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La politica d’internamento fascista
Benito Mussolini in un incontro tenutosi a Gorizia con gli alti comandi del Regio Esercito in riferimento alla repressione jugoslava afferma che: «Al terrore dei partigiani si deve rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre»[1] demistificando così il “mito del bravo italiano” idealizzato già durante il colonialismo italiano.
Alcuni generali italiani già dimostratisi violenti e capaci di crimini inauditi contro le popolazioni dei territori occupati accolgono la direttiva del Duce e la repressione delle rivolte diventa ancora più dura. Uno degli strumenti utilizzati dalla politica fascista per mettere sotto scacco gli oppositori diviene l’internamento di tutti gli sloveni senza distinzioni di età o sesso.
All’alba dell’occupazione le autorità italiane emanano i primi ordini di arresto e, dopo la resa dell’esercito jugoslavo, ufficiali e soldati vengono internati come prigionieri di guerra ma, ben presto, iniziano anche gli internamenti di civili di ogni età. Già nel mese di giugno del 1941, infatti, una segnalazione al governo italiano da parte dell’Ufficio Prigionieri della Croce Rossa Italiana infatti denuncia la «presenza di nuclei di civili di età non militare in campi italiani per prigionieri di guerra»[2].
Per permettere un’efficacia maggiore nell’opera di rastrellamento e di perquisizione della popolazione viene collocato attorno alla provincia di Lubiana un alto reticolato rendendo quest’ultima un esteso campo di concentramento all’aperto. La recinzione impedisce a chiunque di entrare o uscire dalla città. Questa operazione viene condotta dall’ XI Corpo d’Armata, in particolare dalla Divisione Granatieri di Sardegna comandata dal generale Taddeo Orlando, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del ’42.
La città viene divisa in settori, ognuno dei quali accuratamente sottoposto a perquisizioni. Il generale Mario Robotti, famoso per la frase «si ammazza troppo poco» riferita alla condotta repressiva nei territori occupati, scrive nella “Relazione sulle operazioni di disarmo della popolazione di Lubiana” il manifesto della sua filosofia in cui ribadisce il bisogno del «polso duro» nei confronti dei popoli slavi; da queste affermazioni si denota che anche le azioni in Jugoslavia non sono solo il frutto di un’ideologia criminale ma anche di un’ analisi errata della realtà che considera ancora i non italiani come barbari da educare e civilizzare.
Al rastrellamento di Lubiana ne seguono altri in diverse province accompagnati anche da ulteriori provvedimenti repressivi: in quei giorni il tribunale militare di guerra emette varie condanne a morte di civili innocenti. Con l’aumento degli uomini arrestati sorge il problema della loro sistemazione che viene “risolto” con l’istituzione di veri e propri campi di concentramento.
I primi campi di concentramento fascisti e la circolare 3C
Il primo campo viene costruito a Cighino; a questo segue quello di Tribussa inferiore ma la loro posizione non permette un facile controllo in quanto, essendo troppo vicini a territori abitati da sloveni e croati, gli internati possono trovare solidarietà tra la popolazione locale. Per questo motivo viene utilizzato il campo di Gonars, posto a sud di Udine che era stato costruito per accogliere i prigionieri di guerra ma che non viene mai utilizzato a questo scopo.
Gli abitanti delle province di Lubiana, Spalato e Cattaro diventano italiani per annessione e questo comporta delle implicazioni molto pesanti sulle condizioni di vita nei campi di concentramento in quanto, con questa denominazione, il governo italiano riesce ad evitare l’interferenza delle organizzazioni umanitarie internazionali facendone una questione di competenza esclusivamente italiana, quello che più tardi, dopo l’armistizio, accadrà anche ai soldati italiani chiamati “Internati Militari Italiani” da Adolf Hitler proprio per non riconoscere loro le garanzie delle Convenzioni di Ginevra.
