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La deposizione di Romolo Augusto
Gli storici sono soliti individuare alcune date che, per convenzione, segnerebbero la fine di una determinata epoca e l’inizio di un’altra. Tra le più importanti, occorre annoverare il 476 d.C., anno in cui viene spodestato l’ultimo imperatore dell’Impero Romano d’Occidente: Romolo Augusto. Soprannominato Augustolo a causa della sua giovane età, egli si insedia l’anno precedente per mano del padre Flavio Oreste, il quale, in qualità di generale (magister utriusque militiae), depone l’imperatore Giulio Nepote, sebbene quest’ultimo sia legittimamente riconosciuto dal collega d’Oriente Zenone.
Nella sua ascesa al trono si ritrova, tuttavia, ben presto a dover fare i conti con la ribellione delle truppe barbariche stanziate in Italia. Il malcontento nei confronti del nuovo sovrano riguarda, in particolare, la concessione di alcune terre che Eruli, Sciri e Turcilungi chiedono vedendosi opporre un rifiuto.
Tali popoli si muovono sotto la guida di Odoacre, il quale fa catturare e uccidere Flavio Oreste a Piacenza per poi, sceso a Ravenna, sconfiggere e assassinare anche il fratello Paolo. Romolo Augusto è deposto e le insegne imperiali vengono inviate dal capo barbaro alla corte costantinopolitana di Zenone. Così racconta l’evento Marcellino (Chronicon, 475-476):
«Odoacre, re dei Goti, si impadronì di Roma e assassinò subito Oreste. Il figlio di questi, Augustolo, fu esiliato nel Castel Lucullano in Campania. L’impero romano d’Occidente, che il primo Augusto, Ottaviano, aveva assunto nell’anno 709 dalla fondazione di Roma, perì con questo Augustolo 522 anni dopo che i suoi predecessori avevano iniziato a regnare. Da allora i re Goti furono padroni di Roma» (Odoacer rex Gothorum Romam optinuit. Orestem Odoacer ilico trucidauit. Augustulum filium Orestis Odoacer in Lucullano Campaniae castello exilii poena damnauit. Hesperium Romanae gentis imperium, quod septingentesimo nono urbis conditae anno primus Augustorum Octauianus Augustus tenere coepit, cum hoc Augustulo periit, anno decessorum regni imperatorum quingentesimo uigesimo secundo, Gothorum dehinc regibus Romam tenentibus).
Non diversa è la narrazione di Giordane (De origine actibusque Getarum,242-243):
«Non molto tempo dopo che Augustolo era stato nominato imperatore dal padre in Ravenna, il re dei Turcilingi, Odoacre, che aveva con sé Sciri, Eruli e truppe ausiliarie di genti diverse, occupò l’Italia, uccise Oreste e cacciò dal regno suo figlio Augustolo, condannandolo a vivere in esilio in Campania, nel castello di Lucullo. Così anche l’impero occidentale del popolo romano, che Ottaviano Augusto aveva assunto per primo nell’anno 709 di Roma, ebbe fine con questo Augustolo dopo 522 anni di successioni: in seguito governarono Roma e l’Italia i re dei Goti» (Augustulo vero a patre Oreste in Ravenna imperatore ordinato non multum post Odoacer Torcilingorum rex habens secum Sciros, Herulos diversarumque gentium auxiliarios Italiam occupavit et Orestem interfectum Augustulum filium eius de regno pulsum in Lucullano Campaniae castello exilii poena damnavit. [243] Sic quoque Hesperium Romanae gentis imperium, quod septingentesimo nono urbis conditae anno primus Augustorum Octavianus Augustus tenere coepit, cum hoc Augustulo periit anno decessorum prodecessorumue regni quingentesimo vicesimo secundo, Gothorum dehinc regibus Romam Italiamque tenentibus).
