CONTENUTO
I primi passi del colonialismo italiano
L’Africa ci attira invincibilmente. È una predestinazione. Ci sta sugli occhi da tanti secoli questo libro suggellato, questo orizzonte misterioso che ci chiude lo spazio, che ci rende semibarbaro il Mediterraneo, che costringe l’Italia a trovarsi sugli ultimi confini del mondo civile… L’Africa, sempre l’Africa! L’abbiamo proprio sugli occhi e fin qui ne siamo esiliati.(1)
E’ il 18 aprile 1875 quando Cesare Correnti, patriota e uomo politico di origine milanese, lascia questa dichiarazione romantica e provocatoria durante un incontro, tenutosi a Roma, della Società Geografica Italiana, fondata a Firenze nel 1867. In realtà, sino a quel momento, nessuno in Italia, fatta eccezione per una strettissima cerchia di studiosi e viaggiatori, ha dimostrato un reale interesse verso il Continente Nero.
Dal 1861, anno dell’unificazione nazionale, i vari governi della Destra che si sono succeduti focalizzano la propria attenzione sugli innumerevoli problemi di politica interna che affliggono il Paese: il fenomeno del brigantaggio, l’arretratezza del Mezzogiorno, la questione romana con il Vaticano, le vicende legate ai confini nord orientali, le crisi economiche. Solo dopo aver parzialmente stabilizzato la propria situazione interna, l’Italia decide di uscire dal proprio isolamento diplomatico e di iniziare a volgere, tardivamente, lo sguardo anche al di fuori dei confini nazionali.
Gli anni Settanta sono per il colonialismo italiano sostanzialmente anni di preparazione ideologica: dai viaggi di scoperta di qualche curioso viaggiatore come Carlo Piaggia, Giovanni Miani e Romolo Gessi, si passa infatti alle esplorazioni programmate con specifici obiettivi economico-politici.
Portata a termine l’unità territoriale, Cesare Correnti fa acutamente notare che alla giovane Italia non resta che prendere esempio dalle altre nazioni europee e diventare a sua volta una grande potenza. A spingere l’Italia a gettarsi nella “zuffa per l’Africa” concorrono diversi fattori. Innanzitutto il quadro politico internazionale che vede, dalla metà degli anni Settanta, l’espansionismo imperialistico soppiantare definitivamente il liberismo pacifico di inizio Ottocento.
In secondo luogo, la tendenza ad asservire la politica estera italiana alle esigenze delle politiche interne; tendenza che troverà la sua espressione più alta nel progetto di Francesco Crispi di superare il trasformismo parlamentare in nome della volontà generale del Paese. Va in terzo luogo rammentato che un ruolo di notevole importanza assumono i circoli espansionistici nati all’interno delle società geografiche i quali, insoddisfatti della linea politica moderata e difensiva portata avanti dalla classe dirigente, iniziano a sostenere la necessità di creare delle colonie per aumentare il prestigio nazionale.
Tra gli obiettivi coloniali, che vengono paventati all’interno di questi circoli (obiettivi in realtà più teorici che realistici), rientrano la Tunisia, la Tripolitania, il Congo e il Corno d’Africa. Ad orientare il governo italiano verso le coste del Mar Rosso sono gli interessi economici scaturiti dall’apertura del Canale di Suez (17 novembre 1869) e la conseguente necessità di assicurarsi una stazione di servizio lungo la nuova via di comunicazione con l’Estremo Oriente.
L’armatore genovese Raffaele Rubattino, che aveva avviato una linea di navigazione Genova-Alessandria, tenta di ampliare il proprio giro d’affari, inserendosi in questo nuovo flusso commerciale. A tal proposito, da una parte chiede e ottiene l’appoggio del governo, che inizia a sovvenzionare le sue tratte mediterranee, e dall’altra, intuisce la necessità di trovare un accordo con il capo-villaggio di Assab, sulla costa del Mar Rosso, per poter stabilire in quel luogo un punto di appoggio e di rifornimento.
A svolgere un ruolo chiave in questo contesto è l’irrequieto Giuseppe Sapeto, “già padre lazzarista a Massaua nel 1838, in missione per Propaganda Fide in Etiopia nel 1851, agente di Napoleone III nel 1860, professore di lingue orientali, viaggiatore e pubblicista”(2). Dopo aver ricevuto dal Primo Ministro Luigi Federico Menabrea l’incarico di esplorare le rive del Mar Rosso, Sapeto, affiancato dal contrammiraglio Guglielmo Acton, parte da Brindisi il 12 ottobre 1869.
