CONTENUTO
L’assedio di Tessalonica: 1422-1430. Murad II contro la Repubblica di Venezia
Nel corso del XIV secolo l’avanzata dell’impero ottomano nella penisola anatolica sembra essere inarrestabile. La debolezza dell’impero bizantino è sempre più evidente e le conquiste di Bursa (1326), Nicea (1331) e Nicomedia (1337) regalano alla compagine turca il controllo di tutto il territorio affacciato sul Mar di Marmara.
Sul finire dello stesso secolo cade anche Tessalonica (ritornerà di nuovo bizantina nel 1403) e la successiva vittoria sui serbi permette agli ottomani di arrivare sulle sponde del Mediterraneo orientale; sono questi gli anni in cui le pressioni su Costantinopoli diventano sempre più pesanti. Dal 1394 il sultano ottomano mette a ferro e fuoco la Tracia e la capitale bizantina subisce un vero e proprio blocco commerciale e militare che la esclude da qualsiasi contatto esterno.
Nemmeno l’aiuto europeo invocato dall’Imperatore Manuele II Paleologo riesce a liberare la città, infatti la spedizione dell’esercito franco-ungherese guidata dal futuro imperatore del Sacro Romano Impero, Sigismondo di Lussembrugo, naufraga nella disfatta di Nicopoli del 1396.
Quando la situazione sembra ormai compromessa, Manuele II e l’impero vengono salvati dall’invasione dell’Anatolia orientale da parte di Tamerlano, condottiero mongolo fondatore dell’impero timuride (1), che nella battaglia di Ancyra del 1402 cattura il sultano Bayezid. Costantinopoli è salva.
Poco meno di venti anni dopo, il sultano ottomano Mehmed I, successore di Bayezid, muore lasciando il trono al figlio Murad II. Giovanni VIII, figlio dell’ormai morente imperatore Manuele II, decide di intromettersi nella successione dinastica. Per destabilizzare il governo della Sublime Porta (2), Giovanni sostiene come candidato al trono un altro pretendente, Mustafa Celebi (3), primogenito del vecchio sultano Bayezid. Dotato di un piccolo esercito Mustafa invade l’Asia Minore, ma viene rapidamente sconfitto e ucciso da Murad.
Per vendicarsi dell’affronto subito il nuovo sultano prepara contemporaneamente due attacchi: uno contro Costantinopoli e uno contro Tessalonica (4), la seconda città più grande e importante dell’impero bizantino. L’assedio alla capitale si rivela ben presto un fallimento, perché le mura e il sistema difensivo della Città D’oro (5), sebbene non più agli splendori, si dimostrano in grado di respingere l’attacco turco.
Non avendo ottenuto grandi successi, Murad II sceglie di ritirare le truppe e di concentrarsi esclusivamente su Tessalonica. La città macedone, circondata da una possente cinta muraria dotata di cinque torri fortificate e ben armate, è posta sotto assedio dal giugno del 1422; la sua difesa è affidata al despota cittadino Andronico Paleologo, figlio dell’imperatore Manuele II.
Nonostante la salute deficitaria di Andronico, l’esiguo numero di truppe e di pezzi di artiglieria a disposizione, la coraggiosa resistenza bizantina dura circa undici mesi. Nell’estate dell’anno successivo con la città ridotta alla fame e senza nessuna possibilità di liberarsi dell’assedio, il despota, appoggiato da Manuele II, chiama in soccorso i veneziani; nel giro di pochi mesi la trattativa diplomatica tra Venezia e l’impero bizantino va a buon fine.
Il doge veneziano Francesco Foscari accetta la proposta imperiale e Tessalonica viene ceduta per 50.000 ducati: nel settembre del 1423 lo stemma del leone di San Marco si innalza fiero sulla città. Per invertire le sorti del conflitto il doge affida immediatamente una consistente flotta all’ammiraglio Pietro Loredan, il quale, grazie a continue incursioni negli stretti del Mar Egeo, riesce ad allentare momentaneamente la pressione ottomana.
La violenza di Murad II però non si placa, gli attacchi via terra, sempre più impetuosi, aprono le prime brecce nella cinta muraria, mentre il blocco navale isola completamente Tessalonica, impedendo così qualsiasi tipo di aiuto e di rifornimento dal mare. Nella primavera del 1425 Venezia allestisce un’altra imponente flotta composta da venti galere e la affida al Capitano Fantino Michiel: la sua spedizione si rivela un successo, viene momentaneamente spezzato il blocco marittimo e vengono conquistate due fortezze importanti nella penisola calcidica, come Platamona e Cassandria.
Per la Serenessima (5) questo è il momento di provare ad intavolare delle trattative di pace con la Sublime Porta: viene inviato quindi un rappresentante della Repubblica che propone al sultano ottomano un tributo annuo di 200.000 aspri, una cifra molto più alta di quella versata precedentemente da Andronico. Ma la proposta veneta non viene accettata e l’inviato di San Marco viene incarcerato ad Adrianopoli. La guerra continua.