La situazione già critica degli occupati peggiora notevolmente dopo l’emanazione della circolare 3C avvenuta il 1° marzo del ’42 da parte del generale Mario Roatta, nuovo comandante della II armata. Questa nuova disposizione alimenta ancora di più le violenze sulle truppe italiane nei confronti della resistenza jugoslava e della popolazione civile dei territori occupati. Si instaura una politica del terrore contro i civili e vengono ordinate rappresaglie, deportazioni, confische, catture di ostaggi e fucilazioni sommarie. A questa circolare segue un bando emanato dallo stesso Roatta il 24 aprile in cui vengono autorizzate le rappresaglie sugli ostaggi in caso di attentati i cui autori fossero rimasti ignoti.
Possiamo conoscere, almeno sommariamente, quali sono gli effetti di questa disposizione da documenti abbandonati dai comandi in fuga dopo l’8 settembre del ’43 conservati dai partigiani che, più tardi, rappresenteranno la base per le accuse per i crimini di guerra compiuti dalla II armata italiana.
La repressione che inizialmente è indirizzata a specifiche tipologie di persone (soprattutto comunisti o coloro che si erano trasferiti in Jugoslavia dalla Venezia Giulia prima della guerra) successivamente a queste nuove direttive viene attuata prima nei confronti di intere categorie (studenti, operai, professori, artigiani…) poi di intere popolazioni con il rastrellamento e gli incendi dei territori da loro abitati.
Al primo rastrellamento della provincia di Lubiana ne segue un altro tra il 27 giugno e il 1 luglio dello stesso anno, ancora più violento e definito «caotico» dal tenente Giovanni De Filippis che in un promemoria dei carabinieri dell’XI Corpo d’Armata descrive l’incubo della popolazione conseguentemente ai ripetuti fermi che avvengono anche nella stessa giornata alla stessa persona e di quello degli individui che, seppure insospettabili in linea politica, vengono trattenuti nelle carceri con l’accusa vaga di essere “aderenti O.F”.
Le condizioni di vita nei campi di concentramento di Gonars e Arbe
Gli arrestati di questo nuovo rastrellamento vengono internati nel sopracitato campo di Gonars. Le condizioni igienico-sanitarie in questa struttura sono altamente precarie ma è soprattutto il sovraffollamento dato da nuovi rastrellamenti a peggiorare notevolmente le condizioni di vita dei reclusi: molti vengono collocati in tende esterne e le epidemie portano ai primi casi di morte fra gli internati.
Il generale Roatta che non ha nessuna intenzione di concludere le sue operazioni decide di istituire, nell’estate del 1942, nuovi campi che si moltiplicano sia nei territori occupati sia in territorio italiano. Vengono aperti nuovi campi a Monigo e Chiesanuova insieme all’enorme tendopoli di Arbe la quale, secondo le intenzioni di Roatta, deve contenere almeno 20.000 persone. La tendopoli di Arbe dato il tasso di mortalità elevatissimo viene definita dalla storiografia slovena un vero e proprio campo di sterminio.
Il campo di Arbe era stato allestito nella piana di Kampor in pochissimo tempo per far fronte al numero di internati sempre maggiore e quando all’inizio di luglio arrivano i primi uomini vi trovano solamente il filo spinato preposto a circoscrivere il luogo. Devono infatti montare loro stessi le tende e provvedere a scavare delle buche e a riparlarle con del fogliame per utilizzarle come latrine.
Anche l’alimentazione avviene in condizioni igieniche precarie, il cibo viene infatti cucinato all’aperto in bidoni di benzina tagliati a metà e razionato secondo delle tabelle prestabilite, l’insufficiente rifornimento di acqua invece viene fatto attraverso delle autocisterne.
Le tabelle alimentari preparate dal Ministero dell’Agricoltura e Foreste distinguono gli internati in repressivi e protettivi, lavoratori e non lavoratori e nella distribuzione dei pasti le testimonianze indicano un ordine ben preciso che può essere definitivo del “fisso decrescente”: i primi ad ottenere il cibo sono i capi baracca e a questi seguono, in ordine di importanza, tutti gli altri fino ad arrivare ai bambini che ricevono quel poco liquido con qualche maccherone rimasto o pochi chicchi di riso.
I primi a risentire delle conseguenze di questo stato di cose sono i bambini e, Alfredo Rocca, generale incaricato da Roatta di allestire il campo di Arbe, per giustificare l’alta mortalità infantile nel 1945 attraverso dichiarazioni mendaci incolpa le madri croate di togliere il cibo ai loro bambini per darlo ai mariti o ai figli adulti e di occultare in ogni modo i loro piccoli malati per cui, non venendo curati, decedono[3].
