CONTENUTO
L’impegno in politica dei cattolici: da Gioberti a Rosmini
Sono in molti a cercare di conciliare il cristianesimo con la questione sociale, in primis gli esponenti del cattolicesimo liberale (tra cui Alessandro Manzoni e l’abate Vincenzo Gioberti), i quali propugnano, sì, l’impegno dei cattolici in politica, ma respingendo l’alleanza trono-altare: nasce, insomma, un cattolicesimo politico che si confronta con il mondo, la modernità e il progresso economico, sociale e politico. Gioberti, un sacerdote già Primo ministro del Regno di Sardegna, è per l’unità federale dell’Italia, sotto la presidenza del Papa, perché solo così la Penisola potrà diventare giuda politica, culturale e civile delle nazioni, ispirata dai principi liberali.
Il suo pensiero lega, inscindibilmente, cristianesimo e nazione, per la creazione di una civiltà cristiana. Scrive: «Tra cristianesimo e nazionalità corre un duplice rapporto; dalla religione verso la nazionalità e viceversa: il cristianesimo compie la nazionalità in quanto la spoglia del suo egoismo assolutizzante, reinserendola nel circolo storico dell’umana famiglia; senza il cristianesimo la nazionalità finisce nella dominazione o nella schiavitù; con il cristianesimo essa viene liberata dallo spirito di conquista e di dominazione».

Altro elemento di spicco del cattolicesimo liberale è il filosofo don Antonio Rosmini, studioso di un percorso di progressiva mediazione tra tradizione del popolo italiano e liberalismo. Egli parte dalla riforma della Chiesa, esigenza avvertita da molti al fine di tornare ai modelli e ai precetti di un cristianesimo primitivo, fatto di comunità (il comunitarismo cattolico). Per il beato Rosmini (che pensa a una sorta di rinnovato cristianesimo portatore di civiltà e di etica) il popolo cristiano deve controllare e dire la sua sulla gestione dei beni della comunità ecclesiale.
La sua idea di Stato, invece, è laica, perché è il governo civile che deve organizzare la convivenza della comunità: «Scopo dello Stato è la tutela e la prospera coesistenza, mediante uniformi regolamenti, di tutti i diritti razionali e di quelle famiglie e di quegli uomini che si sono e si trovano così uniti sopra un medesimo territorio» (la Chiesa, di contro, deve prendere posizione sulla questione sociale). Condanna il socialismo, in quanto negatore della libertà: «I socialisti hanno così del tutto rovescia la mente, che in quello appunto dove consiste la più ignobile, la più brutale servitù dell’uomo, ciò nel predominio delle schife passioni, ripongono il concetto di libertà; e nella vera libertà umana, che è l’esercizio dei diritti contrapposti doveri nobilitanti, ripongono al contrario il concetto di servitù e di miseria, perpetuo falsiloquio, perpetuo loro sofisma (Ragionamento sul comunismo)».
Per don Antonio Rosmini chi ripudia la libertà poggia il suo sistema utopista e riformatore sulla forza, sulla compressione dei diritti; le promesse di felicità, che tali formazioni politiche fanno, respingono la libertà, ripudiano la natura umana e contribuiscono a suscitare nell’uomo le forze brutali e animalesche che portano alla scomparsa, insieme alla civiltà, della religione. Condivide con il socialismo solo ciò che l’accomuna al cristianesimo, ossia che: «la condizione dei poveri e dei manuali sia migliorata, le istituzioni sociali rechino a tutti, senza eccezioni, prosperità temporale, agiatezza e soave e armoniosa convivenza». L’analisi di Rosmini fa sensazione: le sue opere sono messe all’indice dal Sant’Uffizio.