Intanto la situazione all’interno delle mura è insostenibile, il cibo scarseggia, scoppiano le prime epidemie e molti cittadini tentano la via della fuga per evitare il massacro da parte degli assedianti a città perduta. Nemmeno l’accorato appello a resistere e a combattere del metropolita Simeone riesce a risvegliare un sentimento di appartenenza per fronteggiare con le ultime forze il nemico. Dopo quattro anni di assedio Tessalonica è sul punto di crollare, le mura sono irrimediabilmente danneggiate e le truppe sono esauste; la conseguente e disperata ricerca di aiuto nei principati limitrofi si rivela un insuccesso, molti infatti sono antagonisti dei veneziani, molti invece sono vicini alla Sublime Porta. Nel momento del bisogno Venezia si ritrova sola.
Ma un nuovo evento, nel 1429, riaccende improvvisamente la speranza veneziana: il sultano Murad viene attaccato dal beilicato (7) Karamanide, situato a sud della penisola anatolica e questo nuovo conflitto regala tempo prezioso alle armate veneziane, che hanno il tempo di riorganizzarsi e rinforzare le proprie difese. Lo scontro però, decisamente impari, termina ben presto e l’ondata ottomana riesce a travolgere anche questo nuovo avversario. Il sultano decide quindi di concentrare e convogliare tutte le sue forze verso Tessalonica per sferrare l’assalto decisivo.
Dopo giorni di assedio feroce il 29 Marzo 1430 la città macedone, quella che era stata la seconda città più grande dell’Impero Romano D’Oriente, cade e subisce un pesante saccheggio di tre giorni. Dei cinquantamila cittadini che popolavano Tessalonica prima dell’assedio, solo settemila rimangono in vita dopo la caduta della città. Per il sultano ora la strada è finalmente spianata verso la conquista di Costantinopoli.
L’assedio Di Candia: 1648-1669. La Sublime Porta alla conquista di Creta
Terminata la quarta crociata con la presa di Costantinopoli del 1204, Venezia ottiene per sé il controllo dell’isola di Creta. Fin dai primi anni i contrasti con la popolazione greco ortodossa sono evidenti e sono numerose le rivolte che la Serenessima deve sedare. L’ultima, quella del 1527, porta alla concessione di maggiori libertà economiche ai mercanti e ai cittadini greci, contribuendo così al benessere dell’isola, ormai diventata uno snodo commerciale di estrema importanza nel Mediterraneo Orientale.
Ristabilita una serena convivenza con le comunità locali, la Repubblica veneziana nel decennio 1550-1560 si dedica, in funzione anti turca, alla fortificazione dei punti nevralgici dell’isola, soprattutto della capitale Candia. La città viene circondata da una cinta muraria di tre chilometri, dotata di sette grandi bastioni armati di cannoni e collegati tra loro da una serie di tunnel; come ulteriore rinforzo, ai piedi delle mura un profondo fossato riempito di acqua marina percorre l’intero perimetro della struttura. Candia sembra essere una città impenetrabile.
Nel 1573, due anni dopo la disfatta turca nelle acque di Lepanto, Venezia e la Sublime Porta stipulano un trattato di pace che prevede la cessione di Cipro agli ottomani e la conferma del possesso veneziano di Creta, su cui la Porta continua però ad avere mire espansionistiche.
Nel Settembre del 1644 si verifica il casus belli tanto atteso dai turchi per dichiarare guerra alla Serenessima: alcune galee dei Cavalieri di Malta assaltano navi ottomane che trasportano alla Mecca numerosi pellegrini, molti dei quali rimangono uccisi. Per sfuggire alla rappresaglia musulmana, i Cavalieri trovano riparo in un porto cretese; per il sultano Ibrahim I questo è un chiaro segnale della collusione veneziana con l’azione della pirateria maltese. L’intenzione di muovere guerra è ormai certa.
A Costantinopoli viene radunato un esercito composto da 50.000 uomini e 416 navi, il cui comando è affidato al pascià Salih Yussuf; il suo sbarco, nella regione nord occidentale dell’isola, coglie completamente di sorpresa le truppe di San Marco nel giugno del 1645.
La prima città che cade in mano turca è La Canea, che con la sua piccola guarnigione di difesa non riesce a resistere all’onda d’urto dell’esercito di Yussuf. L’anno successivo, con la conquista del porto di Rettimo, tutta la regione occidentale di Creta è in mano alle truppe del sultano. Convinti dell’imminente resa dell’isola, gli ottomani circondano Candia nel maggio del 1648, dando così il via a quello che è considerato il secondo assedio più lungo della storia.
La difesa della capitale viene affidata al giovane marinaio Francesco Morosini (poi futuro doge di Venezia), nominato per due volte comandante delle forze terrestri. Sarà grazie al suo ardore e al suo ingegno militare se la resistenza veneziana durerà così a lungo. Nei primi mesi gli attacchi dell’artiglieria sono violentissimi e vengono indirizzati sui bastioni. Martinengo (il più grande e il più fortificato di tutti) e Betlemme, ma le possenti mura e gli eccellenti sistemi difensivi rispondono bene alle impetuose iniziative turche.
