l’argomento e vorresti un consiglio? Scopri i libri consigliati dalla redazione di Fatti per la Storia, clicca sul titolo del libro e acquista la tua copia su Amazon!
- Victor Zaslavsky, “Storia del sistema sovietico”, Carocci Editore, 1995
- Andrea Graziosi, “L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica, 1945-1991”, Il Mulino, 2011
- Giovanna Cigliano, “La Russia contemporanea. Un profilo storico”, Carocci, 2013