CONTENUTO
Il Meridione nel contesto italiano e internazionale
La prima avventura francese nel Mezzogiorno d’Italia dura l’espace d’un matin. Il tentativo di riconquistare Roma da parte dell’esercito partenopeo nel novembre 1798 si trasforma in una vera e propria rotta, che porta all’occupazione dei territori continentali del Regno di Napoli da parte delle truppe transalpine guidate da Jean Étienne Championnet e alla proclamazione della Repubblica napoletana, mentre la famiglia reale fugge in Sicilia.
Nel generale clima di reazione che caratterizza la penisola nel corso del 1799, i territori “liberati” dai francesi sono riconquistati nel corso dell’estate dalle bande sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo. L’effimera esperienza della Repubblica napoletana è commentata da Vincenzo Cuoco nel suo celebre scritto Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 ‒ pubblicato una prima volta nel 1801 e una seconda a Milano nel 1806 ‒ in cui l’autore descrive l’impossibilità di fondare un regime politico duraturo importando modelli costituzionali esteri, senza tener conto delle specificità di un dato territorio.
La campagna d’Italia del 1800 porta i francesi ‒ in seguito al cambio di regime interno provocato dal colpo di Stato del 18 brumaio anno VIII, che determina la consegna dei poteri nelle mani del triumvirato formato da Bonaparte, Sieyès e Ducos ‒ a riprendere il controllo di gran parte della penisola italiana entro il 1802. Napoli è però occupata nuovamente solamente il 14 febbraio 1806.
Il governo del regno viene affidato da Napoleone ‒ nel frattempo divenuto imperatore ‒ in un primo momento al fratello Giuseppe Bonaparte, nominato re delle Due Sicilie, poi sostituito il 31 luglio 1808 dal cognato Gioacchino Murat, marito di Carolina Bonaparte, dopo aver assunto la corona spagnola. Maria Carolina e Ferdinando IV di Borbone trovano nuovamente rifugio, con la Corte, a Palermo.
Determinante per il regime change è l’ambigua politica estera portata avanti dal Regno di Napoli, che nel 1805 conclude un trattato di neutralità con la Francia contemporaneamente a un’alleanza con la Russia e ad accordi con l’Inghilterra. La nuova posizione di forza assunta dopo la vittoria di Austerlitz, convince perciò Napoleone a infrangere lo status quo venutosi a creare nella penisola dopo la pace di Lunéville del 1801.
Con il trattato di alleanza del 1808 con la Gran Bretagna, la Sicilia, si inserisce definitivamente all’interno della rete delle «British Islands», occupate nel corso del conflitto dagli inglesi nel Mediterraneo e divenute nel tempo veri e propri laboratori costituzionali, centri di diffusione del pensiero liberale anglosassone in opposizione alla “tirannide” napoleonica. Tale contrapposizione verrà incarnata dai due regni dell’Italia meridionale a partire dal 1812.
Il quadro culturale siciliano tra Sette e Ottocento
Il modello inglese è in realtà ben radicato sull’isola fin dal secolo precedente. Ad esso guardano soprattutto i rappresentanti della grande aristocrazia fondiaria nell’ottica di un rinnovamento delle istituzioni siciliane. Il mito del Parlamento britannico è visto qui come mezzo attraverso cui combattere l’assolutismo borbonico, accedendo a un sistema di libertà moderne che risolva problemi atavici come quello della feudalità ‒ un freno per il progresso economico ‒ senza sacrificare il preminente ruolo politico della nobiltà “baronale”.
L’impressione prevalente è che la differenza con la Costituzione dell’isola, che fin dal 1130 garantisce un Parlamento che si è nel tempo strutturato in tre “Bracci” ‒ feudale, ecclesiastico e demaniale ‒ sia il risultato della disapplicazione di alcuni capitoli. Nel corso del Settecento le biblioteche dei signori si arricchiscono di opere inglesi di natura letteraria e politica ‒ grande diffusione hanno i Commentaries on the laws of England di William Blackstone ‒ e alcuni uomini visitano in prima persona l’oltremanica, in primis i principi di Castelnuovo e Belmonte, oltre che l’abate Paolo Balsamo.