Coperte dal fuoco delle artiglierie, alcune truppe tentano di ricoprire di terra il fossato di acqua marina che circonda Candia, mentre altre iniziano a scavare gallerie sotterranee per raggiungere le fondamenta della cinta muraria e creare delle brecce. Molti dei tunnel scavati vengono intercettati e fatti esplodere dai soldati guidati dal Morosini, infliggendo perdite significative tra i reggimenti ottomani.
Nel decennio 1650-1660 l’assedio conosce una fase di stallo, perché a Costantinopoli infuriano gli scontri tra le fazioni degli spahi (8) e quelle dei giannizzeri (9), in lotta per strappare al sultano nuovi privilegi e cariche statali; a farne le spese sono ovviamente i soldati turchi a Candia che iniziano a ricevere rifornimenti ad intermittenza, rallentando così le operazioni militari.
Nonostante la circostanza favorevole, Venezia, non avendo la forza necessaria e il numero di uomini adeguato per passare al contrattacco, sceglie di fortificare i punti delle mura in cui si riscontrano i danni maggiori. Nemmeno la vittoria del 1656 nello stretto dei Dardanelli, riportata dal capitano Lorenzo Marcello, riesce a dare al Leone Di San Marco lo slancio necessario per liberarsi dalla morsa del sultano.
A partire dal 1660 iniziano ad arrivare i primi rinforzi dall’Europa: dalla Francia giunge un gruppo di volontari agli ordini del marchese Almerico D’Este, affiancato da Monsieur De Bas e dal comandante de Gremonville, mentre dal Sacro Romano Impero vengono inviati fino a diecimila uomini. Negli anni a seguire le battaglie diventano sempre più sanguinose e nemmeno i rinforzi provenienti dal mondo Cristiano, che sono costanti, riescono a capovolgere le sorti del conflitto.
Il 1667 è un anno decisivo perché si verificano due episodi che spostano l’ago della bilancia a favore dei turchi: il primo è l’arrivo sull’isola del Gran Visir Ahmed Koprulu, accompagnato da nuove truppe e nuovi armamenti, il secondo, forse anche più importante, è la cattura del colonnello veneziano Andrea Barozzi che, per avere salva la vita, rivela al nemico turco i punti deboli delle difese di Candia.
Gli ultimi due anni d’assedio sono decisamente a favore delle truppe assedianti, le controffensive franco-veneziane vengono sistematicamente respinte e l’ultima, quella del 1669 affidata ai comandanti Francois de Beaufort e Philippe Nevailles, viene neutralizzata sulla spiaggia di Candia. I soldati cristiani perdono le poche posizioni conquistate precedentemente e la flotta francese, ormai decimata, vede affondare anche la nave ammiraglia La Therese. Il morale tra gli assediati è ormai estremamente basso.
Dopo questa disfatta i francesi nel mese di agosto abbandonano l’isola, lasciando poco meno di 4.000 veneziani a difendere quel che rimane della capitale. Messo ormai alle strette e senza più nessuna possibilità di vittoria, Francesco Morosini, per evitare il massacro dei suoi soldati e degli abitanti della città, decide di intavolare le trattative e di consegnare Candia al nemico ottomano. Nel settembre del 1669 il Gran Visir Ahmed Koprulu entra, trionfante, nella capitale. Dopo 21 anni di scontri, enormemente gravosi per le casse statali, e più di centomila morti, l’Impero Ottomano riesce a conquistare definitivamente l’isola di Creta.
L’assedio Di Ceuta: 1694-1727. La Dinastia Marocchina Alawide contro la Corona Di Spagna
Nel 1672 con l’elezione del nuovo sultano marocchino Mulay Ismail, la dinastia alawide (10), salita al potere un secolo prima, riesce a consolidare i propri territori nella regione nord occidentale del continente africano e a strappare altri possedimenti in mano alle potenze europee presenti sul territorio. Nel 1681 gli spagnoli vengono cacciati dalla città di Al-Ma’mura, tre anni dopo la stessa sorte tocca agli inglesi che sono costretti ad abbandonare Tangeri.
Al tramonto del XVII secolo solo una piccola zona rimane in mano alla Corona Spagnola, quella che comprende la città di Ceuta, crocevia commerciale fondamentale perché posta appena 17 miglia sotto lo stretto di Gibilterra, posizione perfetta per il controllo degli ingressi navali nel Mediterraneo. Nel 1694 per cacciare definitivamente gli europei dal continente, il sultano Ismail inizia ad occupare le campagne intorno a Ceuta, isolando così la città; il governatore spagnolo in loco, preoccupato dall’aggressivo espansionismo marocchino, chiede supporto a Madrid.
