CONTENUTO
La crisi del 1929 fu la più grande crisi economica fino ad allora mai avvenuta. Dal crollo della borsa di Wall Street nel giovedì nero si arrivò in poco tempo al travolgimento di tutta l’economia mondiale, segnando l’inizio della Grande Depressione.
L’economia americana degli anni Venti
Nel dicembre 1928, il presidente americano uscente Calvin Coolidge pronunciò un famoso discorso al Congresso nel quale sosteneva, con una elevata dose di entusiasmo, che
La grande ricchezza creata dal nostro spirito d’iniziativa e dalla nostra industriosità e salvaguardata dal nostro risparmio, è stata distribuita tra il nostro popolo nel modo più ampio ed è uscita dalle nostre frontiere per beneficare e far progredire tutto il mondo. I consumi quotidiani hanno oltrepassato la soglia del bisogno per entrare nella regione del lusso. Una produzione in crescita è consumata da una domanda interna sempre più alta e da un commercio estero in espansione. Il paese può guardare al presente con soddisfazione e al futuro con ottimismo.
Gli storici e gli economisti nei decenni successivi hanno crocifisso l’allora presidente Coolidge per il suo esasperato ottimismo e per l’incapacità di vedere cosa sarebbe successo da lì a poco.
Coolidge, però, non aveva certamente tutti i torti in quanto nei “ruggenti” anni Venti l’economia statunitense era cresciuta, i prezzi erano stabili e la produzione procedeva a buon ritmo. Ma questi dati nascondevano una realtà fatta di profonde sperequazioni di reddito e di fratture sociali sempre più ampie.
Tra il 1923 e il 1929 la forbice tra profitti e salari si era enormemente ampliata a favore, ovviamente, dei capitalisti americani: i salari crebbero solo del 8% mentre i profitti del 62%. La grande fetta della ricchezza prodotta era andata nella tasche dei grandi industriali e aveva lasciato ben poco alla classe operaia.
Anche il mondo agricolo non poteva certo guardare al futuro con ottimismo. Per tutti gli anni Venti, agricoltori e contadini nell’Ovest e nel Sud degli Stati Uniti avevano dovuto affrontare il calo dei prezzi dei loro prodotti, il quale accelerò le ondate di fallimenti di piccoli farmers indipendenti e lo scivolamento verso l’estrema povertà dei mezzadri. La deflazione dei prodotti agricoli era dovuta ad un mix di fattori interni ed internazionali, come la fine della guerra – durante la quale la loro domanda crebbe enormemente – e la meccanizzazione della produzione agricola.
Degli anni Venti beneficiò, oltre ai grandi capitalisti, anche la classe media. Infatti, in questi anni crebbe la domanda dei beni durevoli, come automobili e case, finanziata attraverso l’indebitamento privato e il pagamento rateale. La”promise of american life” e il “consumo visibile” di rooseveltiana memoria sembravano descrivere la classe media statunitense degli anni Venti.
Il decennio si caratterizzò anche per l’enorme crescita del settore automobilistico, dell’elettronica e con essi quello petrolifero, del cinema e della pubblicità. Una crescita fondata anche sull’organizzazione scientifica del lavoro di Henry Ford e Frederick Taylor, con la creazione della catena di montaggio e la managerializzazione della produzione. Questo crescente dinamismo dell’economia americana produsse ulteriori fusioni e concentrazioni aziendali, allargando il panorama delle grandi corporations che iniziavano a proiettarsi anche oltre i confini nazionali.
Anche il mondo della finanza non fu da meno. La ricchezza prodotta negli anni Venti si era riversata anche nel mercato finanziario, generando un vertiginoso aumento dei prezzi di azioni ed obbligazioni. Questa euforia, però, ben presto si tradusse in una vera e propria speculazione finanziaria che, in assenza di seri controlli, iniziò a mostrare le sue fragilità.
Il Giovedì Nero di Wall Street
I primi segnali che qualcosa stesse per accadere si ebbero nel settembre del 1929, quando si verificò un crollo dei prezzi azionari. In breve tempo, però, queste azioni recuperarono ma l’incertezza e la preoccupazione iniziarono a serpeggiare. Sempre più prodotti finanziari passarono di mano in mano ad una velocità crescente, per un valore di diversi miliardi di dollari.