Gustavo di Cavour, l’uomo che concilia cristianesimo e socialismo
La palla è presa al balzo dal Conte Gustavo Benso di Cavour, fratello di Camillo, un clericale focoso che cerca di unire socialismo e cattolicesimo: nasce, così, il primo concetto, in Italia, di Stato sociale, incontro delle politiche socialiste e Vangelo. Già Papa Pio IX, raccontato erroneamente come antimoderno (in verità condivideva le tesi di Rosmini), nell’enciclica Qui pluribus, nel 1846, esaminava gli «errori mostruosi e fraudolenti» dell’epoca, fra cui «la sfrenata libertà di parlare, di pensare e di scrivere» e imputava al comunismo e al socialismo la colpa di voler distruggere insieme «proprietà e società umana».

Da Pio IX, passando per il pensiero di Antonio Rosmini e del Conte Gustavo di Cavour, arriviamo ai primi timidi tentativi di creare una dottrina sociale cristiana, per enunciare i principi della Chiesa sulla società, fondati sull’etica e la rinascita di uno spirito religioso autentico, attraverso l’accettazione dell’analisi liberale, la previsione della diminuzione dei poteri dello Stato (il quale deve essere garante della pace sociale, eretta sui principi di solidarietà e sussidiarietà) a vantaggio delle associazioni, la codificazione della contrapposizione tra i concetti di persona e individuo e recuperando l’aspetto caritativo del cristianesimo, con una spiccata attenzione al mondo artigianale e agricolo, contrapposto a quello industriale.
La Dottrina sociale della Chiesa: da mons. Ketteler alla Rerum novarum
Secondo il vescovo di Magonza Wilhelm Ketteler, in perfetta sintonia con Pio IX, lo Stato deve risolvere i contrasti sociali attuando politiche conformi ai principi cristiani. La sua è un’idea associazionista dello Stato (in opposizione alle teorie liberale e socialista, perché ambedue, seppur da punti di partenza differenti, mirano al controllo della comunità), fondata sui corpi intermedi. Francesco Saverio Nitti, laico e liberale, studioso del mondo cattolico, giudica il vescovo di Magonza come il fondatore e il principale esponente del “socialismo cattolico”. Per il monsignore, il politico cristiano deve mirare alla dignità dell’uomo in una rinnovata costruzione sociale e associativa, retta sulle cooperative di produzione e su una rappresentanza politica organica e reale, la cui fonte è l’amore cristiano.
La dottrina sociale cristiana acquista piena dignità, nel 1891, con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII. Con tale documento, la Chiesa interviene sulla condizione sociale degli operai. E’ a fianco dei proletari, non più protetti dalle corporazioni d’arte e mestieri, lasciati soli, indifesi e in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. La critica ai ricchi, al capitalismo e al mondo imprenditoriale, identificati con i ceti dominanti e con lo Stato, è serrata, pari a quella contro socialismo e comunismo.
L’enciclica analizza i temi del conflitto nelle società evolute: la proprietà privata che diventa motivo di prevaricazione, l’esigenza di un nuovo associazionismo insieme alla necessità di un uso comune dei beni creati e della proprietà particolare d’essi, la centralità della famiglia nello Stato, la constatazione dell’esistenza di una questione sociale, per la cui soluzione si propone, non la lotta fra le classi, ma la concordia, con obblighi reciproci di lavoratori e padroni, cui deve essere garantito il possesso e non la proprietà della ricchezza. Lo Stato deve esercitare un cauto intervento assistenziale, bilanciato dalla protezione della proprietà privata, la tutela del lavoro dei più deboli (donne e fanciulli lavoratori) e il rispetto della giusta retribuzione degli operai.
Leone XIII: «L’uomo è anteriore allo Stato»
«L’uomo è anteriore allo Stato. Lo Stato quindi non ha il diritto di esercitare a suo arbitrio, costantemente in presa diretta, quelle attività che possono essere compiute dai cittadini, dalle famiglie, dalle libere aggregazioni: ha piuttosto il dovere di mettere tutti nella condizione concretamente efficace di attendere ai propri compiti e sviluppare le proprie capacità»
Leone XIII, il Papa della Rerum novarum, immagina uno Stato che non sia padre padrone, ma un’organizzazione che tra «il lasciar fare» (teorizzato dai liberisti) e il «fare direttamente» (proposto dai socialisti) sa optare per «l’aiutare a fare». La Rerum novarum è una difesa lucida dei più deboli, per evitare la creazione di una società disumana, ingiusta. Ingiustizia che iniziò a dilagare dopo la Rivoluzione Francese, perché vennero meno tutte le seppur arcaiche strutture di tutela dei poveri, lasciando così migliaia di individui, in piena Rivoluzione industriale, «soli indifesi in balia della disumanità dei padroni e della sfrenata cupidigia della concorrenza».