Il Re Carlo II risponde alle richieste di aiuto inviando truppe armate, affiancate da quelle mandate dal Portogallo, ma all’arrivo dei contingenti succede qualcosa di imprevisto: la popolazione di Ceuta, rimasta sotto il dominio portoghese fino al 1688, si mostra ostile nei confronti dei soldati lusitani. Dopo numerose proteste il re del Portogallo Pietro II di Braganza decide di richiamare le proprie truppe in patria. La Spagna rimane sola a fronteggiare l’assalto del sultano alawita.
Le incursioni marocchine del primo anno di assedio, seppur energiche, non ottengono gli effetti desiderati; tutti gli attacchi si infrangono contro le possenti Mura Reali di Ceuta. Costruite nel XVI secolo dai portoghesi, le mura sono composte da tre linee difensive: nella prima, quella che subirà i danni maggiori, si trovano i bastioni più imponenti e meglio armati, come quello de La Bandera e quello de Los Mallorquines, alla base dei quali un profondo fossato di acqua marina divide in due l’intera struttura.
Nel Luglio del 1695 l’ennesimo tentativo di penetrare le difese spagnole va a buon fine: le truppe marocchine, sfruttando la nebbia scesa su Ceuta (comune in quelle zone d’estate), colgono di sorpresa i soldati di Carlo II, molti dei quali, per non morire per mano dei nemici, scelgono di gettarsi nel fossato. Gli assedianti riescono a penetrare fino alla seconda linea della struttura difensiva e a conquistare Plaza De Armas, una grande spianata rettangolare dove venivano radunate le truppe spagnole, ripresa poi da un successivo contrattacco ispanico.
Nonostante le perdite, i danni subiti dalle mura e l’isolamento terrestre, gli spagnoli continuano a resistere per anni, respingendo la quasi totalità degli assalti delle truppe del sultano Ismail. I continui rifornimenti da Gibilterra sono fondamentali, infatti dalla penisola iberica arrivano con costanza cibo, armamenti, nuovi contingenti, pezzi di artiglieria pesante, ma soprattutto i materiali da costruzione necessari per rinforzare i punti della cinta muraria più danneggiati.
Nel Novembre del 1700 un evento significativo come la morte del Re di Spagna Carlo II stravolge lo scenario europeo, e a risentirne è anche Ceuta. Sul letto di morte il sovrano sceglie come successore il nipote del Re di Francia Luigi XIV, il futuro Filippo V, con la sola clausola di tenere separate le corone di Francia e Spagna. A questa nomina si oppone l’imperatore del Sacro Romano Impero Leopoldo I che avanza la candidatura del figlio Carlo D’Asburgo; ben presto al fronte antifrancese si uniscono l’Inghilterra, le Province Unite, la Prussia, il Portogallo e il Ducato di Savoia.
Per la città di Ceuta la Guerra di Successione Spagnola (1702-1714) che ne consegue è un duro colpo, infatti nel 1704 una flotta anglo-olandese, capitanata dal principe tedesco Giorgio D’Assia Darmstadt e dall’ammiraglio inglese George Rooke, si dirige verso Gibilterra con l’intenzione di strapparla dalle mani spagnole per ottenere il controllo dei traffici marittimi nel Mediterraneo. Nei primi giorni di agosto dello stesso anno, la presa della rocca è completata. Lo stretto di Gibilterra passa sotto il controllo inglese e di colpo Ceuta si ritrova senza rifornimenti.
Quando tutto sembra ormai perduto, gli eventi girano a favore delle armate spagnole facendo allentare la morsa marocchina sulla città; il sultano Ismail infatti deve rivolgere la sua attenzione agli affari interni del Marocco e sedare le rivolte scoppiate tra i suoi figli per il predominio delle province del sultanato.
Per sfruttare il momento favorevole, il nuovo Re di Spagna Filippo V nel 1720 organizza una spedizione affidando una maestosa flotta e 16.000 uomini al comando di Jean Francois de Bette, marchese di Lede. L’incursione spagnola è un successo, l’assedio viene tolto e gli assedianti marocchini si disperdono ritirandosi nella città di Tetouan.
L’anno successivo, dopo il ritorno in Spagna del Marchese, i marocchini circondano nuovamente Ceuta; Ismail, per attaccare la città anche dal mare e sferrare l’assalto decisivo, organizza una nuova spedizione navale che viene però distrutta completamente da una tempesta nel 1722.
Gli ultimi cinque anni di assedio sono probabilmente quelli più statici, perché il sultano, ormai vecchio, si rende conto dell’impossibilità di prendere la città e mostra sempre meno interesse per le sorti di un assedio forse troppo dispendioso per le casse statali. Anche i rifornimenti, il ricambio di truppe e di armamenti sono sempre meno frequenti. Nel 1727 la morte del sovrano marocchino mette la parola fine ad un assedio durato quasi trent’anni; le truppe vengono così ritirate lasciando Ceuta libera di celebrare una leggendaria resistenza.