È proprio l’economista termitano infatti ad avere un ruolo cruciale nella diffusione del pensiero anglosassone a Palermo, applicando i principi della scuola classica di economia fondata da Adam Smith ai suoi studi di agricoltura. Sono inoltre molti i mercanti e gli aristocratici inglesi a compiere viaggi d’affari e di piacere in Sicilia, stabilendosi alcuni di loro, dopo il 1750, nella zona di Marsala, spinti dal successo dell’industria vinicola locale. A partire dal 1794 contingenti dell’esercito e della flotta inglese fanno poi scalo sull’isola nel corso delle operazioni di guerra contro la Francia rivoluzionaria.
A Catania i commerci e la presenza di una proprietà maggiormente frazionata e di colture specializzate, hanno permesso invece un maggiore sviluppo di un ceto “borghese”. Qui l’ambiente culturale formatosi intorno all’università cittadina assume una connotazione “democratica”, che ha come principale punto di riferimento l’illuminismo francese. Nella maggioranza dei casi non ci si spinge però oltre il sostegno a forme di “riformismo assolutistico”, lasciando poco spazio a eventuali colpi di mano più o meno violenti.
Non mancano comunque simpatizzanti giacobini, che con lo scoppio delle ostilità prendono la strada dell’esilio in Francia, come Emmanuele Rossi, Gambino e Ardizzone. Poca fortuna hanno comunque le tentate congiure di Francesco Paolo Di Blasi nel 1795 e Antonio Piraino sei anni dopo. Dura è la repressione portata avanti dai Borbone attraverso un’apposita Giunta di Stato, in particolare nei confronti dei moti esplosi nel 1799, che comunque non raggiungono mai l’estensione di quelli continentali.
In Sicilia rimane poi fortemente radicato un discorso “nazionale”, su cui gli inglesi fanno leva, come in altri teatri di guerra, contrapponendolo all’“internazionalismo” giacobino prima e alla volontà di dominio napoleonica poi. Il concetto di «nazione siciliana» assume però un significato particolare, legato al tradizionale autonomismo dell’isola, protrattosi fino all’avvento della Carta repubblicana del 1948.
Nell’elaborazione culturale del Sette-Ottocento, sommamente rappresentata dagli scritti di Rosario Gregorio, si sviluppa infatti una concezione storica piuttosto che politica della nazione, che si manifesta nei privilegi di ceti, città e corporazioni come progressiva sedimentazione giuridico-istituzionale. In questo senso la nazione è contrapposta allo Stato, incarnato dai Borbone, in quanto unica garante dell’indipendenza isolana, trovando la sua rappresentanza in Parlamento.
L’arrivo dei Borbone in Sicilia e gli avvenimenti del 1810
Come si è detto i Borbone raggiungono per la seconda volta la Sicilia nel 1806, dopo la prima breve permanenza tra la fine del 1798 e la metà del 1799. I rapporti con i ceti dirigenti isolani, già deteriorati dalle poco soddisfacenti esperienze di governo di quegli anni e dalla sempre maggiore influenza assunta da elementi napoletani nella Corte, vanno ben presto peggiorando. Determinanti sono la leva militare di 36.000 volontari, offerta agli inglesi nell’ottica di una rapida riconquista dei territori continentali, e le ingenti spese richieste dalla Corte al fine di foraggiare la ribellione a Napoli e in Calabria.
Il progetto è difeso soprattutto dalla regina Maria Carolina, che spera di sfruttare a suo vantaggio la politica di guerra globale alla Francia degli inglesi, in realtà in quel momento più interessati a consolidare la propria influenza sull’isola, centrale sia in ottica commerciale sia dal punto di vista della propaganda ideologica, di cui pilastro centrale è la «Gazzetta britannica», pubblicata a Messina dal 1808 al 1814.
I piani della Regina sono condivisi dalla corte, formata da uomini come Luigi de’ Medici, il marchese di Saint-Clair e il principe di Canosa, ma soprattutto da una serie di figure opache, descritte dallo stesso Ferdinando IV come «una schiera di assassini che hanno infestato il trono col loro falso spionaggio e col giuoco delle cabale più scellerate». In tale equazione più defilata appare proprio la figura del sovrano, intento, secondo le testimonianze dei contemporanei, a intrattenersi maggiormente negli svaghi offerti dall’isola.
