CONTENUTO
Brigantaggio e banditismo. Dalla storia al mito (1500-1800).
La storia del Brigantaggio e del Banditismo non può prescindere dal Mito. E’ noto che nella cultura occidentale e nelle letterature continentali il Mito ha assunto epoca dopo epoca un ruolo santificatorio, causa di ritorno all’umanesimo, all’aria di decadenza culturale ed al principio di nichilismo filosofico. Si è parlato anche di un Mito originale e di un Mito prefabbricato, a seconda se derivato dall’Io umano, oppure volontariamente ricostruito dall’uomo stesso per influenzare consenso o per costruire archetipi di rigetto e di esclusione.
Operazioni che si ritrovano in varie forme nella Storiografia di eventi e fenomeni sociali che da un Mito autenticamente positivo per il progresso della civiltà – per esempio il diritto di ribellarsi all’Autorità ingiusta – assumono aspetti oscuri e perniciosi per il consorzio civile. Al contrario, il Mito ricercato artificialmente da un artista, benché privo di originalità, spesso è presentato a scopi non negativi, magari per risvegliare sentimenti di giustizia sociale svalutati dai Poteri assolutisti. Questo è il caso del Banditismo mitico divenuto Brigantaggio sociale e poi politico-romantico, a seconda della prospettazione che gli artisti, i giuristi, gli storici ed i politici ne hanno dato ragione e dimostrazione.
Naturalmente, l’analisi si limiterà all’Italia in età moderna ed in particolare al diciannovesimo secolo, dove il fenomeno del Brigantaggio sembra acquisire una connotazione prettamente politica nelle realtà sociali. Invero, fin dalla costituzione delle Potenze Nazionali in Europa – Francia di Luigi XIV°; la Spagna di Carlo V; la Gran Bretagna della Rivoluzione del 1688; la Russia di Caterina II – il fenomeno della delinquenza per bande di avventurieri armati, ha per componente una serie di figure legate a rampolli nobiliari esclusi dalla successione, ex militari di ritorno da guerre – perfino dalle Crociate – mercenari insoddisfatti; disertori e ricercati, qualcuno anche perché oppositori di Regnanti usurpatori ed illegittimi.
Subito il Mito ne fa degli eroi e la letteratura, nazione per nazione, se ne appropria per interessi personali e politici, anche per alimentare l’idea della Nazione che andava a formarsi, senza contare l’interesse delle classi emergenti produttive contro l’economia di mercato statica del medioevo. Viene subito alla memoria il classico personaggio, di Ivanhoe che Walter Scott (1820) presenta alla borghesia anglosassone di primo ‘800, un primo bestseller che influenzerà il romanticismo europeo. Segue il personaggio di Robin Hood, un vero e proprio capo, che – diversamente dall’eroe di Scott molto più moderato nella lotta al Potere costituito – non si vergogna di rapinare, uccidere e violentare, terrorizzando i ricchi per dare ai poveri guadagnando il favore popolare.
Stavolta è un borghese che diventa il nobile preferito di Riccardo Cuor di Leone, esponente di quella classe borghese che presto arriverà al potere al posto dello Stato dei Nobili in un dopoguerra nell’Inghilterra dopo la guerra dei cent’anni. In altri termini, la letteratura romantica, da Walter Scott appunto, ad Alexandre Dumas, da Tommaso Grossi a Puskin, alimenta il Mito di uno Stato alternativo, anticipatore e modello di future rivolte sociali. Siamo in un età di transizione dove le forme sociali di un Paese passano a livello di Nazione per poi divenire Stato e Potenza, un processo politico in itinere che ancora non si è collaudato nel confronto dialettico fra le classi; circostanza che genera conflitti sociali, arricchimenti improvvisi e repressioni militari, un movimento ascensionale in tutti i paesi europei, cantato da menestrelli e cantastorie fin dal Quattordicesimo secolo, intrecciato a romanze religiose lungo l’età della Riforma e nel secolo moderno all’epoca delle Rivoluzioni illuministe.