L’assedio di Leningrado: 1941-1944. I 900 giorni della Città Degli Zar
Nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, dopo aver seminato il terrore nell’Europa Occidentale con le conquiste di Francia, Belgio e Paesi Bassi, la Germania Nazista di Adolf Hitler nei primi mesi del 1941 prepara l’invasione della Russia. Rimandata di un mese a causa del necessario intervento in Grecia a sostegno delle truppe italiane in difficoltà, l’Operazione Barbarossa (nome in codice dell’invasione dell’URSS) scatta il 22 Giugno del 1941.
Alle 3,15 del mattino dodici armate tedesche, per un totale di circa tre milioni di uomini, varcano la frontiera sovietica accompagnate da quattromila carri armati, circa trentamila cannoni e tremila aerei della Luftwaffe. Come prima cosa i tedeschi fanno saltare le linee di comunicazione russe, e le conseguenti mancanze di ordini e informazioni isolano completamente i reparti sovietici di frontiera che vengono facilmente travolti. Nella stessa mattina le incursioni della Luftwaffe riescono a distruggere più di mille aerei russi fermi nelle loro basi.
L’Armata Rossa, del tutto colta alla sprovvista, subisce la rapidità e l’organizzazione dell’avanzata tedesca. L’attacco si sviluppa lungo tre direzioni: a Nord verso la città di Leningrado, al centro verso la Bielorussia con Mosca come obiettivo strategico, e a sud verso Kiev. Sul fronte settentrionale il primo grande ostacolo affrontato dalle truppe naziste è la linea difensiva detta Stalin, costituita da profonde trincee e campi minati; ai primi di luglio, nonostante le difficoltà, la resistenza della linea viene spezzata e i tedeschi possono avanzare e conquistare la città di Novgorod.
La successiva linea difensiva che le truppe di terra si trovano dinanzi è quella di Luga, situata sull’omonimo fiume; in agosto, grazie all’appoggio dell’aviazione, anche questa barriera russa viene spazzata via. La strada verso Leningrado è ormai spianata. All’arrivo dei tedeschi, le difese intorno alla città sono imponenti. Da fine luglio infatti, anche la popolazione partecipa al rinforzo delle strutture difensive; vengono realizzati più di seicento chilometri di trincee, quasi quattrocento chilometri di fosse anticarro e più di cinquemila bunker in cemento armato sono pronti per respingere qualsiasi attacco. Leningrado, la città degli Zar, si trasforma così in una città fortezza.
A settembre hanno inizio i primi bombardamenti ad opera della Luftwaffe: nei porti del Golfo Di Finlandia, nei pressi di Leningrado, vengono colpite e affondate la nave corazzata Marat e l’incrociatore Aurora, causando più di cinquecento morti tra i marinai russi; quelli che sopravvivono si uniscono alle forze terrestri. In città i danni sono altrettanto ingenti, la maggior parte delle strutture civili sono irrimediabilmente danneggiate e i depositi di cibo completamente distrutti. Dopo i primi giorni di incursioni aeree i morti superano già quota mille.
Nel frattempo le armate guidate dal generale Wilehlm Ritter Von Leeb iniziano le prime offensive da Sud per superare gli sbarramenti russi, ma la potente artiglieria sovietica, coordinata dal generale Zukov, risponde vigorosamente bloccando ogni tentativo nazista. Da Nord la pressione arriva dall’esercito finlandese che, avanzando verso Leningrado, prova a riconquistare i territori persi contro Mosca nella Guerra D’Inverno del 1940. Con il Mar Baltico ad Est e con il Lago Ladoga ad Ovest, la città sembra essere in trappola.
Ciononostante i russi riescono comunque a mantenere un collegamento col resto del paese proprio attraverso il Lago Ladoga, da cui arrivano in città, tramite piccole imbarcazioni, cibo e materiali da guerra. Le spedizioni però vengono sistematicamente ostacolate dagli attacchi delle imbarcazioni tedesche che giungono dalle sponde finlandesi del lago, riducendo così il quantitativo di cibo per la popolazione.
Con l’arrivo dell’inverno del 1942 a Leningrado la situazione peggiora, inizia a nevicare e le temperature scendono fino ai trenta gradi sotto lo zero, i riscaldamenti smettono di funzionare e la corrente non è più presente in città. Con il gelo il Lago Ladoga ghiaccia e questa sembra essere l’ennesima pessima notizia per i russi, invece la circostanza gioca a favore degli assediati, perché viene aperta una via sul lago ribattezzata “Strada Della Vita”, transitabile da mezzi pesanti che cominciano a rifornire la città di armi e di beni di prima necessità.
