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Le Brigate Rosse (BR) sono un’organizzazione terroristica di estrema sinistra, attiva in Italia tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta. L’organizzazione affonda le proprie radici nell’onda lunga della contestazione giovanile, che nel 1969 finisce per sovrapporsi alla conflittualità nelle fabbriche, in un clima generale di scontri sociali e instabilità politica nel Paese.
L’autunno caldo: l’affermazione del movimento operaio
Il picco delle tensioni nelle fabbriche si verifica durante il cosiddetto autunno caldo, una stagione di intense lotte sindacali culminate, nel 1970, nell’approvazione dello «Statuto dei lavoratori». In questa fase, al declino del movimento studentesco subentra l’ascesa del movimento operaio, il cui potenziale rivoluzionario è particolarmente incandescente nella città di Torino, espressione del capitalismo industriale moderno nel panorama italiano. L’attivismo degli operai nelle fabbriche si traduce nella rivendicazione di un’autonomia dalle stesse organizzazioni sindacali, tra le quali per tutti gli anni Sessanta la competizione prevale sulla cooperazione.
Tra settembre e novembre 1969, sulla scia degli orientamenti prevalenti come l’antiautoritarismo e l’operaismo, nascono due gruppi politici dotati di organi di informazione: Potere operaio e Lotta continua. Mentre il primo rivendica la priorità della lotta operaia su quella studentesca, il secondo attribuisce pari rilevanza a tutti i soggetti rivoluzionari. Le due formazioni sono espressione della nascente sinistra extraparlamentare, da cui proverranno nuclei dediti alla lotta armata, come Prima Linea e le Brigate Rosse.
La base ideologica comune alle varie formazioni ha il suo principale teorico nel filosofo Mario Tronti, che alla luce delle contraddizioni del tardo-capitalismo arriva a teorizzare l’emergere dell’operaio-massa, un soggetto sociale poco qualificato e alienato a causa della ripetitività delle mansioni fordiste. L’operaio-massa è al centro del celebre film di Elio Petri, La classe operaia va in paradiso (1971).
Il contesto storico-politico: la strategia della tensione e gli anni di piombo
In seguito alla condanna dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia da parte del Partito comunista italiano (PCI) nel 1968, alcuni settori del principale partito italiano, la Democrazia Cristiana (DC), iniziano a mostrare una certa apertura nei confronti dei comunisti. Nel clima della Guerra Fredda, il radicalizzarsi delle proteste e l’avvio di un dialogo tra esponenti del governo e i comunisti finiscono per alimentare timori e ostilità nei confronti delle forze di sinistra, al punto che alcuni strati della classe dirigente italiana si convincono della necessità di arginare le spinte progressiste più radicali, anche a costo di sostenere una svolta autoritaria nel Paese. Del resto, in questa fase in tutta l’Europa mediterranea, ad eccezione dell’Italia, vigono regimi dittatoriali.
A dicembre 1969, il periodico progressista britannico The Observer evidenzia il coinvolgimento di ambienti di destra negli attentati iniziati ad aprile e culminati nella strage di Piazza Fontana a Milano, denunciando una “strategia della tensione” ordita da organi statali in contatto con i servizi segreti di nazioni alleate dell’Italia.
Le indagini per l’esplosione di una bomba presso la Banca nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana il 12 dicembre, con i suoi 17 morti e 88 feriti, si orientano sulla pista anarchica, che sarà smentita solo successivamente; le responsabilità di questo e altri attentati saranno poi ricondotte ad ambienti neofascisti appoggiati da apparati delle forze armate.
Per alcuni gruppi di sinistra, la strage di Milano rappresenta una spinta definitiva verso lotta armata. Sebbene si tratti di una componente minoritaria della società civile italiana, gli anni Settanta passeranno alla Storia come “anni di piombo”, per la visibilità politica e mediatica assunta dalle azioni di alcuni gruppi armati.