Acquisizione della baia di Assab e di Massaua
Una volta giunti sulla costa dell’Africa Orientale, i due italiani perlustrano le zone limitrofe ad Assab e intavolano delle trattative con due sultani del posto con cui sottoscrivono il 15 novembre una convenzione: tale accordo prevede il pagamento, entro cento giorni, delle 30 mila lire fissate per l’acquisto del pezzo di terra in questione.
Concluso l’accordo Sapeto e Aton fanno ritorno in Italia dove nel frattempo il moderato Giovanni Lanza è diventato Presidente del Consiglio al posto di Menabrea il quale, prima di dimettersi, ha vivamente sollecitato il Rubattino, affinché portasse a termine l’acquisto della baia di Assab. Allestita dunque una piccola flotta, il professore di lingue orientali e altri rappresentanti della Rubattino ripartono per l’Africa, dove l’11 marzo 1870 perfezionano l’accordo e il 13, dopo aver issato la bandiera italiana su un promontorio di quel lembo di costa, celebrano la fondazione di questo primo stabilimento italiano nel Continente Nero.
L’acquisto di Assab, oltre ad indispettire l’Egitto e l’Inghilterra, da tempo interessate a quella zona, non genera alcun entusiasmo in Patria e viene accolto con freddezza dagli stessi ambienti governativi; basti pensare che solo nel marzo del 1871 la questione viene frettolosamente accennata in Parlamento, grazie ad un caloroso intervento del generale Nino Bixio. Visto il disinteresse del governo Lanza, poco propenso ad inaugurare la stagione coloniale, lo stesso Rubattino rinuncia ad utilizzare la piccola baia di Assab, che per quasi un decennio rimane deserta e abbandonata.
Le cose cambiano nel marzo 1879, quando l’armatore genovese decide di disfarsi della sua proprietà africana, nel momento in cui la Camera decide di interrompere il sovvenzionamento delle sue tratte commerciali. Dopo aver ottenuto il consenso dell’Inghilterra, proprietaria di Aden sulla costa opposta e assai vigile sugli accadimenti in quella zona, il governo italiano nell’estate 1882 compra Assab che, in tal modo, da stabilimento privato diventa a tutti gli effetti un possedimento statale.
Il riavvicinamento con l’Inghilterra, resosi indispensabile per motivi strategici legati alla politica coloniale e di cui è principale artefice il liberale Ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini, frutta all’Italia anche l’acquisizione del porto di Massaua, dove i soldati italiani entrano indisturbati e in piena tranquillità l’8 febbraio 1885.
La nascita di un impero formale oltremare provoca trasformazioni nella vita politica, culturale e sociale del Paese. Seppur le dimensioni della colonia siano assai insignificanti, specialmente se paragonate agli immensi imperi delle altre potenze, non mancano le illusioni all’interno della penisola e all’opinione pubblica tutto è presentato come una grande realtà e come l’avvio di una grande missione.
Il Ministro Mancini, presentando la missione in Africa come una specie di continuazione della politica continentale, che vede l’Italia legata alla Germania e all’Austria dal 1882, è determinato nel sottolineare che il Paese non può sottrarsi al doveroso compito di esportare nei nuovi territori la civiltà europea. Criticato duramente dalla Camera “per l’iniziativa coloniale sulla sponda del Mar Rosso di cui era arduo scorgere i vantaggi e per la collaborazione troppo stretta con Londra”(3), nel maggio del 1885, egli si vide costretto a rassegnare le dimissioni.
Con Mancini, tenace sostenitore del principio di nazionalità dei popoli, esce di scena colui che paradossalmente alimenta le ambizioni colonialiste del Paese, divenendo, suo malgrado, l’iniziatore della politica imperialistica italiana. Inizialmente la situazione nei territori africani appena acquisiti appare tranquilla; la composizione etnica della popolazione di quell’area è da tempo complessa e articolata: accanto agli autoctoni seminomadi di religione musulmana e cristiana, vi sono anche egiziani, turchi, indiani e britannici.
Un sistema composito, dunque, all’interno del quale non mancano scontri e conflitti di diversa natura e dove le insidie non tardano a palesarsi agli italiani. La fretta, l’ambiguità e la superficialità, con cui è stata preparata ed impostata la spedizione, hanno delle ripercussioni negative, soprattutto per quel che riguarda l’ambito strettamente militare.
Numerosi pezzi di artiglieria rimangono sepolti nelle stive delle navi e, inoltre, dopo poche settimane dallo sbarco, le uniformi invernali dei soldati si dimostrano inadeguate di fronte alle elevate temperature di quei luoghi. Non bisogna trascurare il fatto che, allo stesso modo di buona parte della classe dirigente, le massime gerarchie delle forze armate non vedono di buon occhio la decisione governativa di impegnarsi su un fronte coloniale.