L’episodio trova spazio anche negli Annales Valesiani,36-37:
«Augustolo, che prima di salire al trono era chiamato Romolo dai genitori, fu fatto imperatore dal padre, il patrizio Oreste. Odoacre, tuttavia, sopraggiungendo con il popolo degli Sciri, uccise il patrizio Oreste a Piacenza e suo fratello Paolo nella pineta di Classe fuori Ravenna. Entrando a Ravenna depose dal trono Augustolo, della cui giovane età avendo pietà, lo risparmiò, e poiché era di bell’aspetto, donandogli anche un reddito di sei mila soldi, lo mandò in Campania a vivere liberamente con i suoi genitori» (Augustulus, qui ante regnum Romulus a parentibus vocabatur, a patre Oreste patricio factus est imperator. Superveniens autem Odoachar cum gente Scirorum occidit Orestem patricium in Placentia et fratrem eius Paulum ad Pinetam foris Classem Ravennae.Ingrediens autem Ravennam deposuit Augustulum de regno, cuius infantiae misertus concessit ei sanguinem, et quia pulcher erat, etiam donans ei reditum sex milia solidos, misit eum intra Campaniam cum parentibus suis libere vivere).
Anche Evagrio (Historiae Ecclesiasticae, II, 16) considera Augustolo l’ultimo imperatore romano:
«[Nepote] fu cacciato da Oreste, e al suo posto fu fatto ultimo imperatore Romolo, suo figlio, chiamato Augustolo, milletrecentotre anni dopo il regno del re Romolo» (ἐκβάλλεται τε ἀπὸ Ὀρέστου καὶ μετ’ἐκεῖνον ὁ τούτου παῖς Ῥωμύλλος, ὁ ἐπίκλην Αὐγουστοῦλος, ὃς ἔσκατος τῆϛ Ῥῶμηϛ αὐτοκράτωρ κατέστη. μετὰ τρεῖς καὶ τριακοσίους καὶ χιλίους ἐνιαυτοὺς τῆϛ Ῥωμύλλου βασιλείαϛ). Due secoli dopo, la notizia è ripresa da Paolo Diacono (Historia Romana, XV,10), nella cui opera si legge: «Augustolo che governava l’impero senza averne diritto o titolo […] depose la sua carica. Così l’impero romano che con capitale Roma era esteso su tutto il mondo e la maestà imperiale, che era iniziata con Ottaviano Augusto, finirono con questo Augustolo nell’anno 1209 dalla fondazione di Roma corrispondente all’anno 517 da Gaio Cesare, che per primo occupò il potere assoluto concentrato nelle mani di una sola persona, e all’anno 475 dalla incarnazione del Signore. Dunque, rimosso Augustolo dalla carica e dalla dignità imperiale, Odoacre, entrato a Roma, si impadronì dell’intero regno d’Italia» (Augustulus siquidem, qui imperii praesumpserat potestatem, […] imperialem deposuit maiestatem. ita Romanorum apud Romam imperium toto terrarum orbe venerabile et Augustalis illa sublimitas, quae ab Augusto quondam Octaviano coepta est, cum hoc Augustulo periit anno ab urbis conditione millesimo ducentesimo nono, a Gaio vero Caesare, qui primo singularem arripuit principatum, anno quingentesimo septimo decimo, ab incarnatione autem domini anno quadrigentesimo septuagesimo quinto. igitur deiecto ab Augustali dignitate Augustolo urbem Odovacer ingressus totius Italiae adeptus est regnum).
Le prime due fonti riferiscono che Romolo Augusto è mandato in esilio nell’attuale Castel dell’Ovo a Napoli. La terza testimonianza ci fornisce una versione differente, riferendo che gli è concesso un vitalizio di seimila soldi all’anno per poter vivere con i propri parenti, venendogli risparmiata la vita probabilmente per via della sua giovane età; altre ancora parlano, invece, di una relegazione in un’angusta cella di un monastero.