Questo il clima in cui avviene la convocazione del Parlamento nel gennaio 1810 ‒ presieduto dal principe Francesco anziché dal re ‒ per la votazione dei dazi. Il governo chiede in quell’occasione un donativo di un milione di once per le spese di guerra, ripartito in parti uguali tra i tre Bracci, da aggiungere ai donativi ordinari e straordinari già decretati in passato.
Giuseppe Ventimiglia, principe di Belmonte, si mette a capo dell’opposizione parlamentare e riesce a far passare una proposta di riduzione del contributo a 450 mila once, introducendo elementi di riforma nella modalità di ripartizione. Nel settembre di quell’anno si consuma un tentativo di invasione della Sicilia da parte di un contingente franco-napoletano di 3.600 uomini ‒ la cui responsabilità va attribuita a un’iniziativa personale di Gioacchino Murat, piuttosto che alla volontà di Napoleone ‒ sconfitto dalla resistenza di contadini armati e degli inglesi.
Gli arresti del 1811 e la nomina di Bentinck a comandante delle forze britanniche nel Mediterraneo
In spregio a quanto stabilito dal Parlamento il 14 febbraio 1811 il governo regio, sotto le pressioni del ministro plenipotenziario inglese William Amherst e il consiglio di Luigi Filippo d’Orléans, marito della figlia di Ferdinando IV Maria Amalia, emana tre decreti finanziari. Viene così introdotta un’imposta dell’1% su tutte le transazioni e i pagamenti; vengono dichiarati proprietà regia tutti i beni patrimoniali di comuni, abbazie di regio patronato e commende dell’Ordine di Malta e messi in vendita per 300.000 once, assicurando ai possessori una rendita perpetua del debito pubblico; viene infine ordinata una lotteria per cinquanta delle proprietà messe in vendita.
In risposta a tale azione Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, insieme al principe di Villafranca e del duca di Angiò assume l’incarico di presentare al sovrano una carta elaborata da alcuni rappresentati della nobiltà palermitana (in tutto 43 baroni) in una riunione a casa del principe di Belmonte lo stesso giorno della pubblicazione dei decreti, nella quale sono espresse le loro rimostranze nei confronti di provvedimenti presi in piena violazione dei diritti della nazione. Tale protesta istituzionale porta a una dura reazione da parte della Regina e dei settori della Corte a lei vicini, causando, nella notte tra il 19 e il 20 luglio 1811, l’arresto dei principi di Belmonte, Villafranca, Aci, Castelnuovo ed Angiò, successivamente esiliati nei castelli di alcune isole mediterranee.
La situazione cambia drasticamente nel giro di pochi giorni con l’arrivo sull’isola di William Cavendish Bentinck, inviato dal governo inglese come ministro plenipotenziario e comandante di tutte le forze britanniche nel Mediterraneo, escluso il presidio della squadra di Malta, che assume su di sé le funzioni prima svolte separatamente da Amherst e dal generale John Stuart. Figlio cadetto del duca di Portland, già primo ministro di Sua Maestà, egli ha combattuto fino a quel momento in India al fianco di Arthur Wellesley, il futuro duca di Wellington, ricoprendo l’incarico di governatore di Madras.
Egli fa parte di quell’ala del partito Wigh che fin da subito si è schierata contro la Rivoluzione francese in difesa dei valori del 1688, supportando l’azione del governo conservatore di William Pitt il Giovane. Massimo rappresentate di questo orientamento politico è Edmund Burke, autore del celebre scritto Reflections on the Revolution in France pubblicato nel 1790.
È con Bentinck che finalmente prende forma il disegno costituzionale cui si è fatto cenno precedentemente, davanti alla necessità per gli inglesi di rispondere alla Carta di Baiona del 1808 e al programma di riforme avviato nel Mezzogiorno continentale, riguardanti in particolarmente la ripartizione della proprietà terriera.