La colonia italiana nel corno d’Africa
Installatasi a Massaua, che in maniera ambigua viene stata presentata dal Mancini come un semplice avamposto commerciale e non come un trampolino di lancio per espandersi nell’entroterra, i militari decidono di allargare l’area di occupazione per scopi difensivi e, con l’avallo del Ministero degli Esteri, iniziano a perlustrare i luoghi limitrofi.
Così facendo, entrano in contrasto con le autorità autoctone, nel caso specifico con il ras Alula, luogotenente di quel territorio per conto dell’imperatore d’Etiopia Giovanni IV, da tempo intenzionato a raggiungere uno sbocco al mare proprio in quell’area. Quando quest’ultimo è informato dell’occupazione italiana della località di Saati, irritato e preoccupato, scrive una lettera carica di risentimento contro i nuovi arrivati; il destinatario di tale missiva è un altro suo vassallo, l’ambizioso negus dello Scioà Menelik II:
Il loro inganno e la loro malafede non cessano mai. (…) Non è gente seria, sono degli intriganti e questo deve essere tutto un lavoro che mi fanno gli inglesi. Gli italiani non sono venuti da queste parti perché nel loro paese manchi il pascolo e il grasso, ma vengono qui per ambizione, per ingrandirsi, perché sono troppi e non sono ricchi. Con l’aiuto però di Dio, ripartiranno umiliati e scontenti e con l’onore perduto davanti a tutto il mondo. (…) Se noi due resteremo sempre uniti, non i fiacchi italiani, ma anche i forti di altre nazioni vinceremo. Come Adamo volle gustare il pomo proibito per l’orgoglio di diventare più grande di Dio, e invece non trovò che il castigo e il disonore, così accadrà agli italiani.(4)
Mentre la tensione e i malintesi tra le parti aumentano sempre di più, il governo ora guidato da Agostino Depretis prende la decisione di unificare i comandi di terra e di mare insieme alle responsabilità civili nella “microcolonia”, sostituendo il rigido colonnello Tancredi Saletta con il più gioviale maggior generale Carlo Genè, combattente durante le guerre risorgimentali, scienziato e direttore dell’Istituto Geografico Militare di Firenze.
Il nuovo comandante delle forze armate arriva a Massaua il 12 novembre con l’ottimistica intenzione di appianare le tensioni e stabilizzare la situazione. La sua nomina coincide con quella del nuovo Ministro degli Esteri, il generale Carlo Felice Nicolis di Robilant, in passato ambasciatore per un ventennio a Vienna e convinto anti-africanista.
Grazie all’ottimismo del generale Genè e al misurato interesse sulla questione del ministro Di Robilant, nel maggio 1886 vengono diminuiti gli effettivi del corpo di spedizione in Africa e fino al mese di luglio sui territori di confine con l’Abissinia non si verificano incidenti significativi.
Ai primi di agosto il ras Alula, per mettere in stato di allarme il presidio di Massaua, compie una vasta razzia in un paese di confine che aveva chiesto, in precedenza, la protezione degli italiani. Prendendo come pretesto quest’azione, Genè prende la scellerata decisione di occupare altre due località: Zula il 1° settembre e Ua-à il 23 novembre. Si arriva così alla definitiva rottura, ma anche di fronte all’evidenza, il comandante italiano e il ministro degli Esteri continuano a sottovalutare gli avversari, allo stesso modo di buona parte dell’opinione pubblica.
La battaglia di Dogali del 26 gennaio 1887
Il 24 gennaio 1887, durante la seduta della Camera, in risposta ad alcune domande parlamentari riguardo la minaccia etiopica a Massaua, il ministro Di Robilant, dopo aver elogiato le egregie qualità umane e militari del Genè, pronuncia queste ingenue e sprovvedute parole: “Non mi pare che nel momento attuale convenga, e non conviene certamente, attaccare tanta importanza a quattro predoni che possiamo avere tra i piedi in Africa”. (5)
Mai affermazione fu più infelice e carica di conseguenze. In quelle stesse ore, ras Alula mette in atto un piano strategico per attirare gli italiani in una trappola, ordinando l’attacco del fortino costruito a Saati e difeso dal maggiore Giovanni Battista Boretti con due compagnie di fucilieri. Giunta a Massaua, alle 17 del 25 gennaio, la notizia dell’accaduto, il generale Genè, senza pensarci due volte, ordina al tenente colonnello Tommaso De Cristoforis di partire in soccorso con le munizioni, i viveri e cinquecento uomini.