Ma è una goccia nell’oceano in confronto ai bisogni di tre milioni di cittadini. Il cibo infatti continua a scarseggiare e il pane, fatto con farina e segatura di legno, viene razionato: 60gr al giorno per i lavoratori delle fabbriche (mai ferme durante l’assedio) e 30gr per chiunque altro, adulti o bambini. La fame si fa sentire e molti, per sopravvivere, si cibano dei cadaveri che trovano per strada. Come se tutto questo non bastasse, su Leningrado si abbatte anche un’altra sciagura, infatti tra i civili e i militari scoppia una tremenda epidemia di tifo. Negli ultimi mesi del 1941 e nei primi dell’anno successivo i morti per fame e per stenti raggiungono il numero di centomila al mese.
La prova di resistenza a cui è chiamata la popolazione è inimmaginabile. Per salvare e liberare la città dalla tenaglia nazista, nell’estate del ’42 Stalin affida al generale Vlasov il comando dell’operazione Sinyavino. L’offensiva avrebbe dovuto raggiungere da est il fiume Neva, aprire un corridoio alimentare verso Leningrado e poi impegnarsi nello sfondamento delle divisioni tedesche in assedio. Il piano però incontra qualche ostacolo, perché alle armate assedianti se ne aggiunge un’altra importante, come quella dei Gebirgsjager, la fanteria di montagna della Wehrmacht (11), supportata inoltre dai carri armati Tiger, per la prima volta impiegati nella Seconda Guerra Mondiale. Il terreno impervio però, ricoperto da fitte foreste e paludi, rallenta le operazioni di entrambi gli schieramenti e dopo tre mesi di scontri i tedeschi, nonostante le pesanti perdite, riescono a recuperare quel poco terreno perso ricacciando indietro i russi.
Nel Gennaio del 1943 Stalin da l’ordine di procedere con un nuovo attacco per salvare Leningrado e distruggere definitivamente l’intero Gruppo Armate Nord, quelle unità dell’esercito tedesco che ad inizio invasione, sotto il generale Von Leeb, controllavano un territorio che andava dal Golfo Di Finlandia fino alla città di Memel, nell’odierna Lituania.
L’operazione che scatta nella notte del 12 Gennaio, denominata “Iskra” (scintilla in lingua russa), prevede l’impiego di venti divisioni dell’Armata Rossa, coadiuvate da più di quattromila pezzi di artiglieria, cinquecento carri armati e novecento aerei. I primi bombardamenti russi prendono di mira i campi di aviazione e i centri di comando tedeschi, con l’intenzione di far saltare le comunicazioni e le richieste di rinforzi.
L’attacco sovietico si intensifica alle prime luci dell’alba con l’utilizzo dell’artiglieria che scarica sulle postazioni nemiche continue raffiche di razzi Katyusha. Il contrattacco tedesco non si fa attendere e il 14 gennaio la 96° divisione di fanteria della Wehrmacht blocca, almeno momentaneamente, l’avanzata sovietica sulla Neva; dopo le prime settimane di scontri le perdite sono pesanti per entrambi gli eserciti, più di trentacinquemila morti per i russi, più di dodicimila per i tedeschi. L’iniziativa sovietica, pur non riuscendo a levare l’assedio, riesce comunque a creare un corridoio sicuro sulle sponde meridionali del Lago Ladoga, attraverso il quale viene evacuata la maggior parte della popolazione e inviati rifornimenti di cibo e medicine alle guarnigioni di difesa.
Un anno dopo l’Operazione Iskra, i decimati contingenti tedeschi non sono più in grado di contenere l’avanzata dell’Armata Rossa che, nel Gennaio del 1944, lancia l’ultima e decisiva offensiva: ben sette divisioni della Wehrmacht vengono annientate nella tenaglia creata dalle forze russe provenienti da Lomonosov, sulle coste ovest del Golfo Di Finlandia, e da Krasnoye Selo, una cittadina appena riconquistata a sud di Leningrado. Le poche divisioni naziste rimaste sul fronte non hanno altra scelta se non quella di abbandonare le postazioni fuggendo verso Ovest.
Il 27 Gennaio 1944 l’Armata Rossa entra finalmente a Leningrado. Dopo 872 giorni di assedio e quasi due milioni di morti tra militari e civili, la seconda città più grande della Russia, quella che un tempo fu la casa degli Zar, torna ad essere finalmente libera.
L’Assedio di Sarajevo: 1992-1996. La ferocia serba sulla capitale bosniaca
Il 4 Maggio 1980 la morte del Maresciallo Josip Broz, meglio noto come Tito, segna l’inizio della dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Per quasi quaranta anni Tito riesce a tenere unite le sei repubbliche di Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Macedonia, Montenegro e le due province autonome di Kosovo e Voivodina che insieme formavano la Repubblica Federale, facendo così convivere tra loro popoli diversi per culture, religioni e tradizioni. Alla sua morte questo precario equilibrio inizia a venire meno, insidiato da vigorose spinte nazionalistiche e non solo.
Sul finire degli anni ’80 infatti, una forte crisi economica, il crollo del Muro di Berlino e l’ascesa al potere in Serbia di Slobodan Milosevic aggravano la situazione. Il neo presidente serbo pretende più spazio e più potere per il suo paese all’interno della Federazione e, tra la fine del 1988 e l’inizio del 1989, la sua aggressiva politica nazionalistica pone fine all’autonomia delle vicine province di Kosovo e Voivodina; per la Slovenia e la Croazia questo è il segno evidente che l’unità della Repubblica Federale sta venendo meno.