L’ipotesi più probabile è ritenuta, comunque, la prima. Per ciò che concerne Odoacre, egli, essendo privo della cittadinanza romana, non può ambire al titolo di imperatore: si pone, pertanto, sotto la protezione di Zenone, proclamandosi rex gentium, ossia re delle milizie barbariche stanziate in Italia. In seguito, precisamente nel 480 d.C., prende anche il controllo dei pochi territori controllati da Giulio Nepote, ucciso in Dalmazia dai comites Ovida e Viatore. Per tale ragione alcuni preferiscono vedere in tale data l’anno del passaggio dall’epoca tardoantica a quella medievale piuttosto che nel 476 d.C.
Non sono mancate altre proposte: alcuni hanno indicato come fine dell’età antica il 330 d.C., anno del trasferimento della capitale dell’impero a Costantinopoli; altri il 380 d.C., quando il cristianesimo è proclamato religione di stato; altri ancora il 395 d.C, che vede la divisione dell’impero fra i due figli di Teodosio o il 410 d.C., anno del sacco di Roma ad opera dei Visigoti capeggiati da Alarico.
Le cause esterne e interne del declino
Altrettanto discordi sono i pareri degli studiosi in merito alle cause della caduta dell’impero romano d’Occidente. Alcuni hanno rintracciato nelle invasioni barbariche il fattore decisivo: dopo la battaglia di Adrianopoli del 378 d.C., i barbari vengono fermati con sempre maggiore difficoltà fino a dilagare in tutta la parte occidentale dell’Impero, ormai divenuto ingovernabile dal centro per via della sua estensione spropositata. La società tardoromana- sottolineano altri- è, tuttavia, corrosa al suo interno anche da altre criticità. Una di queste è relativa all’eccessivo fiscalismo che grava sui cittadini, come emerge dalle parole di Salviano di Marsiglia (Il governo di Dio,4,30):
«In un tempo in cui lo stato romano o è già morto o è ormai agli ultimi sussulti e là dove sembra ancora in vita sta morendo strangolato dalle catene delle tasse come dalle mani di un bandito, in un periodo del genere esistono ancora tanti ricchi, le cui imposte devono essere pagate dai poveri, si trovano cioè tanti ricchi, le cui imposte uccidono i poveri» (quod cum Romana respublica vel iam mortua, vel certe extremum spiritum agens, in ea parte qua adhuc vivere videtur, tributorum vinculis quasi praedonum manibus strangulata moriatur, inveniuntur tamen plurimi divitum quorum tributa pauperes ferunt. Hoc est, inveniuntur plurimi divitum quorum tributa pauperes necant).
Tale innalzamento delle tasse è comportato dalla necessità di accrescere il numero dei soldati per meglio difendere i confini dalle pressioni esterne. Determinando una sempre maggiore povertà, esso causa continui disordini nella città. Sommosse scoppiano anche per la diminuzione dei flussi annonari e per il ritardo negli approvvigionamenti, come accaduto ad Antiochia nel 387 d.C. e a Tessalonica nel 390 d.C. L’aumento della popolazione improduttiva in proporzione a quella produttiva contribuisce ad acuire la crisi economica: il peso delle tasse e dei fitti porta molti coltivatori ad abbandonare il loro lavoro. Altre braccia al lavoro nei campi sono sottratte dal reclutamento di soldati.
Prostrati da tale sistema fiscale, una considerevole quantità di non abbienti si trasferisce nelle regioni governate dai barbari allo scopo di evitare l’assoggettamento all’autorità imperiale. Ce ne fornisce una testimonianza Orosio (Historiae adversus paganos, 7,41,7), il quale scrive che:
«[…] senza indugio i barbari, maledette le spade, si convertirono all’aratro e trattarono i Romani superstiti come alleati e amici, al punto che si potevano trovare in mezzo a loro dei Romani che preferivano sopportare tra i barbari una libertà povera piuttosto che tra i Romani una continua richiesta di tributi» (quoque continuo barbari exsecrati gladios suos ad aratra conuersi sunt residuosque Romanos ut socios modo et amicos fouent, ut inueniantur iam inter eos quidam malint inter barbaros pauperem libertatem, quam inter Romanos tributariam sollicitudinem Romani, qui sustinere).