La mattina del 24 ottobre 1929 tutte le paure e le ansie mostrate nei mesi precedenti si materializzarono bruscamente. Quella giornata, conosciuta come Giovedì Nero, si aprì con una valanga di vendite di azioni e obbligazioni sui mercati finanziari, facendone crollare il valore. A mezzogiorno, le perdite avevano raggiunto i 9 miliardi di dollari.
Il presidente Herbert Hoover, in carica da meno di un anno, si ritrovò nel mezzo di una tempesta devastante. La sua preoccupazione immediata fu quella di evitare che il grande crollo, per utilizzare una terminologia nota al famoso economista John Kenneth Galbraith, si estendesse a tutta l’economia. Tra le varie misure adottate da Hoover, probabilmente la più importante fu quella relativa al rilancio del settore delle costruzioni. Infatti, l’obiettivo non doveva essere la mera stabilizzazione bensì anche la rivitalizzazione dell’economia americana. Ma il peso del rilancio economico, secondo Hoover, doveva poggiare sui governi locali e le aziende private invece che sul bilancio del governo federale. Riunì gli imprenditori per assicurarsi che mantenessero la produzione e l’occupazione; creò la Reconstruction Finance Corporation con la quale concesse prestiti a banche, aziende ed amministratori locali. I risultati sperati, però, non arrivarono, sebbene il presidente nella primavera del 1930 si disse convinto che gli Stati Uniti avessero passato il momento peggiore e che fossero sulla strada della ripresa.
Tra la fine del 1929 e il 1933 la disoccupazione arrivò al 25%, lasciando per strada 13 milioni di lavoratori più tutti quelli che vivevano di lavori precari e stagionali, dei quali moltissimi si ritrovarono in baraccopoli conosciute col nome di Hooverville; più di cinquemila banche e centomila imprese fallirono; la restrizione del credito fece crollare quella domanda che, fino ad allora, aveva sostenuto la produzione di beni durevoli e la produzione industriale, la quale crollò del 37%; infine, i prezzi crollarono del 33% ed il prodotto interno lordo del 30%.
Il crollo della borsa di Wall Street si era trasformato nella più grande crisi economica fino ad allora conosciuta: la Grande Depressione.
Cause e conseguenze della Grande Depressione
Contrariamente alla credenza comune, la crisi del ’29 non fu un crollo isolato bensì un insieme di crolli e di riprese di borsa, alle quali seguirono cadute sempre più consistenti che solamente un paio d’anni dopo si riversarono pesantemente su tutta l’economia americana e mondiale.
Le cause del crollo di Wall Street il 24 ottobre 1929 possono trovarsi in diversi elementi. Innanzitutto, come si è spiegato precedentemente, una delle cause fu l’alta concentrazione di capitale nei grandi monopoli alla quale facevano da contraltare i bassi salari; successivamente, un’altra causa può essere trovata nello spostamento della ricchezza verso i mercati azionari e la successiva speculazione finanziaria; infine, un altro fattore determinante fu la concorrenza esasperata tra le imprese che produsse un’enorme accumulazione di capitali.
Ad aggravarne gli effetti furono senza dubbio il dogma del rigore dei conti pubblici al quale Hoover non volle rinunciare, la politica monetaria restrittiva della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti ed infine il Gold Standard, il sistema monetario che legava il valore del dollaro e di gran parte delle monete dei paesi occidentali all’oro.
Fu proprio il Gold Standard uno dei primi pilastri del sistema economico internazionale a cadere. Nel 1931 è la Bank of England la prima a lasciare il sistema aureo. Ad essa seguono nel 1933 gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt, successore di Hoover. Nel 1935 è il turno dell’Italia che, anche in preparazione alla guerra d’Etiopia, svincola la Banca d’Italia dal detenere il 40% di riserve d’oro rispetto alla moneta circolante. L’anno successivo, invece, tocca alla Francia, che è costretta a deprezzare la propria valuta, sganciandola perciò dal Gold Standard. Una serie di paesi abbandona così il sistema aureo che, sino ad allora, era stato il pilastro dell’ordine monetario internazionale.
Le conseguenze della Grande Depressione furono spaventose.