Nonostante l’opportunità di favorire un sistema che garantisca maggiori libertà politiche sia motivata dal poco consenso suscitato in Sicilia dal governo borbonico, sono i tentativi di una trattativa con i francesi, portati avanti da alcuni ambienti della Corte ‒ con sospetti che ricadono su Maria Carolina stessa ‒ a far cadere gli ultimi dubbi. L’obiettivo della regina e degli uomini a lei vicini è quello di ottenere l’aiuto di Napoleone, sposatosi con la nipote Maria Luisa d’Austria, per svincolarsi dalla tutela inglese e riottenere il Regno di Napoli.
Dopo una rapida missione a Londra per ricevere istruzioni, conferendo direttamente con il primo ministro, Bentinck fa ritorno a Palermo il 7 dicembre 1811, prendendo una serie di fondamentali provvedimenti: trasferisce una divisione dell’esercito britannico da Messina alla capitale del regno, pone sotto il controllo inglese le truppe siciliane, fa allontanare la regina dal Consiglio di Stato e gli emigrati dalle cariche di governo, procedendo a rimpatriarli, richiama i baroni esiliati e impone la concessione di una Carta al sovrano.
Il Parlamento del 1812
Ferdinando IV il 16 gennaio 1812 si ritira alla Ficuzza, nominando nei giorni successivi il principe Francesco vicario generale del Regno. Maria Carolina si ritira invece nella villa di Santa Croce, fuori Palermo. Nel governo Luigi de’ Medici e il duca d’Ascoli sono sostituiti da Belmonte agli Esteri, Castelnuovo alle Finanze, il principe di Aci alla guerra e il principe del Cassaro alla giustizia. Il 1° maggio il vicario generale propone al Consiglio di Stato una convocazione straordinaria del Parlamento, riunitosi per la prima volta nella sua storia non solo per approvare le imposte, ma anche per riformare le leggi fondamentali dello Stato.
Convocati il 18 giugno, già nella notte del 19 luglio, dopo una sessione durata oltre dieci ore, i tre Bracci radunatisi al Collegio Massimo dei Gesuiti, approvano quasi all’unanimità le Basi, ovvero quindici articoli fondamentali fatti preparare all’abate Paolo Balsamo da Bentinck, Belmonte e Castelnuovo. Dodici dei quindici articoli originali, sottoposti alla sanzione del vicario generale, previa autorizzazione del sovrano, sono approvati per la pubblicazione il 10 agosto.
Segue a questo punto la stesura del testo nel suo complesso che si protrae fino al 7 novembre 1812. Il risultato è un lungo «corpo» diviso in tre titoli ‒ Potere legislativo, Potere esecutivo e Potere giudiziario ‒ a loro volta suddivisi in capitoli e paragrafi. Sono poi elaborati cinque decreti attuativi relativi a materie specifiche: Per la libertà di stampa; Per la successione al trono del Regno di Sicilia; Della feudalità, diritti e pesi feudali; Della libertà, diritti e doveri dei cittadini; Dell’abolizione dei fidecommessi.
La natura del testo costituzionale: la Costituzione siciliana del 1812
La Costituzione siciliana si inserisce all’interno di un gruppo di carte costituzionali promulgate in quel trono d’anni alla “periferia” d’Europa, tra le quali la Costituzione di Cadice del 1812 e la coeva Costituzione norvegese del 1814. Ad accomunare l’esperimento costituzionale siciliano e quest’ultima è non solo un remoto comune passato normanno, ma anche l’appartenenza dei due territori in questione a un’unione di Stati prima della guerra.
Il discrimine vero che differenzia la Carta siciliana sia dal testo norvegese sia dal più celebre testo iberico rimane però il modello da cui derivano le tre costituzioni. Nel caso siciliano è infatti l’esempio inglese e non quello francese ad essere emulato, con, però, una importante differenza, ovvero la presenza di un atto fondamentale scritto, essendo la costituzione britannica il prodotto del coordinamento di una serie di atti e disposizioni promulgati nel corso dei secoli.
Inoltre i due decreti sulla libertà di stampa e sulla libertà, diritti e doveri dei cittadini, costituiscono un’eccezione anche sul piano sostanziale e non solo formale, richiamando la «Dichiarazione dei diritti» tipica delle Carte francesi. Essi sono probabilmente il prodotto della volontà di alcuni settori del Braccio demaniale di contrastare le tendenze aristocratiche dei baroni.