Le origini delle Brigate Rosse (BR): il Collettivo Politico Metropolitano
Alla vigilia dell’autunno caldo, la coppia di studenti trentini costituita da Renato Curcio e Margherita Cagol si trasferisce nella metropoli milanese: qui i due giovani si uniscono alla contestazione operaia e antisindacale. Nell’autunno 1969, Curcio fonda il Collettivo Politico Metropolitano (CPM), assieme all’ex socialista Corrado Simioni, una figura controversa a causa dei dubbi suscitati in molti circa un suo ipotetico legame con i servizi segreti stranieri, che successivamente uscirà dal collettivo.
Il CPM è un gruppo eterogeneo di militanti che diviene un punto di riferimento politico-culturale in questo periodo. Un gruppo analogo si costituisce anche a Reggio Emilia, grazie alla militanza di figure come Alberto Franceschini, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari: si tratta del Collettivo Politico Operai-Studenti, noto come Gruppo dell’appartamento per l’abitudine a svolgere le riunioni in una soffitta cittadina. Nel 1970, i due collettivi si uniscono dando vita al gruppo-rivista Sinistra Proletaria.
La nascita delle BR: ideologia e prospettiva rivoluzionaria
Sebbene non vi sia un momento ufficiale di riferimento per la nascita delle BR, il 20 ottobre 1970, Sinistra Proletaria saluta la nascita di organizzazioni operaie autonome: si tratta della prima fase di autorganizzazione proletaria volta a combattere contro i padroni e i loro servi. Secondo alcuni testimoni, le BR mossero i loro primi passi nell’agosto 1970, durante un convegno svolto a Pecorile, un paese ai piedi dell’Appennino, a venti chilometri da Reggio Emilia.
Nell’organizzazione confluiscono i militanti del CPM, del Gruppo dell’appartamento e operai delle fabbriche milanesi come Mario Moretti. Il simbolo dell’organizzazione è una stella a cinque punte, un riferimento alle brigate Garibaldi, all’Armata Rossa, alla bandiera dei Vietcong e soprattutto ai Tupamaros, il movimento guerrigliero uruguaiano punto di riferimento della nascente banda armata.
Per i brigatisti, le condizioni oggettive per il passaggio al comunismo sono già evidenti, pertanto questi ultimi ritengono necessario passare all’azione e sollecitare le masse alla sovversione. In questo processo, i partiti della sinistra tradizionale, così come i sindacati, rappresentano dei nemici da abbattere: i primi, per aver “tradito” la rivoluzione dopo la stagione della Resistenza; i secondi per il fatto di essere il perno intorno al quale si gioca l’intero processo di ristrutturazione del capitale in fabbrica e nella società.
Le prime azioni brigatiste si concentrano nelle fabbriche milanesi Sit-Siemens e Pirelli, come quelle di altri gruppi militanti di quel tempo. La divisione in «brigate» permette a piccoli gruppi di militanti di agire e inserirsi nei conflitti tra operai e dirigenti. In questa prima fase, le azioni delle BR si limitano al volantinaggio e a sporadici comizi nella capitale industriale del Paese, perciò gli stessi partiti politici e il governo italiano ne sottovalutano il potenziale. Infatti, per il quotidiano comunista l’Unità l’organizzazione rappresenta un’invenzione della destra eversiva finalizzata a far ricadere sui sindacati e sul movimento operaio le responsabilità dei disordini sociali.
Attraverso un’autointervista, formula utilizzata di frequente dai Tupamaros, nel settembre 1970 le BR delineano pubblicamente i propri modelli e le linee strategiche e programmatiche dell’organizzazione: il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l’esperienza dei movimenti guerriglieri metropolitani. L’esperienza politica delle BR nasce dall’inconsapevolezza mostrata dal movimento del ’68, incapace di immaginare gli attuali livelli di scontro e quindi di affrontarli con strumenti idonei.
Secondo il documento, di fronte alla rinuncia dell’opzione riformista da parte degli operai, la borghesia si sarebbe organizzata per riaffermare il proprio potere in maniera dispotica per frenare gli operai e lo stesso centro-sinistra. In questo senso, le BR ritengono che la liquidazione dello Stato democratico non sia dovuta all’affermazione di un fascismo storico, ma alla repressione del movimento rivoluzionario, secondo il modello gaullista francese.
In questa prospettiva, la lotta armata viene descritta come una scelta obbligata dinanzi alla «borghesia che colpisce», in un percorso che vede le BR come i primi punti di aggregazione per la formazione del Partito Armato del Proletariato.