Il fenomeno del Brigantaggio – derivato dal mondo delle formazioni mercenarie assorbite dagli eserciti nazionali, divenuti il braccio regolare dello Stato assoluto in età moderna. Esso si distacca dalle formazioni irregolari banditesche ancorate al mero delinquere criminale e trova in età illuminista un seguito culturale inaspettato perché rappresenta una reazione opposta della classe emergente borghese rispetto alle realtà sociali consolidate dopo l’instaurazione delle Monarchie assolute nell’Europa, posteriore alla Riforma luterana ed alle scoperte geografiche di prima età moderna. I due fenomeni ora ora citati, a metà del sedicesimo secolo, derivano dalla costruzione dello Stato territoriale della Francia e della Inghilterra, Nazioni, dotate di un territorio stabile, guidate da un Governo unico e da un potere amministrativo che esercita a mezzo del Sovrano l’ius Imperi.
In alcuni Paesi – come la Germania e l’Italia – la Nazione non precipita nello Stato, perché è frammentata in più territori rivali fra loro per politiche legate al censo ed alle religioni. I primi Stati hanno un esercito regolare ed un’organizzazione idonea ad assorbire le differenze locali ed a garantire l’ordine pubblico. Un patto sociale col Re e con la sua classe dirigente. Hobbes ed il Cardinale Bellarmino, in comune fra Protestanti e Cattolici, lo ipotizzano per difendere l’Assolutismo regio contro le concezioni estremiste calviniste che attribuiscono il potere al Popolo. Stranieri, dissidenti, libertini, cadetti nobiliari, borghesi commercianti, poveri, militari e contadini non proprietari di ogni Nazione – Stato, vengono esclusi dal Potere e non possono che reagire con la violenza, fino a formare gruppi antistatali.
In Francia, per esempio il brigante Cartouche; in Inghilterra, le Rambling Blade di ladri gentiluomini che le ballate irlandesi e scozzesi magnificano in onore dei banditi di strada che riecheggiano il mito di Robin Hood. Nondimeno, nella Russia di Caterina II, il brigante Pugaciov, guida una grande insurrezione contadina (1775) che Puskin riassume a cornice del suo romanzo La figlia del Capitano (1836), adottando una tecnica letteraria – il romanzo storico – fra fiction e history di notevole impatto pubblico in Europa, dove anche Manzoni e Tommaso Grossi, D’azeglio e Guerrazzi, fanno da corifei per opere di intrattenimento gradevole e scorrevole, nazione per nazione, fino ad influenzare la storiografia paludata, da Carlyle a Gregorovius.
Italia e Germania, arrivate alla formazione dello Stato in più tarda età, prive di una barriera giuridica unitaria, fondata solo su comuni tradizioni e di una comune biologia, ancora deboli come Stati, vivono una realtà solo in parte comune, perché la Germania di Bismarck riesce a raggiungere più rapidamente l’unità economica che le consentirà di superare il disordine politico al fine di un rapido processo aggregativo, circostanza che distinguerà pure il Regno d’Italia nel primo decennio della sua unificazione (1861-1870). Ma un cenno alla realtà tedesca va ancora fatto per spiegare la convivenza fra idee di Brigantaggio e di Banditismo criminale.
Due opere letterarie attraversano invero la cultura tedesca in senso benevolo e favorevole al Banditismo ed al Brigantaggio: da una parte la ballata di Till Eulenspiegel, anima popolare delle campagne teutoniche dell’età post protestante del ‘600; dall’altra il dramma di Friedrich Schiller, I Masnadieri del 1781, opera giovanile emula del parallelo movimento di Goethe dello Sturm und Drang, pieno di foga libertaria, che sembra condannare la rivolta libertina anticonvenzionale, ma come pure esalta fra le righe la rivolta sociale contro le ingiustizie di classe.
Till, in modo satirico e comico; Karl Moor con forme tragiche, rappresentano eroi popolari in quel Paese conformista e legalitario. Due Miti che esaltano la ribellione all’ordine sociale e soprattutto contro Dio, la famiglia e perfino contro la Patria. Condotte che conducono alla esclusione del consenso sociale ed anche alla morte, ma eroi di un Mito un po’ eversivo ed un po’ salvifico e nondimeno essenziale per la coesione sociale. Ma la malizia dell’uno e la violenza dell’altro, pur una legittima difesa dalle vessazioni subite, non impedirà a ciascuno dei due di liberarsi dalle cattive compagnie. Il rigetto dei patti di convivenza sociale non è una reazione illecita, purché la Coscienza unitaria non si dissolva .in interessi locali.