La tranquillità diffusa tra gli italiani traspare dalla testimonianza resa successivamente dall’unico ufficiale sopravvissuto, il capitano Carlo Michelini di San Martino: “In noi non v’era alcuna preoccupazione, si chiacchierava allegramente, osservando la vegetazione rigogliosa sulle sponde del Desset, che dava al paesaggio un aspetto gaio e festante”. (6) A differenza di ciò che pensano il Genè e il De Cristoforis, ras Alula non si è affatto ritirato nell’entroterra a leccarsi le ferite, ma, al contrario, sta aspettando nel punto migliore e più adatto la colonna dei rinforzi, completamente ignara del pericolo incombente.
La mattina del 26 gennaio 1887, poco dopo le 8, nei pressi della conca di Dogali, ad appena un’ora da Saati, gli esploratori italiani segnalano la presenza, secondo le stime iniziali, di circa 12 mila abissini armati. Il colonnello De Cristoforis, invece di ripiegare, si prepara per affrontare il nemico e sceglie come posizione un promontorio facilmente aggirabile ed esposto al tiro dalle collinette intorno, che, infatti, vengono immediatamente occupate dai soldati di Alula.
Dopo circa un’ora la situazione è già irrimediabilmente compromessa. Al De Cristoforis non rimase che inviare un corriere a Massaua per chiedere aiuto di uomini e cannoni, ma è tutto inutile. Augusto Salimbeni, preso in ostaggio dal ras Alula pochi giorni prima insieme ad altri due italiani e condotto incatenato sul luogo del combattimento, ha la sventura di assistere allo scontro iniziale, all’accerchiamento e al massacro dei suoi connazionali:
Di là potei scorgere come gli abissini, che arrivavano come formiche, si disponessero a circuire la posizione degli italiani, ordinandosi a stormi su due ampi circoli presso a poco concentrici. Ho apprezzato che le forze abissine salissero alla cifra di 20 mila uomini per la maggior parte armate di lancia e scudo e di sciabole pesanti; i fucili sono in numero minore ma rilevante (…). Mentre la colonna De Cristoforis sosteneva un fuoco violentissimo, gli abissini eseguivano il loro movimento di accerchiamento, mettendosi al coperto dietro alle pieghe del terreno per cui mi sembrava che il fuoco tenuto dai nostri, fatto a distanza rilevante e contro un bersaglio piccolissimo, non avesse quell’efficacia che si sarebbe voluta. Poco oltre il mezzogiorno gli uomini di ras Alula avevano compiuto il movimento girante. Si dette il segnale dell’attacco; i tamburi e tamburelli del ras non cessavano di battere, ed all’improvviso da ogni parte, come se sbucassero da terra, una tempesta di uomini si lanciò all’attacco, la cavalleria stessa abissina caricò sul fianco dell’altura e in pochi minuti tutto fu finito. (7)
A Dogali i caduti della battaglia sono 430 e molti italiani periscono per la mancanza di soccorso; la ricognizione sul campo di battaglia, condotta dal comandante della seconda colonna di rinforzo, capitano Tanturri, è infatti affrettata e superficiale, tanto che decine e decine di feriti sono abbandonati a se stessi, agonizzanti e sofferenti.
La disfatta di Dogali mette in evidenza tutti i difetti del colonialismo dilettantistico e sprovveduto degli italiani ed è semplicemente un caso fortuito a permettere alla “microcolonia” di continuare a sopravvivere. Resistendo alle numerose sollecitazioni dei suoi luogotenenti, ras Alula, soddisfatto del risultato ottenuto, rinuncia a marciare su Massaua, distante solo qualche ora. Dal canto suo, il generale Genè, resosi conto del grave pericolo, ordina lo sgombero di tutti gli avamposti, che vengono immediatamente evacuati dopo aver distrutto le fortificazioni e le artiglierie.
Note:
- (1) Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. Dall’unità alla marcia su Roma, Mondadori, Milano, 2001, p. 3.
- (2) Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 41.
- (3) Giancarlo Giordano, Cilindri e feluche: la politica estera dell’Italia dopo l’Unità, Aracne, Roma, 2008, p. 268.
- (4) Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, op. cit., p. 212.
- (5) Del Boca, op cit. p. 220.
- (6) Cit. in Del Boca, op. cit. p. 240.
- (7) Augusto Salimbeni, Diario d’un pioniere africano, manoscritto, pp. 445-6, in Del Boca, op. cit. p. 243.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano. Documenti, Loescher, Torino, 1973.
- J. L. Miege, L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 1976.
- Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. Dall’unità alla marcia su Roma, Mondadori, Milano, 2001.
- Francesco Surdich (a cura di), L’esplorazione italiana dell’Africa, Il Saggiatore, Milano, 1982.
- Giampiero Carocci, L’età dell’imperialismo, Il Mulino, Bologna, 1979.
- Eric Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, Laterza, Roma-Bari, 1987.
- Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2017.
- Giancarlo Giordano, Cilindri e feluche: la politica estera dell’Italia dopo l’Unità, Aracne, Roma, 2008.