Differente è il quadro economico nella parte orientale, più densamente popolata e meglio protetta dai barbari. In essa sopravvive la piccola proprietà terriera, fondata sul ricorso alla manodopera libera, e il commercio non attraversa gravi crisi: le esportazioni prevalgono sulle importazioni, consentendo di reinvestire i guadagni in attività imprenditoriali. Si impone, così, man mano il primato di Costantinopoli su tutte le altre città dell’impero, compresa l’antica capitale. Ne è una prova la parificazione del suo patriarcato con la sede apostolica romana, sancita dal Concilio di Calcedonia del 451 d.C.
L’aspetto religioso è, secondo alcuni, significativo anche come fattore causale del declino dell’impero romano. In particolare, Edward Gibbon commenta con tono critico la funzione politica del cristianesimo antico, assegnando un ruolo negativo alla conversione di Costantino. L’affermazione della religione cristiana avrebbe, secondo la sua tesi, indebolito militarmente i Romani, incoraggiandoli a dedicarsi a una vita di meditazione e di preghiere che li priva del loro antico spirito combattivo.
Si verifica, inoltre, una separazione, fino ad allora sconosciuta al mondo latino, tra il potere temporale e quello spirituale che contribuisce all’indebolimento dello Stato, il cui equilibrio è minato dall’ordinazione autonoma dei chierici, dalla crescita del ceto ecclesiastico che gode di sempre maggiori privilegi e dal diritto di proprietà della Chiesa. Le fondamenta della società romana tardoantica sono minate anche dagli scontri sorti tra i cristiani in merito alle questioni dogmatiche.
Altri studiosi hanno posto l’accento sulle conseguenze negative del calo demografico che, manifestatosi a partire dal III secolo, ha la sua cagione nella crisi economica e nella insicurezza. Le nascite poco numerose non riescono a compensare le consistenti morti causate dalle invasioni, dalle guerre e alle epidemie. Tale denatalità, definita da De Jaeghere “demografia del declino”, innesta una crisi dell’amministrazione statale, l’aristocrazia romana perde i connotati di élite militare per trasformarsi in un’élite latifondista ormai poco interessata alla difesa dell’impero.
L’esercito incomincia a patire questa penuria di uomini alla quale la carenza di fondi impedisce di far fronte con l’arruolamento di truppe mercenarie. Si rende, dunque, necessario optare per il reclutamento degli immigrati; tale scelta si rivelerà fatale poiché snaturerà la composizione delle legioni.
Una “caduta senza rumore”
In mezzo a queste varie teorie avanzate dagli studiosi, un dato sembra potersi dire acquisito con certezza: quella dell’impero romano, come scritto da Momigliano, è “una caduta senza rumore”. Se, infatti, nella nostra percezione l’evento verificatosi nel 476 d.C. è un momento drammatico e decisivo, negli uomini dell’epoca non suscita una reazione altrettanto forte.
La deposizione di Romolo Augustolo riguarda esclusivamente l’Italia e neanche lì ai contemporanei la vicenda appare politicamente e giuridicamente fatale. Probabilmente la giovane età dell’imperatore e la sua scarsa significatività contribuiscono a non far percepire l’importanza di quella detronizzazione messa in atto da Odoacre che ancora oggi accende il dibattito tra gli storici.
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- G. Cresci Marrone – F. Rohr Vio – L. Calvelli, Roma antica. Storia e documenti, Il Mulino, Bologna, 2014.
- E. Gibbon, Declino e caduta dell’Impero Romano, Mondadori, Perugia, 2017.
- P. Heather, La caduta dell’Impero Romano, Garzanti, Milano, 2008.
- A. Momigliano, La caduta senza rumore di un impero nel 476 d.C., «Annali della Scuola Normale di Pisa», Serie III, Vol. III, Fasc. II, 1973, pp. 397-418.
- Santo Mazzarino, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’Impero Romano, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.