CONTENUTO
Il confine orientale e il Giorno del Ricordo
La Repubblica Italiana riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
(Legge 30 marzo 2004 n.92).
Perché il 10 febbraio? La scelta di tale data è per ricordare che quel giorno nel 1947 viene firmato il Trattato di pace tra le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale e l’Italia sconfitta, con la conseguente cessione di buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito e l’abbandono di numerose città che si affacciavano sul mare Adriatico da parte della popolazione di origine italiana (esodo istriano-dalmata).
Dalla romanizzazione alla Serenissima Repubblica di Venezia
Tale presenza “italica” risale ancora ai tempi in cui Roma, verso il terzo secolo a.C., si affaccia sul litorale settentrionale del mar Adriatico fondando prima Aquileia nel 181 a.C. e poi Tergeste (Trieste) e Pola. Ciò porta in breve tempo ad una profonda romanizzazione dell’Italia nord-orientale, tanto da prendere il nome sotto l’Imperatore Augusto di “Decima Regio Venetia et Histria”.
Caduta Roma e con essa l’Impero Romano d’occidente nel 476 d.C., questa parte dell’Italia nord-orientale e l’Istria passano sotto l’occupazione dei Goti di Re Teodorico, insieme al resto di gran parte dell’Italia, per poi subire l’influenza bizantina prima e l’occupazione dei Franchi di Carlo Magno, dal 778 d.C., mentre la Dalmazia subisce l’invasione slava.
Intorno all’anno 1000 i paesi del litorale istriano si costituiscono in Comuni, sia per difendersi dalle continue invasioni dei Saraceni che dalla crescente influenza di Venezia, fino alla caduta del potere temporale del patriarcato di Aquileia tra il 1420 e il 1421; caduta che sancisce la divisione dell’Istria tra il litorale adriatico, con la costa e le isole dalmate, sotto il dominio stabile della Serenissima, con l’esclusione della Repubblica di Ragusa e la parte interna e orientale sotto l’impero asburgico.
Venezia governa sull’Istria e la Dalmazia fino alla fine della Repubblica Serenissima per oltre quattro secoli, confrontandosi militarmente, commercialmente e ripetutamente con l’Impero Ottomano, subentrato nel frattempo al Regno di Ungheria-Croazia, fino al Trattato di Campoformio del 1797, mentre la Repubblica autonoma di Ragusa resta indipendente fino al 1808. La presenza veneziana su tutta la costiera istriano-dalmata è ancor oggi visibile con il leone di San Marco al centro delle città!
Napoleone Bonaparte, dopo la pace di Campoformio siglata con gli Asburgo, fa cessare di esistere lo Stato Veneto, facendolo diventare una semplice provincia austriaca e spezzando il cuore del vecchio Doge Manin, per ottenere in cambio il lembo di terra ad ovest dell’Adige annesso alla Lombardia francese e che ora prende il nome di Cisalpina.
L’Istria, la Dalmazia e le terre della ex Serenissima Repubblica di Venezia passano quindi sotto l’Impero Austro-Ungarico, dove un’efficiente burocrazia si innesta nel substrato civile e culturale della popolazione, portando le tre etnie italiana, slovena e croata a continuare ad avere quel senso dello Stato già presente sotto la Serenissima Repubblica di Venezia.
Il Regno d’Italia, il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale
Con la nascita del Regno d’Italia e la terza guerra di indipendenza purtroppo la politica degli Asburgo cambia nei confronti delle varie nazionalità esistenti all’interno dell’Impero, cominciano a crearsi delle tensioni tra le etnie italiana, slovena e croata, le quali fino ad allora avevano sempre vissuto in un clima di reciproca e tranquilla convivenza.
La proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 provoca un risveglio emotivo nella popolazione di lingua italiana della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, che negli anni a seguire si rivelerà sempre di più come una decisa volontà separatista, il cosiddetto “irredentismo”. Il nazionalismo italiano rivendica per sé le zone abitate da secoli dalle popolazioni di lingua veneta, scontrandosi con le analoghe e contrapposte aspirazioni delle popolazioni di origine slava: tra queste tensioni si arriva allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Grande Guerra!