Il Brigantaggio politico-romantico (1800-1866)
Il mito del ritorno all’ordine si ripeterà nell’Italia liberale fin dal 1866, dopo la cruenta repressione del moto popolare meridionale troppo sbrigativamente archiviato come Brigantaggio in senso di mero Banditismo, proposto dalla storiografia filopiemontese e nazionalista nei decenni successivi al fenomeno in esame. Una situazione presente nella letteratura e nella storiografia italiana, dopo il saggio di Alexandre Dumas, dell’origine del brigantaggio, del 1862; del Croce (1862 e del 1927); del Nitti (1899) e della raccolta di saggi Il sud nella storia d’Italia, curata da Rosario Villari nel 1961, ulteriormente aggiornato nel 1964 da Franco Molfese.
Peraltro, non è possibile esporre compiutamente il problema del Brigantaggio in Italia – ed in quella Meridionale in particolare – per il numero elevato di figure che lo vivificano dal XVI°secolo in poi. Basti pensare al primo brigante descritto dal Croce, Angelo del Duca, detto il buono (1734-1784); Marco Sciarra, il brigante che rapì Torquato Tasso (1588): Michele Pezza, detto Frà Diavolo, re delle strade del Meridione dal 1797 al 1806, catturato dalle truppe francesi guidate dal generale napoleonico Joseph Hugo, padre dello scrittore e poi fucilato, in veste di difensore del Murat; fino a Crocco e Ninco Nanco negli anni ’60 dell’800, come racconterà Riccardo Bacchelli in età fascista.
Piuttosto, è la cornice causale che qui occorre indagare per determinare le ragioni che impongono la legislazione speciale dello Stato d’assedio – denominata legge Pica – Peruzzi del 1863 n. 1409 – emesso per il sud d’Italia dopo la costituzione dello stato unitario nel 1861 ed abrogata a fine anni ’70, dopo un periodo di incarcerazioni e processi militari, spesso preceduti da scontri armati non dissimili da una guerra civile. Il problema non è nuovo. Sono nella memoria di tutta la classe borghese dominante – ma anche nei ceti popolari – gli eventi politici del 1799, quando bande di briganti, su mandato del governo inglese e borbonico di Palermo, organizzano la rivolta contro la Repubblica Partenopea.
Non solo bloccano le truppe francesi di Champollion, generale di Napoleone; ma anche riescono a riportare sul trono Ferdinando di Borbone. Questi,con uno sforzo non indifferente, fra il 1817 ed il 1821, con l’aiuto dei mercenari svizzeri, reprime le ribellioni e riporta la pace nel Regno delle due Sicilie, frutto del Congresso di Vienna. Ora, nel 1860, dopo la spedizione dei Mille e l’annessione al Regno di Sardegna, Francesco II – ultimo dei Borboni – da Roma e da Parigi, ordisce la riconquista con l’appoggio dell’Austria e con una certa tolleranza di Napoleone III, che come è noto si è raffreddato col Cavour a motivo della reazione interna conservatrice, cui non è piaciuta la crisi economica derivata dalla guerra contro l’Austria del 1859, foriera di un debito di non pochi morti e feriti e di una notevole inflazione dannosa per le esportazioni agricole verso quel paese.
E’ noto altresì la forte capacità della Regina Maria Sofia d’Austria, moglie di Francesco II, che assolda il generale spagnolo Borjes ed il brigante Carmine Crocco per tentare una Restaurazione dl Regno, instaurando un sedicente Stato della Basilicata e della Calabria negli anni fra il 1861 ed il 1864. E’ il triennio nero di quelle Regioni per la Guerra Civile ivi scoppiata. Però ora occorre fare un passo indietro e chiederci la ragione della crisi di quel Regno, croce e delizia della Storiografia fino ai giorno nostri. Nel secolo successivo al predetto triennio – quello dello Stato d’assedio approvato con la legge Pica-Peruzzi del 1863 n. 1409 e che causerà la fortissima repressione militare di cui si dirà oltre – la storiografia liberale e socialista – da Benedetto Croce a Rosario Villari – nota una discrasia fra la crescita pur lenta dell’economia agricola del Regno e le numerose criticità che la politica borbonica solleva contro la borghesia agraria locale.