Nell’estate del 1991 entrambe le repubbliche, tra le più ricche della Federazione, proclamano la loro indipendenza. La risposta della capitale Belgrado è immediata: viene inviato l’esercito federale per riportare con la forza la Slovenia all’interno della Federazione, ma le truppe di Lubiana, ben equipaggiate e organizzate, riescono in dieci giorni a rimandare indietro il nemico.
Per Milosevic, sempre più leader della Repubblica Federale, questa non risulta essere una grave perdita, perché la Slovenia non presenta al suo interno una consistente presenza serba. La Croazia del leader Franjo Tudjman invece, entro i suoi confini ha una corposa minoranza serba che si concentra nella regione della Krajina, nel sud del paese, ai confini con la Bosnia; nell’estate dell’indipendenza croata questa comunità, appoggiata da un esercito jugoslavo ormai sempre più filo serbo, insorge per separarsi.
Zagabria invia allora le sue truppe e il primo grande scontro tra l’esercito croato e quello serbo avviene nella città di Vukovar; dopo tre mesi di feroci scontri ad intervenire per un cessate il fuoco è direttamente l’ONU, grazie alla cui mediazione si arriva, a fine 1991, ad un accordo tra i presidenti Milosevic e Tudjman. L’indipendenza della Croazia viene così riconosciuta a livello internazionale.
Se la situazione sembra ormai essere sotto controllo in Slovenia e Croazia, in Bosnia è decisamente più complicata: qui la popolazione è composta per il 44% da bosniaci musulmani (chiamati bosgnacchi), per il 32% da bosniaci serbi ortodossi e per il 18% da bosniaci croati cattolici.
In seguito alle elezioni del 1990 si forma un governo composto proprio dai tre grandi partiti che meglio rappresentano le etnie del paese: l’Unione Democratica Croata, partito a maggioranza cattolica guidato da Stjepan Kljuic, il Partito Democratico Serbo del leader nazionalista serbo-bosniaco Radovan Karadzic e il Partito D’Azione Democratica, di stampo bosgnacco, fondato da Alija Izetbegovic, al quale viene affidata la presidenza della Repubblica Socialista di Bosnia Erzegovina.
Sin da subito i contrasti nella coalizione governativa sono evidenti: mentre i serbi musulmani del presidente Izetbegovic spingono per l’indipendenza della Bosnia per sottrarsi al potere che ormai Milosevic detiene all’interno della Federazione, i serbi di Karadzic contrastano questa ipotesi e sostengono la permanenza all’interno di una Jugoslavia sempre più alle dipendenze di Belgrado.
La rottura definitiva arriva nel 1992 quando viene indetto un referendum popolare sull’indipendenza bosniaca, a cui però i serbi scelgono di non partecipare; l’esito referendario non lascia spazio a dubbi, col 99% dei voti la popolazione sceglie l’autonomia rispetto alla Jugoslavia.
Il risultato, non riconosciuto e accettato dai serbi, scatena il caos: i militanti di Karadzic scendono in strada armati e bloccano le vie principali di Sarajevo. Le restanti etnie bosniache si precipitano, a loro volta armate, in strada: iniziano i primi scontri nella capitale. Il 5 Aprile la popolazione di Sarajevo si riunisce nella piazza del Parlamento per manifestare contro la guerra, ma improvvisamente partono degli spari da un edificio circostante e una studentessa di medicina, Suada Dilberovic, cade a terra uccisa. Nello stesso giorno, dalle alture che circondano Sarajevo, iniziano i primi bombardamenti delle artiglierie serbe. La capitale è sotto assedio.
Per tutto il 1992 gli attacchi sulla città sono incessanti, il fuoco delle milizie serbe guidate dal generale Ratko Madlic non accenna a diminuire; senza distinzione alcuna vengono presi di mira obiettivi militari strategici e strutture civili, come case, scuole e ospedali. La città viene isolata e circondata, uscire o entrare è impossibile per chiunque.
Nell’inverno del 1993 la capitale si ritrova senza luce, senza acqua corrente, senza gas e con migliaia di cittadini sfollati. In molti, presi dalla disperazione, tentano la fuga attraverso le tubature delle fogne, attraverso i campi minati o provando a percorrere il fiume Miljacka (12) congelato. Per più di trecentomila bosniaci assediati il destino sembra segnato.
Ma nel momento più critico dell’assedio, quando tutto ormai sembra perduto, è l’ingegno umano a donare alla città un barlume di speranza. Due giovani ingegneri, Nedzad Brankovic e Fadil Sero, progettano un tunnel sotterraneo per far entrare in città cibo, medicine e armi; passato alla storia come il “tunnel di Sarajevo”, alla sua realizzazione partecipano duecento persone che, dal marzo al luglio del 1993, scavano ininterrottamente per ventiquattro ore al giorno.