L’Italia entra in guerra il 24 maggio 1915, dopo aver firmato con le potenze dell’Intesa il patto di Londra un mese prima, nel quale veniva garantito che, a guerra finita, all’Italia sarebbero stati annessi i territori del Trentino, di Trieste, di Gorizia, dell’intera Istria, della Dalmazia con le isole, Zara compresa.
Con la conclusione della guerra e il conseguente armistizio con l’Austria il 3 novembre 1918, l’Italia occupa tutti i territori del confine orientale, come previsto dal Patto di Londra. Ma col trattato di pace di Versailles del 1919 le cose cambiano, i vincitori della guerra si dividono, non trovano un’intesa sul confine orientale italiano, fino ad arrivare al 12 novembre 1920 in cui si firma l’accordo di Rapallo tra il Regno d’Italia e il neo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (futura Jugoslavia). Con questa firma l’Italia annette tutta la Venezia Giulia,
Zara, ma non la Dalmazia, mentre Fiume diviene Stato libero. Ma nel frattempo la città era stata occupata sin dal settembre 1919 da Gabriele D’Annunzio e dai suoi legionari, instaurando la Reggenza del Carnaro. Fiume viene bombardata dalle navi italiane intervenute per attuare il Trattato, mettendo in fuga i legionari di D’Annunzio, ma solo nel 1924 si giunge all’accordo tra Italia e Jugoslavia con l’annessione di Fiume all’Italia, mentre una parte dell’entroterra e Porto Baros vanno alla Jugoslavia.
Il Ventennio fascista peggiora i rapporti tra gli italiani da una parte e gli sloveni e i croati dall’altra. Le scuole di lingua slovena e croata vengono italianizzate, le associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali ed economiche delle due minoranze vengono soppresse, cosa che accade analogamente per la minoranza italiana in Dalmazia, controllata dalla Jugoslavia: le ritorsioni tra i due paesi nei confronti delle rispettive minoranze continueranno a perpetrarsi fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale.
La Jugoslavia viene invasa dalle truppe tedesche, italiane e ungheresi nell’aprile del 1941, che in poco tempo spazzano via l’esercito jugoslavo, il Re Pietro II fugge a Londra con il suo governo e l’Italia annette immediatamente tutta la costa dalmata, isole comprese, ottenendo il pieno controllo di tutta la sponda orientale del mare Adriatico, fino a Spalato.
È da questo momento che, con i numerosi reparti dell’ex esercito jugoslavo dati alla macchia, si comincia a formare il movimento partigiano, impersonificato dai cosiddetti “titini” (dal nome del loro capo militare Tito, al secolo Josip Broz). Tito, che punta a creare uno Stato comunista sul modello sovietico, applica nell’area istriana un modello già sperimentato in altre parti del territorio jugoslavo, che prevedeva nelle zone liberate l’instaurazione di un nuovo ordine, l’azzeramento di quello precedente e non ultima l’eliminazione dei ”nemici del popolo”, intesi come segmenti di popolazione ritenuti pericolosi per il movimento di liberazione e invisi agli alti comandi “titini”.
Si contestualizza una fase di “resa dei conti”, seguita alla caduta del fascismo e alla fine della durissima occupazione nazista, che vede l’esplosione di violenza non solo contro fascisti e nazisti, ma anche contro civili sia di lingua italiana che slovena e croata, solo perché “non comunisti”, scenario non molto difforme da quello di altri dopoguerra europei, direttamente mutuato dall’esperienza bolscevica e dalla spietatezza del totalitarismo staliniano.
Tutto questo si traduce in Istria nell’arresto immediato di tutti coloro che sono ritenuti “incompatibili” con il nuovo potere: personalità di spicco nelle gerarchie del partito fascista (dirigenti e squadristi), esponenti della società locale ( commercianti, farmacisti, proprietari terrieri), e rappresentanti dello stato italiano, come i podestà, i segretari, i maestri, i carabinieri, i messi comunali, i cui simboli rappresentati dal municipio, dal tribunale, dal catasto comunale e dall’erario vengono distrutti e dati alle fiamme.