Per esempio, già Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia medievale e moderna, del 1969, ricorda come due storici siciliani – il Balsamo ed il Palmeri – fin dal 1809, quando Ferdinando IV di Borbone regna a Palermo dopo la fuga da Napoli, hanno segnalato grossi limiti alla vita economica di quel Regno, sia per la grande varietà di pesi e misure; sia per la proibizione all’esportazione di vini e grani, affidate a controlli di funzionari non siciliani dediti di fatto a privilegiare merci e prodotti di altre parti del Regno; senza contare il proliferare di monopoli legali protetti da una fitta rete di dazi ed imposte doganali che elevano i costi di produzione locale. Quanto all’agricoltura, il suo miglioramento impone l’abolizione del latifondo ed il relativo frazionamento territoriale spesso accompagnato da nuovi macchinari però troppo costosi per la piccola borghesia agraria locale.
Purtroppo – a dire di osservatori quali il De Welz e lo Scinà – l’apatia dei latifondisti di fronte a tali tecniche è sollecitata da un Regime amministrativo borbonico centralizzato che scoraggia l’intrapresa industriale. L’esempio della nascita e dello sviluppo dell’attività industriale dei Florio a Palermo, ricordata da recenti opere elettorali e cinematografiche, rappresenta un’eccezione che conferma la collaudata lettura di buona parte della storiografia postunitaria fino agli anni ’60 del ‘900, secondo cui la borghesia meridionale è appunto disillusa ed inefficiente tra il 1815 ed il 1848, perché è condizionata dal Governo Borbonico che non interviene ad aiutare la libera concorrenza e non intende eliminare le predette storture, sapendo che per sottomettere le popolazioni più industriose, ma anche più pericolose per la stabilità del Potere dei nobili napoletani, deve salvaguardare l’alleanza con la classe contadina che appunto nel 1799 li ha riportati al Governo.
In altre parole, i Borboni di Napoli mantengono il Feudalesimo ed il Latifondo, senza liberalizzare i beni demaniali, invocati dai contadini come unica risorsa per vivere e per non emigrare, ché altrimenti viene meno la semplice alimentazione con i prodotti naturali del suolo, ove rimanga esclusivamente finalizzato al godimento dei soli proprietari. Proprio attorno al 1848, il Governo di Ferdinando II tenterà un timido ridimensionamento delle aree demaniali e la loro cessione molto parziale a piccoli imprenditori, liberandoli da vincoli civili e fiscali, onde favorire la libertà di modificare, perfezionare e coltivare le terre acquisite. Solo che quest’ultima operazione economica presuppone un’accumulazione di capitali che avrebbe incrementato la domanda di diritti civili che il Tiranno di turno non può sopportare. Questi invece sarà sempre dalla parte delle masse contadine e mai dalla parte della piccola borghesia locale.
Considerazioni che l’interpretazione di Carlo Pisacane e di Antonio Gramsci individuano come una delle concause del triste triennio fra il 1861 ed il 1864, in occasione della annessione alle regioni del Nord dell’intero Meridione. La coeva Storiografia inquadra l’inevitabile reazione nel paradigma Brigantaggio. La classe dirigente non solo moderata, riuscirà però a reprimerlo con gli Stati d’Assedio, già citati, a mezzo di fucilazioni; gli incendi dei villaggi e le condanne sommarie irrogate senza alcuna garanzia processuale. Diciamo concausa, perché diversa Storiografia svaluta quella predetta, segnalando invece la tesi complottista di Francesco II e Maria Sofia d’Austria, che per riconquistare il Regno, organizzano fra Basilicata, Puglia e Calabria varie formazioni militari, di cui non solo fanno parte soldati ed ufficiali borbonici, ma anche disertori e renitenti alla leva italiana, conservatori e nobili fedelissimi ai Borbone, ma anche vecchi delinquenti e ricercati che non sono mai stati arrestati o graziati.
Ci sarebbe una guerra civile mai ben distinta forse perché è talmente complessa che neppure il Mito letterario e cinematografico ha ben dipanato. Mentre la lettura di Croce insiste nel fenomeno del Brigantaggio legato a fattori revanscisti che avevano per obiettivo la credulità del popolo ignorante; le scuole Socialiste guardano alla crisi economica francese causata dalle guerre di potenza di Napoleone III, che richiede quindi indennizzi e riparazioni al giovane Stato italiano per la guerra del 1959 e la sottomissione ad una invasione commerciale che produce subito la caduta della produzione meridionale. Tributi nuovi e molto pesanti; la concorrenza dell’industria internazionale e le deficienze amministrative del nuovo Stato, dove l’amalgama fra le Regioni è alquanto lento; sono tutti presupposti idonei a sviluppare il fenomeno in esame.