La struttura, alta un metro e mezzo, larga un metro circa e lunga quasi un chilometro, passa sotto la pista dell’aeroporto di Sarajevo e collega due zone della città ancora libere dalle truppe serbe, ovvero Dobrinja e Butmir. Attraverso il passaggio sotterraneo, trasportati su carrelli da miniera, arrivano in città oltre a cibo, vestiti e armi, anche benzina, sigarette, alcool e caffè che vengono usati come moneta di scambio. La sopravvivenza della capitale e dei suoi abitanti passa per questo “tunnel della salvezza”.
Nel 1994 il sottopassaggio segreto viene scoperto dalle truppe serbe del generale Madlic, ma ne i bombardamenti né il tentativo di deviare il fiume Zeljeznica per sommergere il tunnel riescono a distruggere la galleria. Negli ultimi due anni di guerra si verificano quelli che sono probabilmente gli episodi più cruenti dell’assedio di Sarajevo. Il 5 Febbraio 1994 un colpo di mortaio dell’artiglieria serba esplode nell’affollato mercato di Markale, nel centro storico della capitale, provocando 68 morti e quasi duecento feriti.
La diplomazia internazionale intensifica i propri sforzi per una pace immediata, i governi occidentali invece, scossi da tanta violenza, intervengono con i primi raid aerei per colpire le forze serbo-bosniache. Il secondo episodio è quello decisivo, è la classica goccia che fa traboccare il vaso: il 28 Agosto 1995 ben cinque colpi di mortaio colpiscono nuovamente il mercato di Markale, questa volta si contano 43 morti e quasi 100 feriti.
La sistematica violazione delle zone di sicurezza e i continui attacchi ai civili inducono la Nato ad intervenire con l’operazione Deliberate Force; per quasi venti giorni gli aerei dell’Alleanza Atlantica bombardano le artiglierie e i centri di comunicazione serbo-bosniaci, fiaccando il morale delle truppe assedianti.
Il 15 Settembre 1995 l’esercito serbo-bosniaco alza bandiera bianca. Grazie alla mediazione del presidente americano Bill Clinton, il 21 Novembre 1995 a Dayton, base aerea degli Stati Uniti in Ohio, viene firmata la pace tra il presidente serbo Slobodan Milosevic, il presidente croato Franjo Tudjman e il presidente della Bosnia Erzegovina, Alija Izetbegovic. L’accordo siglato prevede il riconoscimento della Bosnia come stato indipendente, ma costituita da due entità: la Federazione croata-musulmana e la Repubblica Serba.
Alla presidenza del neonato stato siedono insieme i tre firmatari degli accordi di Dayton, un serbo, un bosgnacco e un croato. Pochi mesi dopo, il 29 Febbraio 1996, il governo bosniaco dichiara ufficialmente terminato l’assedio di Sarajevo, costato la vita a dodicimila persone.
Note
1. Dominio turco mongolo che si estendeva negli odierni stati di Iran, Kazakistan, Afghanistan, Iran.
2. Elemento architettonico del palazzo sultaniale. Nel tempo espressione usata per indicare il governo ottomano.
3. Mustafa Celebi, primogenito del sultano Bayazid. Probabilmente morì nel 1403 insieme al padre. Il Mustafa Celebi che si oppose a Murad II fu quasi sicuramente un usurpatore. Ad oggi non ci sono fonti storiche certe al riguardo.
4. L’odierna Salonicco.
5. Altro nome con cui viene identificata Costantinopoli.
6. Diverso appellativo con cui viene identificata la Repubblica Di Venezia.
7. Territorio posto sotto il controllo di un bey (signore).
8. I cavalieri dell’esercito ottomano.
9. Fanteria dell’esercito personale del sultano ottomano.
10. Dinastia che regna in Marocco dal 1659. Tutt’oggi è ancora al potere con il re Muhammad VI.
11. L’insieme delle Forze Armate Tedesche, suddivise in Heer (esercito di terra), Luftwaffe (aeronautica militare), Kriegsmarine (marina militare).
12. Fiume che attraversa la Bosnia da Est ad Ovest, passando per Sarajevo.
I libri consigliati da Fatti per la Storia sugli assedi più lunghi della storia!
- Alberto Peruffo, I grandi assedi che hanno cambiato la storia, Newton Compton Editori, 2020.
- Federico Moro, Venezia e l’assedio senza fine – L’epopea di Candia, 1646-1669, Leg Edizioni Srl, 2022.
- Vera Inber, Quasi tre anni. Leningrado-Cronaca di una città sotto assedio, Guerini e Associati, 2022.
- Harrison E. Salisbury, I 900 giorni. L’epopea dell’assedio di Leningrado, Il Saggiatore, 2014.
- Diana Bosnjak Monai e Punisa Kalezic, Da Sarajevo con amore. Diario dall’assedio, Controluce, 2020.