Le Foibe 1943-1945
È in questo contesto che il termine FOIBA, dal latino FOVEA, diviene tristemente noto per definire le violenze di massa perpetrate da parte del movimento popolare di liberazione nazionale jugoslavo nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945, a danno di militari e civili in larga parte, ma non esclusivamente, nei confronti della popolazione di lingua italiana.
Depressioni carsiche a forma di imbuto, inghiottitoi naturali, sul fondo delle quali si aprono profonde spaccature, utilizzate prima del secondo conflitto mondiale nel retroterra triestino come deposito di materiale di scarto, le Foibe vengono impiegate durante la seconda parte della guerra, soprattutto dopo l’8 settembre 1943, per celare i corpi dei caduti in combattimento e delle vittime di eccidi: infoibare non diventa una modalità di esecuzione, ma un metodo di eliminazione e occultamento dei nemici che, legati con il filo di ferro ai polsi, vengono condotti sull’orlo della cavità e fucilati collettivamente.
Una spietata guerra civile, che il movimento partigiano di Tito rivolge non solo contro gli italiani, ma anche contro potenziali dissidenti, magari legati alla monarchia, sloveni e croati, che vengono imprigionati o giustiziati, soldati collaborazionisti jugoslavi (ustascia, cetnici e domobranci) come pure semplici civili jugoslavi anticomunisti con le loro famiglie che, cercando di fuggire verso l’Austria, vengono sterminati nei pressi di Bleiburg, località al confine con la Slovenia, nel maggio del 1945.
L’intreccio di questi fattori evidenzia che ciò che accade nel 1943 ha delle particolarità rispetto alle vicende della primavera 1945, quando nella Jugoslavia si afferma definitivamente il comunismo ortodosso del regime di Tito con metodi rigidissimi ed epurazioni, e dove viene condannato persino l’arcivescovo cattolico di Zagabria Alois Stepinac, accusato di aver dato la sua benedizione allo stato collaborazionista di Ante Pavelic. A Pisino viene creato un tribunale rivoluzionario, nel castello di Montecuccoli viene concentrata la maggior parte degli arrestati provenienti da tutte le parti dell’Istria e di questi numerosi vengono condannati a morte dopo giudizi sommari: chi fucilati, chi invece eliminati in massa ai primi di ottobre del ’43 e infoibati.
È quindi dopo l’8 settembre che si vede non solo il coinvolgimento dell’entroterra piuttosto che delle città, ma soprattutto si crea un nesso tra il furore popolare e la precedente oppressione sociale abbattutasi sulla popolazione croata durante il ventennio fascista. In una situazione di generale confusione, emerge un’analisi del periodo post 8 settembre 1943 dove le motivazioni politiche si mescolano con contrasti e rancori personali, i contadini croati si sollevano contro i possidenti italiani, le motivazioni nazionali e politiche e la resa dei conti contro il fascismo si confondono con elementi di lotta sociale, contrasti di interesse e odio personale al punto da rendere molto labile la linea di separazione tra risentimenti individuali e violenza collettiva, che a volte assume forme di esecuzioni, precedute da efferatezze e sevizie.
In questo contesto storico, il caso più emblematico è quello di Norma Cossetto, figlia di Giuseppe, podestà di Visinada d’Istria, studentessa all’università di Padova, di soli 22 anni, che dopo essere stata oggetto di stupro collettivo per svariati giorni, viene uccisa nella foiba di Antignana (Villa Surani) tra il 4 e il 5 ottobre 1943. Alla sua memoria nel 2006 viene conferita dal Presidente Carlo Azelio Ciampi la medaglia d’oro al merito civile con questa motivazione:
“Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e amor patrio, 5 ottobre 1943 – Villa Surani (Istria)”.