Ecco perché, secondo Leone XIII, «bisogna provvedere senza indugio e con opportuni provvedimenti a coloro che sono posti ai gradini più bassi della scala sociale (…) ridotti a una condizione miserevole e sventurata al punto che pochissimi ricchi e straricchi hanno imposto un giogo da schiavi all’infinita moltitudine dei proletari». Perché «i diritti vanno tutelati in chiunque li possegga (…) Tuttavia, nel tutelare questi diritti dei privati, si deve aver riguardo speciale ai deboli e ai poveri (…) perciò agli operai, che hanno più bisogno, lo Stato deve di preferenza rivolgere le sue cure e le sue provvidenze».
Non si deve permettere che «cittadino e famiglia siano assorbiti dallo Stato; è giusto invece che si lasci all’uomo la sua facoltà di agire con libertà, salvo il rispetto del bene comune e dei diritti altrui». Il Papa comprende con lucidità che le prepotenze del tempo sono atte a colpire la famiglia, cioè quella «società domestica piccola ma vera, anteriore a ogni società civile» che «pertanto possiede diritti e doveri propri, indipendenti dallo Stato». Quello Stato che sarebbe «un grave e dannoso errore possa intervenire a suo arbitrio nel santuario della famiglia».
Pio X: «fate, fate quello che vi detta la vostra coscienza
L’Ottocento si chiude con le cannonate di Bava Baccaris; il Novecento si apre con l’uccisione, a Monza, di Umberto I e l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III. Per l’impegno dei cattolici in politica, però, le data da segnare sono quelle del 6 (primo turno) e del 13 (ballottaggi) novembre del 1904, giorno in cui si tennero le elezioni parlamentari, risultate fondamentali perché vinte dalla maggioranza governativa (che rimase presso che tale fino alla Prima guerra mondiale), in quanto dimostrarono che il massimalismo dei socialisti non paga e, soprattutto, perché segnarono l’appoggio dei cattolici ai candidati moderati, laddove il voto era necessario per la loro affermazione.
Al lancio d’un partito d’ispirazione cristiana nell’agone politico mancava solo la revoca del non expedit (ossia di quella disposizione pronunciata nel 1868 dalla Sacra Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari del Vaticano, con la quale si riteneva non conveniente, per i cattolici, partecipare alle elezioni politiche del Regno d’Italia), ma Leone XIII non se la sentì e lasciò ogni decisione al suo successore.
Quando il quasi centenario Papa Pecci morì, tutti davano per certa l’elezione del Cardinal Rampolla, Segretario di Stato di Sua Santità, ma grazie al veto di Francesco Giuseppe, Imperatore dell’Austria (da secoli, a volte senza successo, i re di Spagna, Francia e Austria avevano tale facoltà) salì al soglio petrino don Giuseppe Sarto, che assunse il nome di Pio X: un prelato conservatore, all’antica, dai modi spicci e autoritari, ma molto semplice, dal cuore buono, proprio come i contadini, dai quali discendeva. Il suo pontificato fu ricco di doni spirituali e fu caratterizzato da una pervicace lotta al modernismo in seno alla Chiesa: tra le tante decisioni assunte la sospensione a divinis di don Bonaiuti, la messa all’indice delle opere di Fogazzaro e l’attenta vigilanza, tra gli altri, esercitata sul Vescovo di Bergamo, monsignor Radini-Tedeschi, e sul segretario, don Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII.