La «propaganda armata»: le bombe di Linate, i sequestri di Macchiarini e Amerio
Un punto di svolta si registra con l’esplosione di tre delle otto bombe posizionate sulla pista di Linate, il 20 gennaio 1971: da questo momento gli atti delle BR vengono condannati pubblicamente dalla stampa, dai partiti della sinistra e dalle stesse organizzazioni extra-parlamentari. Inizia l’escalation di violenza dell’organizzazione e prende forma la «propaganda armata», considerata uno strumento efficace nello svelare la debolezza dei padroni e al contempo dare un segnale di rivolta.

All’inizio dell’anno, le BR incendiano anche l’auto di Ignazio La Russa, attuale presidente del Senato e allora responsabile del movimento neofascista Fronte della Gioventù. Il primo sequestro politico delle BR risale al 3 marzo 1972, ai danni dell’ingegnere Idalgo Macchiarini, un dirigente della Sit-Siemens. L’uomo viene chiuso in un furgone e ammanettato; subisce un processo politico e viene fotografato con una pistola puntata sulla guancia e un cartello al collo, in cui compare la celebre frase «Colpiscine 1 per educarne cento!»: l’immagine diventa un manifesto delle modalità di azione delle BR.
Il passaggio dagli atti di vandalismo sulle cose al sequestro dimostrativo-punitivo di un personaggio simbolo sancisce l’evoluzione della strategia brigatista, mentre all’inizio di maggio il covo milanese viene scoperto dalle forze dell’ordine, spingendo i dirigenti alla clandestinità. È in seguito a questa circostanza che si formano due «colonne», a Milano e a Torino, costituite da più brigate attive nelle fabbriche e nei quartieri.
Nell’ottobre 1973 i Paesi occidentali subiscono l’embargo petrolifero da parte dei Paesi arabi, una conseguenza della Guerra del Kippur combattuta tra questi ultimi e Israele. Lo shock petrolifero determina un brusco aumento del prezzo del greggio, che ha un notevole impatto sulle economie occidentali. Il governo presieduto da Mariano Rumor vara un piano di austerità economica finalizzato ad attuare scelte di vita all’insegna del risparmio nelle famiglie italiane.
Intanto, a novembre la Cia sostiene un colpo di stato militare che contribuisce al rovesciamento del governo legittimo del socialista cileno Salvador Allende, spianando la strada alla sanguinosa dittatura di Augusto Pinochet. L’evento ha un impatto clamoroso in Italia, dove numerose figure politiche si convincono dell’esistenza di evidenti analogie tra il caso cileno e quello italiano.
Queste circostanze spingono Enrico Berlinguer, segretario del Pci dal 1972, ad accelerare l’approdo dei comunisti al governo del Paese, esprimendo pubblicamente la convinzione che solamente tramite la realizzazione di un «compromesso storico», ossia attraverso la collaborazione di tutte le forze democratiche e antifasciste al governo, sarebbe possibile arginare spinte autoritarie e tutelare la giovane democrazia italiana.

La crisi economica impatta anche sulle scelte della FIAT, che attua una serie di licenziamenti a cui le BR rispondono, nel mese di dicembre, con il rapimento di Ettore Amerio, responsabile del personale d’azienda. L’organizzazione rivendica il sequestro attraverso la diffusione di un volantino, cui fanno seguito anche le parole di condanna del segretario della CGIL Luciano Lama, che esorta a punire chiunque si metta contro la legge.
Nel volantino si fa riferimento ad un «carcere del popolo», e i licenziamenti vengono ritenuti il frutto di scelte politiche fasciste operate dall’azienda, di cui Amerio rappresenta un simbolo; perciò, deve far fronte ad un «processo proletario». Amerio viene rilasciato dopo otto giorni di prigionia, per l’atteggiamento collaborativo e per la decisione della FIAT di non procedere con la cassa integrazione per gli operai.