Si possono individuare quindi due scale di violenza: quella che trova sfogo nell’incendio degli archivi e catasti comunali, e quella che stila le liste dei soggetti da colpire, li scova, li arresta senza fare rumore, magari di notte, li ammassa, li sposta e li elimina con rapidità, occultando i cadaveri appunto nelle foibe.
Alla violenza pianificata si affianca una confusione organizzativa e politica, che vede i comandi titini adottare criteri di selezione tali da raggiungere un duplice obiettivo: colpire duramente tutti coloro ritenuti responsabili di aver esercitato pressioni e violenze sulla popolazione croata e intimorire la componente italiana sgretolandone non solo l’egemonia economica e culturale, ma riducendo il suo peso specifico sull’intera società, prologo dell’esodo istriano e dalmata che vedrà donne e uomini costretti a perdere i pezzi di terra e di mare, luoghi familiari che lo scrittore triestino Claudio Magris definisce suggestivamente luoghi dove: ”SI POSA IL PIEDE, SI NASCE E SI MUORE”.
L’Esodo
L’esodo dalla Venezia Giulia comincia all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, soprattutto dopo la firma del Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947, che tra l’altro prevede la cessione della maggior parte della regione giuliano-istriana alla Jugoslavia di Tito, creando il cosiddetto Territorio Libero di Triste (T.L.T.): la Zona A, comprendente Trieste, sotto amministrazione militare anglo-americana e la Zona B, sotto il comando del generale Mirko Lovac, dell’amministrazione militare della Jugoslavia di Tito.
Un segnale forte e chiaro della volontà della Jugoslavia di non cedere i territori occupati era stato dato qualche mese prima a Pola, teatro di un feroce attentato sulla sua spiaggia di Vergarolla il 18 agosto del 1946, dove esplosero 28 ordigni in mezzo alla gente che stava in riva al mare. Bilancio drammatico di vittime, ma segnale forte e chiaro agli italiani: dovete andarvene! Pola al 95% abitata da italiani, si spopola in pochi mesi dei suoi 34.000 abitanti per divenire una città fantasma (il piroscafo Toscana parte per il suo primo viaggio, dei dieci, da Pola con il suo carico di esuli il 3 febbraio 1947).
L’esodo era cominciato! Circa 300.000 lasciano quelle terre, soprattutto dalle città costiere di Pola, Fiume, Zara, Cittanova, Parenzo, Rovigno e dalle isole di Cherso e Lussino. Gli esuli Giuliano-Dalmati vengono accolti in Italia, spesso con diffidenza, negli oltre 140 Centri di Raccolta, i C.R.P., dove vi rimangono per lunghi periodi, abbandonando tutti i loro beni immobili e mobili (famoso il Magazzino 18 al porto di Trieste, oggi Magazzino 26), tanti si fermano a Trieste, Udine e Gorizia, ma tanti emigrano nelle Americhe e in Australia.
Ha detto il Presidente della Repubblica Mattarella: “Le foibe e l’esodo hanno rappresentato un trauma doloroso per la nascente Repubblica, che si trovava ad affrontare la gravosa eredità di un Paese uscito sconfitto dalla guerra. Quelle vicende costituiscono una tragedia, che non può essere dimenticata. Non si cancellano pagine di storia, tragiche e duramente sofferte. I tentativi di oblio, di negazione, o di minimizzare sono un affronto alle vittime e alle loro famiglie e un danno inestimabile per la coscienza collettiva di un popolo e di una nazione”.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Enrico Miletto, Novecento di confine. L’Istria, le foibe, l’esodo, Franco Angeli, 2020.
- Andrea Legovini, Tito, Stalin e la questione di Trieste, Luglioprint Trieste, 2021.
- Marco Cuzzi, Guido Rumici, Roberto Spazzali, Istria, Quarnero, Dalmazia. Storia di una regione contesa, dal 1796 alla fine del XX secolo, LEG, 2009.
- Arrigo Petacco, L’esodo. La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Mondadori 2010.
- Andrea Di Michele, Terra italiana. Possedere il suolo per assicurare i confini 1919-1954, Editori Laterza, 2023.