Intransigente con i dogmi, ma conciliante per l’impegno dei cattolici in politica, Pio X diede un sostanziale via libera al loro ingresso nella vita politica italiana. Nelle già citate elezioni politiche del 1904, il candidato liberale Suardi chiese formalmente l’appoggio dei cattolici bergamaschi (nella città orobica erano fortissimi: amministravano sia il Comune sia la Provincia), i quali non aspettavano altro: quest’ultimi si recarono a Roma immediatamente e chiesero e ottennero udienza dal Papa. Alla supplica Pio X rispose: «fate, fate quello che vi detta la vostra coscienza»: un modo curiale per dire di sì senza formalmente togliere il divieto di Pio IX.
La cosa si seppe un po’ in tutta Italia: in tutti i collegi in cui la sorte del candidato moderato era incerta, i cattolici furono liberati dal non expedit e votarono; e furono decisivi per la vittoria moderata. Nella bianca Lombardia, addirittura, nella lista dei moderati erano presenti ben quattro candidati cattolici: due vennero addirittura eletti. Gl’intransigenti si scandalizzarono, ma ottennero una risposta tipica della Chiesa: «non di deputati cattolici si trattava, ma di cattolici deputati!». Pochi mesi dopo, il non expedit fu tacitamente revocato con un’enciclica, la quale dava ai vescovi la facoltà di autorizzare, di volta in volta, la partecipazione al voto.
Dal patto Gentiloni all’abrogazione formale del non expedit
Pochi mesi dopo le elezioni politiche del 1904, il non expedit è tacitamente revocato con un’enciclica, la quale dà ai vescovi la facoltà di autorizzare, di volta in volta, la partecipazione al voto dei fedeli: si stanno gettando le basi per un accordo più organico, il quale sarà siglato nel 1913. Il c.d. Patto Gentiloni formalizzò la formula con la quale i cattolici si sarebbero impegnati a far confluire i propri voti sui candidati liberali che avessero aderito a taluni punti programmatici (libertà d’insegnamento, opposizione al divorzio etc.); all’inverso, se il candidato fosse stato cattolico, avrebbe avuto i voti dei liberali.
Fu un successo: le elezioni portarono alla netta vittoria del fronte moderato. I tempi ormai sono maturi, il divieto papale è superato dai fatti e nel 1919 Papa Benedetto XV (salito al soglio petrino nel 1914) ne prende atto e abroga definitivamente e ufficialmente il non expedit, prodromo della nascita del Partito Popolare Italiano, già vagheggiata nel 1905 da don Luigi Sturzo.
Il Partito Popolare di don Luigi Sturzo
Il secondo decennio del XX secolo è segnato dalla Prima guerra mondiale e dalla Rivoluzione sovietica, eventi che coinvolgono, in pieno, la Chiesa. Per i cattolici impegnati è tempo di svolte: nasce il Partito Popolare Italiano, fondato da don Luigi Sturzo (un sacerdote siciliano nato a Caltagirone nel 1871, connotato da fede solida e totale obbedienza alla gerarchia ecclesiastica) con un appello «a tutti gli uomini liberi e forti», iniziativa tacitamente appoggiata dalle gerarchie ecclesiastiche.
Già con Benedetto XV la Questione romana, figlia della Breccia di Porta Pia, si era affievolita, perché con la dura prova bellica del Primo conflitto mondiale si ebbe l’inserimento, nella vita politica del Paese, dei cattolici, rimasti fuori, sino ad allora, per obbedienza al papale non expedit: insomma, veniva meno il pregiudizio dei veti, superato dai fatti, dalla generosa partecipazione dei cattolici alle necessità e alle difficoltà dell’Italia (basti pensare alle decine di migliaia di giovani cattolici morti sui campi di battaglia, parecchi decorati al merito; all’opera dei cappellani militari; alle molteplici iniziative assistenziali; alla solidarietà ai profughi).