Nonostante la storiografia siciliana della prima metà dell’Ottocento abbia insistito sulla tendenziale continuità delle istituzioni isolane, il 1812 segna uno spartiacque importante nella vita dell’isola, segnando il passaggio da un sistema ancora legato al modello della monarchia feudale a uno ispirato al coevo pensiero politico europeo.
Il potere legislativo è affidato al Parlamento, ora organizzato in due Camere, quella dei Pari e quella dei Comuni. La prima è ereditaria, mentre la seconda eletta tramite elezioni dirette. Inizialmente la prima risulta composta da 185 membri ‒ 61 ecclesiastici e 124 laici ‒ mentre la seconda si compone di 155 deputati eletti dalle città, da 23 distretti rurali e dalle Università di Palermo e di Catania.
Il requisito minimo per l’elettorato passivo è una rendita annua di 50 once a Palermo e 18 nelle altre zone dell’isola, mentre per l’elettorato attivo di 500 once nella capitale, 300 nei distretti e 150 nelle altre città. Le leggi approvate dal Parlamento devono ottenere il placet del sovrano.
Il potere esecutivo è riservato al monarca, che lo esercita per mezzo di un Consiglio privato di quattro segretari ‒ Esteri, Finanze, Guerra e Giustizia ‒ coadiuvati da consiglieri, in numero non superiore a otto. Il Consiglio è responsabile solamente davanti alla Corona, esprimendosi il sindacato del Parlamento solamente per questioni di ambito giuridico. La successione è regolata secondo quanto affermato dagli antichi statuti, ma l’articolo otto delle Basi introduce il principio di indipendenza dell’Isola decretando che in caso di riottenimento del regno di Napoli, il sovrano avrebbe dovuto o mandare là a regnarvi il figlio primogenito o cedere ad esso la corona di Sicilia.
Per quanto riguarda il potere giudiziario, esso è gestito da giudici di prima e seconda istanza risiedenti nelle città con più di tremila abitanti e da 23 tribunali distrettuali. Sono poi nominati cinque Tribunali Supremi, di cui tre a Palermo, uno a Messina e uno a Catania e un Tribunale di Cassazione con sede nella capitale. Vengono abolite le giurisdizioni speciali e dichiarati inamovibili e perpetui i giudici di Tribunale. Il potere locale, che trova espressione nelle Magistrature municipali e nei Consigli civici è regolato secondo il principio del self-government, lasciando quindi un’ampia autonomia.
L’abolizione della feudalità e il problema dei fidecommessi
La nuova Costituzione stabilisce anche l’abolizione della feudalità. Viene però garantita ai baroni la proprietà dei propri possessi oltre che un indennizzo per la maggior parte dei diritti feudali a cui hanno rinunciato. Maggiori problemi assume invece il problema dell’abolizione dei fedecommessi, che tradizionalmente hanno garantito l’inalienabilità dei beni delle grandi famiglie. La fazione guidata da Castelnuovo e Balsamo vuole infatti realizzare un’abolizione completa degli stessi, scontrandosi però contro la volontà di quella guidata da Belmonte.
La disputa rimane all’interno del Consiglio privato senza coinvolgere il Parlamento, portando di fatto a una soluzione compromissoria. Non viene infatti applicato il placet o il vetat da parte del vicario generale, e si adotta una formula dilatoria che rimanda l’approvazione del provvedimento alla presentazione di una legge al Parlamento ritenuta conforme alla Costituzione inglese, non considerando tale il progetto presentato dal Braccio demaniale.
Altra questione che crea frizioni all’interno dello schieramento costituzionale è la possibilità sostenuta da Castelnuovo di togliere dalle mani dell’esecutivo l’amministrazione dei beni e delle rendite della nazione devolvendoli al Parlamento. Contro tale proposta si abbatte, unico articolo delle basi ad essere respinto con tale formula, il veto assoluto del vicario generale. Al di là di queste differenze di vedute gli uomini del partito costituzionale sono comunque tutti ispirati da sentimenti liberal-conservatori e guardano con diffidenza ai potenziali pericoli insiti nel pensiero democratico, rimanendo tutti concordi sulla necessità di introdurre una soglia minima di censo per l’accesso ai diritti elettorali.