Sul piano della politica estera degli Stati Uniti e del sistema internazionale del primo dopoguerra, gli effetti furono immediati e devastanti. Dopo il Trattato di Versailles, gli Stati Uniti, attraverso il Piano Dawes nel 1924 e il Piano Young nel 1929, avevano attivato una serie di prestiti che avrebbero dovuto permettere il pagamento delle riparazioni di guerra della Germania. Quando questo circolo fu spezzato dalla crisi, le conseguenze furono pesantissime. I flussi di credito si ridussero drasticamente, le esportazioni americane crollarono del 60% ed i volumi del commercio mondiale si dimezzarono.
Per i lavoratori, i braccianti, i piccoli agricoltori, i mezzadri, la conseguenza più comune fu la disoccupazione.
Ad aggravare ancora di più la situazione delle classi subalterne fu la totale mancanza o, nel migliore dei casi, l’inadeguatezza dei sistemi di sicurezza sociale, come i sussidi di disoccupazione. La paura del licenziamento, della malattia, della povertà avevano da sempre spinto la classe lavoratrice a preoccuparsi della sicurezza sociale e a combattere per essa. La Grande Depressione arrivò a dimostrarne la drammatica, vitale necessità.
Le immagini più comuni di quegli anni sono quelle delle mense dei poveri, delle marce dei disoccupati per il pane e le grandi migrazioni dal Sud narrate magistralmente dalla penna di John Steinbeck in Furore.
La disoccupazione è stata la più endemica, insidiosa e corrosiva malattia della nostra generazione, seconda solo alla guerra: essa è la tipica malattia sociale della civiltà occidentale nel nostro tempo.
Così scrisse il The Times il 23 gennaio 1943.
La Grande Depressione cambiò anche le attitudini dei governi verso i problemi sociali.
Le necessità vitali e di sostentamento di gran parte delle popolazioni dei paesi occidentali scavalcarono le precedenti priorità politiche dei rispettivi governi, soprattutto perché il malcontento sociale poteva sfociare, come accadde in Germania nel 1933, in una radicalizzazione estremamente pericolosa.
Oltre al terremoto economico, la Grande Depressione provocò anche un terremoto nella percezione del mondo occidentale, del modello capitalistico. Infatti, mentre sempre più paesi venivano travolti dalla crisi, l’unico paese che formalmente aveva rotto con il capitalismo, l’Unione Sovietica, sembrava esserne immune.
L’URSS viveva gli anni dell’industrializzazione e dei piani quinquennali. Tra il 1929 e il 1940 la produzione industriale sovietica più che triplicò, generando l’interesse del mondo occidentale per la pianificazione. Tra il 1930 e il 1935 moltissime furono le personalità che visitarono l’URSS per cercare di comprenderne l’economia e la società.
Così, la pianificazione economica divenne in breve tempo la nuova parola d’ordine dei partiti socialdemocratici e conservatori europei, come in Belgio, Norvegia, Regno Unito e Germania.
La Grande Depressione, contrariamente a quanto viene comunemente pensato, non vide la fine con il New Deal – l’ambizioso piano di ricostruzione dell’economia americana promosso da Franklin Delano Roosevelt – e con le politiche economiche ispirate alle idee di John Maynard Keynes ma con la Seconda Guerra Mondiale. Fu l’economia di guerra a permettere agli Stati Uniti e al mondo di uscire dalla grande crisi.
Eric Hobsbawm, uno dei più grandi storici mai esistiti, nel suo “Il Secolo Breve“, si pone un’importante domanda, ossia quale fu l’effetto che il crollo dell’economia mondiale nel 1929 ebbe sulla storia del Novecento.
A questo quesito, lo storico risponde così:
Senza di esso non ci sarebbe sicuramente stato nessun Hitler e quasi certamente non ci sarebbe
stato nessun Roosevelt. E’ altresì molto improbabile che il sistema sovietico sarebbe stato considerato come una seria alternativa economica al capitalismo mondiale.
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- John Kenneth Galbraith – Il Grande Crollo. Che cosa ci ha insegnato sul capitalismo la Grande Depressione
- David Kennedy – Freedom from Fear. The American People in Depression and War
- Stanley Engerman, Robert Gallman – The Cambridge Economic History of the United States, Vol. 3
- Arnaldo Testi – Il secolo degli Stati Uniti
- John Steinbeck – Furore