Quando la situazione critica diventa di dominio pubblico la Curia lubianese, nonostante avesse collaborato con il regime fascista, decide di occuparsi dei minori nei campi prelevandoli e ospitandoli in istituti clericali (come i seminari) con lo scopo di “redimerli” dalle colpe dei genitori internati.
Il progetto comune di allontanamento dei minori dalle loro famiglie viene accettato dai comandi militari in quanto così facendo diminuivano (anche se di poco) i costi nel campo e poteva essere meglio occultata la politica genocida fascista.
La propagazione di malattie favorita dalla depauperazione degli organismi in seguito all’insufficienza nutrizionale è dovuta anche al principio che vige nei lager espresso dal generale Gastone Gambara secondo il quale un campo di concentramento non deve essere un campo di ingrassamento poiché un individuo malato equivale ad un individuo tranquillo. Inoltre, gli internati non hanno nessun tipo di protezione dalle intemperie, infatti, sul finire dell’estate del ’42 emerge anche la mancanza di vestiti adatti ad affrontare il freddo in quanto spesso i rastrellati vengono strappati via dalle loro case con l’indumento estivo che hanno addosso.
Nei campi le punizioni sono all’ordine del giorno, il regolamento le disciplina a seconda del livello sociale dell’internato, del sesso, dell’età e della gravità del reato. Le modalità sono varie, in molti campi esistono una tenda e un palo prefigurati a questo scopo. Nella punizione del palo il prigioniero viene legato a questo con le mani dietro la schiena in una posizione tale da non permettergli di poggiare l’intera pianta del piede a terra. Le continue violenze e il clima di terrore da queste scaturito portano i detenuti all’esasperazione tanto da provocare anche alcuni suicidi documentati.[4]
La doppia gestione dei campi: amministrazione militare e amministrazione civile
I rastrellamenti continuano anche in altre località diverse da Lubiana e spesso vengono giustificati come punizioni per le azioni partigiane contro gli italiani come l’eccidio di Podhum del 12 luglio ’42 ad opera del prefetto Temistocle Testa di cui la causa scatenante sembrerebbe essere la vendetta per sedici soldati uccisi dai ribelli.
Nel 1943 oltre ai campi di Arbe, Gonars, Padova, Treviso, Renicci ne vengono istituiti molti altri come quelli di Visco, Colfiorito, Tavernelle, Pietrafitta, Cairo Montenotte, Sospello e, proprio a causa di questo notevole aumento la loro gestione diventa sempre più difficoltosa. L’amministrazione militare vuole delegare la gestione dei campi e degli sgomberi forzati all’amministrazione civile che però ha un diverso modo di intendere l’internamento.
Il Ministero dell’Interno in questi anni dispone di 48 campi istituiti durante l’entrata in guerra del Paese e sistemati in vecchi edifici situati soprattutto nell’Italia meridionale e nelle isole. Questi non sempre sono collocati lontano dalla popolazione come quelli istituiti dalle forze militari. In aggiunta spesso le autorità civili utilizzano il cosiddetto “internamento libero” che si differenzia dalle altre politiche di internamento in quanto gli internati hanno la possibilità di uscire dall’edificio entro una certa area.
Questo non vale per gli slavi che ricevono un trattamento molto più austero rispetto agli ebrei, ai cittadini stranieri o agli antifascisti di altre nazionalità. Per questi motivi la gestione dei campi di concentramento per internati civili rimarrà di competenza di entrambe le autorità continuando così a diramare disposizioni contraddittorie provocando ancora più malessere tra i reclusi.
Le indicazioni risultano discordanti soprattutto per il progetto di “bonifica etnica”. Esistono diversi modi di prefigurare il destino degli slavi tra chi crede di poterli trasformare in italiani grazie alla politica di italianizzazione e considera impossibile lo sgombero totale della popolazione slava dai territori di loro appartenenza e chi invece continua a promuovere le deportazioni favorendo una colonizzazione italiana.