L’elezione del nuovo Parlamento e il problema dell’opposizione democratica
Il pretesto per l’elezione del nuovo Parlamento viene dato dal tentativo di Ferdinando IV di riprendere il controllo della situazione. Tornato a Palermo all’inizio del 1813, probabilmente sotto le pressioni della regina, egli revoca il mandato al vicario generale, cercando di sfruttare le spaccature emerse all’interno del partito costituzionale. Bentinck non si fa però trovare impreparato, occupata la capitale, impone al re di ritornare sui suoi passi.
Rinnovati i poteri del principe vicario Francesco, il sovrano torna a ritirarsi in campagna, mentre la regina prende la via di Mazara, proseguendo poi per Zante, Costantinopoli, Odessa e infine Vienna, dove sarebbe morta il 7 settembre 1814. Si svolgono a questo punto le elezioni che portano l’8 luglio all’apertura dei lavori parlamentari, sempre nell’ex Collegio dei Gesuiti.
Le elezioni del 1813 determinano l’ingresso alla Camera dei Comuni di un folto contingente di democratici, che causa un completo stravolgimento degli equilibri parlamentari. Le difficoltà vissute dal partito costituzionale, ora costretto a fare i conti con una dura opposizione e contemporaneamente insidiato dai realisti, portano, in conseguenza dei tumulti scoppiati a Palermo tra il 18 e il 19 luglio, a sospendere le guarentigie costituzionali e ad affidare i poteri a una Commissione militare presieduta dal generale Montgomerie, in attesa del ritorno di Bentinck dalla Spagna.
Altro fattore di destabilizzazione è infatti proprio la momentanea assenza dell’ufficiale britannico, che, fino a quel momento, ha agito come un attore di primo piano nella politica siciliana. Lo stallo in Parlamento è causato inizialmente dalla presentazione il 10 agosto da parte di Emanuele Rossi di un progetto di legge che vuole dare all’assemblea il potere di emanazione dei regolamenti d’esecuzione, tipicamente prerogativa dell’esecutivo.
Le difficoltà relative alla votazione del bilancio creano poi i presupposti per la crisi istituzionale, determinando le dimissioni del governo costituzionale. Il ritorno di Bentinck l’inverno successivo porta ‒ in seguito alla sostituzione del governo realista insediatosi dopo le dimissioni del gabinetto Castelnuovo ‒ allo scioglimento del Parlamento e alla proclamazione di una sorta di legge marziale contro i disturbatori della pubblica quiete e i nemici della Costituzione. Nella primavera del 1814 sono indette nuove elezioni, che, pilotate dall’alto attraverso l’utilizzo di violenze e illegalità, assicurano questa volta il predominio del partito costituzionale ai Comuni.
A destabilizzare la situazione politica dell’isola nel 1813 sono in realtà una serie di difetti di progettazione costituzionale che vengono a galla con l’effettiva entrata a regime del nuovo testo. Da una parte la forte autonomia conferita ai consigli civici elettivi diventa un problema per i baroni dopo il passaggio della riforma, votata prima dello scioglimento del Parlamento, che sancisce l’esclusione dei Pari dagli organi di governo locale.
Dall’altra sono gli organi centrali a dimostrare tutti i loro limiti. In primis il fatto di aver conferito la funzione legislativa al solo Parlamento, senza tener conto del modello del King in Parliament inglese, rende l’esecutivo debole davanti alle Camere, soprattutto, come si è visto, in materia di votazione di bilanci. Tale condizione è esasperata dalla mancata approvazione di un regolamento interno da parte dei Comuni e dal loro predominio nei confronti della Camera dei Pari, che ha solamente potere di veto e non di modifica nei confronti dei provvedimenti legislativi ivi presentati. A ciò si aggiunge infine il fatto che il gabinetto non sia espressione di una solida maggioranza e anzi spesso diventi il luogo dello scontro tra le due anime del partito costituzionale.
La fine del conflitto e i suoi riflessi sulla politica siciliana
In ragione di ciò già nell’autunno del 1813, in piena crisi, Castelnuovo commissiona a Paolo Balsamo un progetto di revisione della Costituzione. La proposta va nel senso di una modifica «ottriata» (dall’alto) della Carta siciliana, prevedendo la redazione del budget da parte dell’esecutivo e la suddivisione delle tasse in perpetue, ordinarie e straordinarie, oltre che la riduzione dei membri della Camera elettiva a 80 o 90. Il fine è ridimensionare gli estesi poteri dati alle Camere, fissando i limiti alla loro autorità, contemporaneamente provvedendo alla programmazione dei lavori delle stesse tramite l’approvazione di regolamenti e il rafforzamento dei poteri dei presidenti.