Nei fatti la conciliazione si era realizzata nella realtà quotidiana, nella collaborazione fattiva tra le parti. Bisognava solo superare formalmente il pregiudizio della partecipazione dei cattolici alla vita politica della Nazione. La nascita del Partito Popolare è, quindi, un momento forte, alto, della presenza dei cattolici nella vita politica italiana, segno della fine della subalternità e, al tempo stesso, della sana laicità della politica, perché i temi tradizionali che formarono oggetto di rivendicazione (come la libertà della Chiesa, della famiglia, delle associazioni vicine al mondo cattolico) prendono posto in un contesto politico. Il programma del popolarismo implica una visione nuova del rapporto tra società e Stato; quest’ultimo da intendersi come somma delle associazioni, dei corpi sociali intermedi e degli enti territoriali.
La presenza cattolica in politica deve essere espressione partitica, non confessionale, non difensiva, bensì democratica e propositiva. L’azione del partito non impegna la Chiesa, poiché, secondo quanto afferma don Sturzo al primo congresso: «non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamento della Chiesa, né abbiamo diritto di parlare in nome della Chiesa, né possiamo essere emanazione e dipendenza di organismi ecclesiastici, né possiamo avvalorare della forza della Chiesa la nostra azione politica». Il politico cristiano ha, quindi, una missione incentrata sul valore della libertà, contro il monopolio che nel campo sociale, per mezzo delle classi operaie, pretendevano di avere i socialisti; contro l’analogo monopolio che nel campo scolastico, amministrativo ed economico volevano avere i liberali; e contro il monopolio dello Stato-partito che realizzerà il regime mussoliniano.
«A uno Stato accentratore vogliamo sostituire uno Stato veramente popolare»
Il popolarismo sturziano vuole creare una cultura politica popolare, fondata sul messaggio evangelico, pienamente laica, per dare risposte ai problemi della moderna società, da consegnare alle future generazioni per un orientamento politico moralmente solido, coraggioso e maturo: il politico cattolico deve parlare alto e franco, difendere la verità, non vergognarsi delle proprie convinzioni, deve mettere insieme le opportunità (che non sono opportunismo) con l’audacia (che non è temerarietà). Un progetto politico basato sui concetti di sussidiarietà e di forte autonomismo. Don Sturzo afferma: «A uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosce i limiti delle sue attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali, la famiglia, le classi, i comuni, che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private».
Alla base vi è il concetto di libertà, le cui «violazione e limitazione vengono considerate le cause principali dei mali che affliggono la società italiana, che non ha mai visto sorgere e svilupparsi una stagione di autentica libertà». Libertà propugnata nel campo della religione, della scuola e dell’organizzazione amministrativa, perché «la libertà è la più aderente qualità della coscienza umana. Educare il popolo a sentire la voce della coscienza, a informarsi bene della via da seguire che risponda agli impulsi della coscienza, a ubbidire alla voce di una coscienza ben formata; a trovare nella conoscenza con gli altri che egli stima per nobiltà d’animo e rettitudine di vita, quell’elemento che nei dubbi rassicura la propria coscienza; solo così si fa sentire a ciascuno il peso della propria responsabilità- Il dinamismo della libertà consiste nella ricerca della verità, nell’amore della verità, nel senso del dovere che impone di seguirla e di affermarla».
Bibliografia essenziale:
Emanuele Maestri, Il Risorgimento di Pio IX, Linee Infinite edizioni, anno 2010.
Emanuele Maestri, Alla ricerca di Dio… (Don Luigi Sturzo da pagina 59 a pagina 62), Parrocchia dei Santi Antonio Abate e Francesca Cabrini, Sant’Angelo Lodigiano 2006.
Emanuele Maestri, Il Vaticano tra fascismo e nazismo – da pag. 335 a pag. 371 Quaderno di Critica e Cultura Novecento, a cura di Raffaella Bonsignori e Francesca Andruzzi, dicembre 2024.
Autori vari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Storia della Chiesa. Duemila anni di cristianesimo. Dall’Illuminismo al Terzo millennio, Periodici San Paolo s.r.l., 2001.
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- Emanuele Maestri, Il Risorgimento di Pio IX, Linee Infinite edizioni, anno 2010.
- Autori vari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Storia della Chiesa. Duemila anni di cristianesimo. Dall’Illuminismo al Terzo millennio, Periodici San Paolo s.r.l., 2001.