Il destino di molti sloveni, croati, serbi, montenegrini, rom fu però interrotto dalla morte nei campi, non conosciamo i dati esatti delle vittime ma stime approssimative di studiosi tra cui Tone Ferenc e Carlo Spartaco Capogreco che espone le sue ricerche nel libro “I campi del Duce” contano almeno 4.166 persone decedute e seppellite nei cimiteri costruiti all’interno dei lager senza considerare coloro deceduti durante il tragitto.
La memoria dei campi di concentramento
I campi di concentramento fascisti continuano a funzionare anche dopo l’esautorazione dal Gran Consiglio del fascismo e la deposizione dal re Vittorio Emanuele III di Benito Mussolini fino all’8 settembre del 1943 quando con la capitolazione dell’esercito italiano e la relativa fuga del contingente di guardia gli internati sono liberi di lasciare quei posti che fino a quel momento hanno rappresentato un “orrendo golgota”.
La storia dei campi fascisti e di tutto il disegno politico-militare fascista divenne uno dei più emblematici vuoti di memoria del dopoguerra italiano. Persino i siti che ospitarono i lager sono stati dimenticati e per la loro struttura spesso fatiscente (inesistente nel caso delle tendopoli) sono stati facilmente dismessi.
Una testimonianza dell’oblio in cui finirono non solo le vittime di questa tragedia ma anche i luoghi stessi è quella di Giuseppe Lorentini, originario di Casoli, un paese abruzzese in provincia di Chieti, che afferma di essere venuto a conoscenza del campo di concentramento quasi per caso leggendo il sopracitato saggio di Capogreco, né le istituzioni scolastiche né il territorio avevano mai fornito nemmeno agli abitanti stessi nessuna informazione a riguardo.
Il campo di Casoli, istituito dal Ministero dell’interno nel 1940 ebbe lo scopo di internare gli ebrei stranieri colpiti dai provvedimenti bellici riguardanti i cittadini appartenenti a nazionalità considerate nemiche dell’Italia in guerra e, dal 1942, anno in cui gli internati ebrei furono trasferiti al campo di Campagna, ospitò gli jugoslavi.
A Giuseppe Loretini va il merito di aver divulgato la documentazione sul campo di Casoli nel suo libro (Giuseppe Lorentini, L’ozio coatto: storia sociale del campo di concentramento di Casoli 1940- 1944, Ombre Corte, Verona, 2019) e nel sito web da lui creato considerata molto importante poiché attualmente in Italia sono pochissimi i documenti conservati riguardanti la gestione dei campi e i fascicoli individuali dei reclusi.
Molti documenti infatti sono stati addirittura distrutti come nel caso della questura di Chieti colpevole di aver fatto sparire i fascicoli personali relativi ad oltre 20 località di internamento libero e 7 campi di concentramento di cui erano in possesso a causa del superamento dei limiti di conservazione prescritti[5].
Note:
[1] https://www.corriere.it/cultura/12_luglio_17/stajano-vendetta-fascista-testa-per-dente_4a076aec- d008-11e1-85ae-0ea2d62d9e6c.shtml
[2] Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943, Nutrimenti, Isola del Liri, 2008, p. 45.
[3] Costantino Di Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre corte, Verona, 2005, p. 22.
[4] Ferenc Tone, Rab-Arbe-Arbissima. Confinamenti, rastrellamenti, internamenti nella provincia di Lubiana, 1941.1943: documenti doc. n. 390 pp.355-56, Institut za novejso zgodovino Drustvo piscev zgosovine NOB, 2000.
[5] Giuseppe Lorentini, L’ozio coatto: storia sociale del campo di concentramento di Casoli (1940- 1944), Ombre Corte, Verona, 2019. Relativo sito web: https://www.campocasoli.org
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- Capogreco Carlo Spartaco, I campi del duce: l’internamento civile nell’Italia fascista, 1940-1943, ET Storia, 2004.
- Di Sante Costantino, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre Corte, 2004.
- Kersevan Alessandra, Lager italiani: pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili per slavi 1941-1943, Nutrimenti, 2008.
Quello dei campi di concentramento fascisti è un argomento di cui si è sempre parlato troppo poco. Complimenti per aver scelto di affrontare questo tema, bell’articolo, davvero molto interessante.