Dalle fabbriche al cuore dello Stato: il successo dell’operazione Sossi e l’arresto dei dirigenti brigatisti
Tra il 1973 e il 1974 la lotta brigatista compie un salto di qualità passando dalle fabbriche al cuore dello Stato, con l’obiettivo di incidere sui rapporti di forza interni all’apparato politico-istituzionale italiano. Il primo passo in tal senso è rappresentato dal sequestro del giudice Mario Sossi, sostituto procuratore della Repubblica di Genova, nell’aprile 1974 a Genova.
Secondo Mario Moretti si tratta della «prima grande azione armata contro lo Stato e ha un grandissimo effetto». La scelta di colpire Sossi scaturisce dal fatto che il magistrato incarna, per i brigatisti, la giustizia asservita al potere della Democrazia cristiana e rappresenta un’occasione per attaccare quello che essi considerano l’anello più debole dello Stato.
A seguito della diffusione da parte della stampa di comunicati attribuiti alle BR, queste ultime decidono di intervenire rivendicandone solamente alcuni, allegando una fotografia e due messaggi autografi di Sossi, rivolti alla famiglia e al sostituto procuratore della Repubblica di turno, affinché sospenda le ricerche. Cinque giorni prima della strage di piazza della Loggia a Brescia, il magistrato viene liberato, dopo trentacinque giorni di tentata trattativa con lo Stato per il rilascio di otto compagni comunisti del gruppo armato XXII Ottobre, in cambio di Sossi.
Tra i più strenui sostenitori della linea della fermezza vi è il procuratore generale di Genova Francesco Coco, contrario a cedere a qualsiasi forma di ricatto e in linea con il governo Rumor, l’unico potere in grado di ostacolare concretamente la liberazione provvisoria dei comunisti in carcere, espressa dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova. Nonostante la decisione di Coco di impugnare la sentenza in Cassazione, le BR liberano Sossi, per non fornire alcun pretesto che possa invalidare il significato politico dell’ordinanza emessa dalla Corte d’Assise.
L’operazione Sossi rappresenta un successo per l’organizzazione brigatista, che decide di rinunciare alla «condanna a morte» del magistrato, evitando spargimenti di sangue e dando un segnale di coerenza e serietà rispetto alla parola data, al contrario degli apparati statali, criticati dalla stampa e dallo stesso Sossi.

Dopo meno di un mese dal rilascio di Sossi, due militanti del Movimento sociale italiano vengono uccisi nella sede padovana. Le BR si assumono la responsabilità dei delitti con un comunicato, specificando che si è trattato di un incidente scaturito dalla reazione violenta dei due missini.
Dopo gli eventi di Padova, le BR si trovano ad affrontare perquisizioni e indagini coordinate dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il Servizio Informazioni difesa (SID) era riuscito ad infiltrare una spia, Silvano Girotto, che aveva già incontrato Curcio e Moretti due volte, fissando un ulteriore incontro per settembre. Quest’ultimo viene informato tramite una telefonata della trappola in atto e diserta la riunione, a cui invece parteciperanno Curcio e Franceschini.
Mario Moretti ha dichiarato in seguito di non essere riuscito ad avvisare i compagni, che finiscono in arresto l’8 settembre 1974. Le circostanze non saranno mai del tutto chiarite, ma apriranno una nuova fase nella storia delle Br: l’ascesa di Mario Moretti ai vertici dell’organizzazione.
Nel giugno 1975, le BR riescono a far evadere Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato, di cui lo stesso generale Dalla Chiesa dirà, anni più tardi: «Onestamente, tra tutte le carceri non era certamente il più protetto, né il meglio gestito […] vi è da spaventarsi, mettersi le mani nei capelli per una gestione del genere». Nel gennaio 1976 Curcio viene definitivamente arrestato, assieme ad altri militanti centrali nell’organizzazione. Il 27 maggio si apre il processo di Torino ai brigatisti, per i fatti che vanno dal 1973 alla fine del 1975: i militanti si dichiareranno prigionieri politici, inaugurando un nuovo scenario per il terrorismo italiano.
L’omicidio politico e le «gambizzazioni»: la morte del procuratore Coco e l’attacco alla stampa
L’8 giugno del 1976 si rafforza l’attacco al cuore dello Stato: un gruppo armato delle BR ferisce mortalmente il procuratore Francesco Coco, responsabile di avere ostacolato la scarcerazione dei detenuti della XXII Ottobre due anni prima: da questo momento la strategia brigatista punta all’omicidio politico mirato perché disconosce lo Stato.