Il nuovo Parlamento dura pochissimi giorni. Convocato il 18 luglio si scioglie il 23. A marzo Bentinck si è allontanato nuovamente dall’isola per guidare un corpo di spedizione anglo-italiano all’attacco della ritirata francese, nel tentativo di inserirsi nella partita apertasi per il controllo della penisola. Sbarcato in Toscana, arriva fino a Genova, per fare poi ritorno a Palermo in giugno. Durante la sua assenza il comando delle operazioni viene preso da William A’Court, il quale, incaricato da Castlereagh di ridare stabilità al sistema istituzionale siciliano, vede come unica strada percorribile quella di ridare potere alla monarchia.
Tale soluzione diventa sempre più inevitabile dopo la sconfitta di Napoleone e la firma del trattato di Fontainebleau. Il clima che si viene a creare nel corso dei successivi negoziati che portano alla pace di Vienna è favorevole al ritorno dell’assolutismo borbonico. Il rapido disimpegno inglese dalla politica siciliana porta Bentinck, prima di lasciare definitivamente l’isola, a rimuovere il veto che impossibilita Ferdinando IV a riprendere l’iniziativa politica senza l’assenso britannico. Così all’inizio di luglio il sovrano ritorna in carica, esautorando il principe vicario. A soli cinque giorni dall’apertura dei lavori parlamentari il principe di Trabia è inviato come commissario reale a sciogliere le Camere, adducendo come motivo irregolarità nelle elezioni. Il 28 luglio Belmonte parte per la Francia, dove morirà qualche mese dopo.
La Restaurazione
La nuova Camera eletta in autunno è dominata da un clima fortemente polarizzato. Il fronte costituzionale è ormai spaccato tra la fazione di Castelnuovo e Balsamo, sempre più attratta nell’orbita conservatrice e realista e l’ala radicale di Aceto, ancora intenta a difendere la Costituzione del 1812. In generale si assiste sempre più a uno scontro frontale tra la Camera dei Pari e quella dei Comuni. I baroni che si erano battuti per la carta costituzionale, si trovano ora alleati con la monarchia per combattere l’azione dei democratici.
Il piano parzialmente attuato da Castelnuovo e Balsamo, prevede il rafforzamento del Consiglio privato tramite l’immissione di nuovi consiglieri, accompagnato dal messaggio del re alla Camera elettiva del 31 marzo 1815, in cui si intima ai Comuni di approvare il bilancio, minacciando in caso contrario di devolvere tale compito ai Pari. Rimane poi la questione della riforma costituzionale, che, davanti a necessità estrema, si pensa di imporre su iniziativa governativa dopo aver sciolto il Parlamento, ipotesi mai verificatasi.
Oltre a quella Balsamo-Castelnuovo sono discusse altre proposte di revisione del testo del 1812 ‒ come le «trenta linee» e il progetto del marchese Francesco Pasqualino ‒ che si rifanno al modello della Charte fatta approvare nel 1814 da Luigi XVIII in Francia.
Dal canto loro i democratici alla Camera elettiva, davanti alle difficoltà finanziare esasperate dalla sospensione del sussidio britannico, in ragione del ritiro delle truppe dall’isola, propongono nel febbraio di quell’anno, tramite progetto di legge, la concessione in enfiteusi dei fondi di svariate istituzioni ecclesiastiche e laicali, provocando una levata di scudi da parte della nobiltà isolana, che si richiama alla inviolabilità del diritto di proprietà.
A tener banco in quei mesi è poi anche una proposta di legge mirante a introdurre la procedura di impeachment, tramite la trasformazione delle Camere in Alta corte di giustizia, ancora legata, però, alla vecchia funzione giurisdizionale dei Parlamenti, trascurando l’evoluzione politica subita dall’istituto, registrata ad esempio dalla Costituzione di Philadelphia del 1789.