Il 1976 è un anno cruciale per la politica italiana, dal momento che alle elezioni di giugno, le prime in cui hanno accesso al voto anche i diciottenni, il PCI ottiene uno storico 34%, trovandosi ad un passo dalla DC (38%). Le BR vedono in questo un segnale del realizzarsi del compromesso storico, una prospettiva che desta grande preoccupazione tra i militanti.
Nel 1977 esplode la controcultura dei movimenti giovanili e le BR organizzano campagne agguerrite contro la stampa, accusata di svolgere una «funzione controrivoluzionaria». I brigatisti iniziano a colpire figure di riferimento nel mondo del giornalismo, come Valerio Bruno del Secolo XIX, Indro Montanelli de Il Giornale Nuovo ed Emilio Rossi del Tg1. In questi attacchi si afferma un nuovo metodo intimidatorio, caratterizzato dalla tendenza a «gambizzare» i bersagli, per lasciare un segno visibile sul corpo della vittima designata.
Il 16 novembre, a Torino, è il turno del vicedirettore del quotidiano La Stampa, Carlo Casalegno, colpito da quattro proiettili di cui solo uno fuoriuscito: il giornalista morirà dopo due settimane di agonia. La radicalizzazione della lotta brigatista trova il culmine nel tentativo di annientare l’avversario: con la fine del 1977 si conclude un’altra stagione nella storia delle Brigate Rosse e della Repubblica italiana.
Il sequestro di Aldo Moro
L’obiettivo principale delle Brigate Rosse è ormai solo uno: la Democrazia Cristiana. Per le BR il partito democristiano rappresenta lo Stato e il leader Aldo Moro ne incarna l’anima. Dopo un’accurata preparazione, il 16 marzo 1978 dei militanti guidati da Mario Moretti, Valerio Morucci e Prospero Gallinari rapiscono Aldo Moro in via Fani, a Roma.
L’operazione determina la morte sul colpo dei cinque uomini della scorta, generando nel Paese un clima di sgomento generale. Il rapimento viene messo in atto contestualmente alla presentazione di un nuovo governo monocolore democristiano in Parlamento, presieduto da Giulio Andreotti e sostenuto dal voto favorevole del PCI.
Durante la prigionia di Moro, il mondo politico italiano si spacca tra una linea favorevole alla trattativa, rappresentata dal Partito socialista italiano e da parte del mondo cattolico, e una linea intransigente, cui aderiscono Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, che finisce per prevalere. A nulla vale l’appello personale di papa Paolo VI agli uomini delle Brigate Rosse, affinché rilascino il presidente della DC.
Il corpo del politico sarà ritrovato esanime in una Renault parcheggiata in via Caetani il 9 maggio, dopo cinquantacinque giorni di prigionia. In particolare, il luogo di ritrovamento del corpo si trova in prossimità di via delle Botteghe Oscure, dove risiedeva la sede storica del PCI, e di piazza del Gesù, sede della DC.

L’omicidio di Aldo Moro rappresenta il punto più alto dello scontro con lo Stato e al contempo l’inizio del declino dell’organizzazione, che sulle modalità di detenzione e in particolare sulla scelta di uccidere il politico si spacca al suo interno, a partire dalla fuoriuscita dei militanti Valerio Morucci e Adriana Faranda. Sul piano politico, la vicenda fa tramontare la prospettiva del compromesso storico e favorisce la presa di distanza dalle azioni delle BR di quanti avevano mostrato sino a quel momento una certa ambiguità.
Dopo Moro: l’inizio del declino delle Brigate Rosse
Dopo il caso Moro, le BR proseguono la lotta armata attraverso omicidi e attacchi a sindacalisti, giornalisti e politici, nonostante le divisioni interne. Nel luglio 1979, alcuni brigatisti detenuti nel carcere speciale dell’Asinara inviano un documento al comitato esecutivo, proponendo una differente linea di azione politica in opposizione a Moretti, che viene rifiutata dai dirigenti impegnati a sfuggire alle forze dell’ordine e a riorganizzare la struttura dell’organizzazione.
Intanto, l’attentato mortale contro il dirigente della Montedison Sergio Gori a Mestre, nel gennaio 1980, rappresenta l’ultima azione delle BR nelle grandi fabbriche. Un mese dopo, l’arresto del dirigente della colonna torinese Patrizio Peci dà il via alla collaborazione del primo brigatista pentito con la giustizia, generando una crisi all’interno delle BR, cui faranno seguito numerosi arresti in tutta Italia: ciò comporterà una maggiore conoscenza delle organizzazioni clandestine.
L’emanazione della legge sui collaboratori di giustizia (i cosiddetti “pentiti”) nel febbraio 1980 e l’arresto di Mario Moretti nell’aprile 1981 contribuiscono a frammentare l’organizzazione. Tra le colonne principali emerge quella militarista nota come Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente (BR-PCC), o Prima Posizione, dalla quale nel 1985 si scinderanno quelli della Seconda Posizione che assumeranno il nome di Brigate Rosse per l’Unione dei Comunisti Combattenti (BR-UCC).
Mario Moretti e Renato Curcio, ormai detenuti da tempo, dichiarano conclusa la stagione della lotta armata nel 1987. A quel punto, l’organizzazione è frammentata, priva di coordinamento nazionale e molte delle sue figure chiave sono state arrestate o sono fuggite all’estero. Nell’ottobre 1988, un altro gruppo di militanti, tra cui Prospero Gallinari, dichiara la fine della guerra con lo Stato in un documento diffuso alla stampa, sostenendo che le Brigate Rosse coincidono con i prigionieri politici dell’organizzazione: la neutralizzazione del nucleo storico dell’organizzazione armata è ormai avvenuta.

Un’altra occasione: la giustizia riparativa
Nel gennaio 1983 la Corte d’Assise di Roma condanna 63 imputati delle BR a 32 ergastoli e 316 anni, concedendo quattro assoluzioni e tre amnistie. In seguito, nel processo d’appello saranno concessi alcuni sconti di pena ai brigatisti dissociatisi dall’organizzazione. Un ruolo fondamentale viene ricoperto dai pentiti, ovvero terroristi disponibili a collaborare con la giustizia e quindi beneficiari di sconti di pena grazie all’introduzione della Legge 6 febbraio 1980, n.15. Il primo brigatista pentito è Patrizio Peci, tuttavia, sarà Giovanni Falcone a normare la figura del collaboratore di giustizia all’inizio degli anni Novanta, nel corso della lotta alla mafia.
I brigatisti direttamente coinvolti nel caso Moro sono quindici e molti di loro, dopo aver scontato la pena, prenderanno parte ad un percorso di giustizia riparativa assieme alla figlia del Presidente democristiano, Agnese Moro. Da questo dialogo a più voci di una stagione dolorosa è scaturito il Libro dell’incontro, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato (2015). Il volume racconta dell’incontro avvenuto, nell’arco di oltre sette anni, tra alcune vittime (e loro familiari) e alcuni responsabili della lotta armata.
Questa esperienza di riconciliazione è testimoniata da numerosi convegni e da un’intensa attività divulgativa nelle scuole da parte degli stessi protagonisti. Tale scelta ci mostra da un lato le modalità di reinserimento nella società degli attori della lotta armata e, dall’altro, ci offre una prospettiva particolare con cui gestire la memoria dei conflitti e quindi ripensare l’idea di pace nel mondo contemporaneo.
Contenuti audio-video extra consigliati:
- Alessandro Barbero – Le Brigate Rosse ed il caso Moro
- Aldo Moro: qualcuno sapeva, Alessandro Barbero
- Rai Play, La notte della Repubblica – La nascita delle Brigate Rosse, a cura di Sergio Zavoli (1989)
Film consigliato: Buongiorno, notte di Marco Bellocchio (2003), ispirato al libro dell’ex brigatista Anna Laura Braghetti sul rapimento e la detenzione di Aldo Moro.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Landolfi, Le BR in Italia: uno sguardo d’insieme tra sociologia, storia e cronaca, Aracne editrice, Roma, 2018.
- Pino Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Compton, Roma, 2012.
- Mario Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, Mondadori, Milano, 2007.