I lavori parlamentari proseguono fino al maggio 1815. Il 17 del mese il re parte alla volta di Napoli, venendo il 20, con la firma del trattato di Casalanza, restituiti i territori continentali alla dinastia borbonica. In seguito all’entrata delle truppe austriache il 23 maggio, il 17 giugno Ferdinando IV fa il suo ingresso trionfale nella capitale del regno.
Il procedere degli avvenimenti segna velocemente la fine della Costituzione siciliana. Il 15 maggio 1816 è approvato un decreto che vieta ai navigli ogni bandiera diversa da quella recante le insegne reali in campo bianco. L’8 dicembre il re ordina la costituzione del Regno delle Due Sicilie, unificando il titolo, in spregio all’articolo 17 della Costituzione del 1812 che ha proclamato l’indipendenza dell’isola. Senza essere ufficialmente abrogata la Carta siciliana viene di fatto progressivamente disapplicata e il Parlamento non più convocato.
La fortuna della Costituzione siciliana nel Risorgimento e le vicende post-unitarie
L’importanza della Costituzione siciliana del 1812 va ben al di là delle vicende storiche appena ripercorse. Essa rimane un punto di riferimento durante i moti del 1821 e del 1848 per i rivoluzionari siciliani e, in specie, palermitani, costituendo, a fianco della costituzione gaditana del 1812, uno dei principali modelli invocati dal fronte liberale in tutta Italia. Gli sforzi di quegli uomini portano il 10 luglio 1848 alla proclamazione, nuovamente da parte di un Parlamento liberamente eletto, dello Statuto costituzionale del Regno di Sicilia, che pone le sue fondamenta sulla dichiarazione d’indipendenza dell’isola, tramite il ripristino di una corona separata da quella di Napoli.
È proprio nel periodo inglese che affonda le sue radici il moderno autonomismo dell’isola. Invocato contro i Borbone nel corso del periodo della Restaurazione, esso porta alla redazione del rapporto del Consiglio di Stato straordinario di Sicilia del novembre 1860, i cui rilievi trovano in parte risposta nei progetti Farini-Minghetti del 1860-1861, inerenti a una sistemazione dell’ordinamento del nuovo Regno d’Italia su base regionale.
Tali episodi salienti sono rievocati, insieme alle norme sul Commissariato Civile istituito in Sicilia nel 1896, dal professor Salemi, presidente della Commissione di redazione dello schema Statuto autonomistico approvato nel 1945, nel secondo dopoguerra. Il Titolo V della Carta costituzionale del 1948 avrebbe finalmente accolto il principio autonomistico, a partire dal modello di Stato regionale definito dal professore siciliano Gaspare Ambrosini nel corso degli anni Trenta del Novecento.
Fonti:
Costituzione siciliana del 1812: http://www.dircost.unito.it/cs/docs/sicilia181.htm
Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. I, Le origini del Risorgimento, Milano, Feltrinelli,19726.
Il «decennio inglese» 1806-1815 in Sicilia. Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, a cura di M. D’Angelo, R. Lentini, M. Saija, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020.
Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari, Laterza, 1950.
Rosselli, Lord William Bentinck. The making of a liberal imperialist 1774-1839, London, Chatto and Windus for Sussex University Press, 1974.
Sciacca, La «nazione siciliana» nel linguaggio politico al momento della riforma costituzionale del 1812, in I linguaggi politici delle rivoluzioni in Europa XVII-XIX secolo, a cura di E. Pii, Firenze, Olschki, 1992.
Id., La recezione del modello costituzionale inglese in Sicilia, in Modelli di Storia del pensiero politico, vol. II, La rivoluzione francese e i modelli politici, a cura di V. I. Comparato, Firenze, Olschki, 1989.
Id., Riflessi del Costituzionalismo Europeo in Sicilia (1812-1815), Catania, Bonanno Editore, 1966.
La Costituzione del 1812 e il decennio inglese in Sicilia (1806-1815), a cura di F. Vergara Caffarelli, Regione siciliana, Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, 2012.
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- Il «decennio inglese» 1806-1815 in Sicilia. Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, a cura di M. D’Angelo, R. Lentini, M. Saija, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020.
- Rosario Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari, Laterza, 1973.