Le fonti dell’epoca narrano come l’esercito italiano nel 1864 è di 116.000 uomini, più della maggioranza degli effettivi. Malgrado la Destra storica al Governo imputi, attraverso la stampa di Regime, la responsabilità della guerra civile dalla Campania alla Sicilia, ai filoborbonici di Roma, Marsiglia e Parigi; non è un caso che tale conflitto interno cessi con la sconfitta di Napoleone III nel 1871 a Sedan ottenuta dai Prussiani di Bismarck. Quanto alla statistiche, alquanto ancora imprecise, si trovano 3600 processi per buona parte dinanzi al giudice militare e 10.000 persone fra inquisiti e fucilati. I soliti limiti di spazio ci impongono di selezionare molteplici episodi legati alla guerra di Brigantaggio di cui si è cennato e qui ci pare interessante limitarci al caso di cannibalismo attribuito ai fratelli La Gala, Cipriano e Giona, capitato nel 1861 a Triburzo nel casertano, forse il primo caso di svolta puramente delinquenziale del fenomeno, dove meglio è da attribuirlo a pura ferocia e ad un marcato senso di ipocrita difesa da parte dei due fratelli che addirittura fanno richiedere all’ex Re Borbonico Francesco una domanda di grazia a Vittorio Emanuele, peraltro respinta e commutata da pena di morte a lavori forzati a vita.
L’episodio barbarico emerge dal lungo carteggio processuale che arriva fino in Cassazione, che avviene sul Monte Taburno in provincia di Benevento. Dopo una serie impressionante di delitti, grassazioni e di scontri con carabinieri e militari, la banda si attesta su quel monte e riceve la visita di un loro ex compagno di cella, Francesco De Cesare. Ritornato in confidenza con loro, il malcapitato, forse una spia dei carabinieri, viene attirato in un casino del monte al riparo di attacchi. Qui, all’improvviso, i due fratelli lo assalgono, lo legano e gli ricordano che in carcere li aveva derisi e minacciati. Devi morire! Giona, scannalo! Urla Cipriano e così avviene. Poi due feriscono a morte il poveretto ed addirittura gli sparano all’addome, dal qual esce un fiume di sangue. Poi una delle due belve taglia il cadavere in mille pezzi ed ambedue gustano come cannibali le parti più grosse del cadavere.
Arrestati poco dopo, finiscono graziati dalle pena di morte come si è detto. Ma le cronache parlano anche di carenze di comunicazioni per la campagna incolta, poi un paesaggio montuoso irto di boschi, favorevole alla fuga ed alla rivolta, come acutamente lo scrittore Carlo Alianello racconterà nel romanzo L’eredità dalla della priora (1963), un’opera che ottenne il premio Campiello per l’originalità dal quadro storico prospettato. Del resto, dopo le vicende di Crocco e di Borjes e la durissima repressione che il generale Pallavicini conduce fino al 1865, la cronaca ci dice che la giurisprudenza dei Tribunali di guerra colpisce non solo i briganti, i favoreggiatori ed i ricattatori, ma infligge anche il domicilio coatto ai vagabondi ed ai semplici sospetti, senza incidere sostanzialmente sui problemi sociali ed economici del Mezzogiorno.
Di più: alle masse di dissidenti politici e di poveri disgraziati incappati nelle maglie della giustizia militare, vanno aggiunti i tanti militari Svizzeri assoldati dai Borboni per rinforzare la difesa della famiglia reale. Il 7 luglio del 1859 questa si ferma a Capodimonte. Lo storico Harold Acton ricorda una strana sommossa scoppiata in nottata e che sembra voler far prigioniera la famiglia reale. Pare alla Corte che i mercenari siano stati sobillati da congiurati filomazziniani eccitati dalle notizie delle vittorie franco piemontesi contro gli austriaci alle porte di Milano. Un allarme generale che vede insorgere la grande paura di Francesco ed il sangue freddo di Maria Sofia, che guida personalmente la prima resistenza del corpo di guardie del Palazzo. In realtà, è sorto un forte malcontento fra le guardie Svizzere accasermate accanto al Palazzo Reale per una voce persistente di richiamo in Patria e di scioglimento del loro battaglione.
Dopo una serie di sparatorie e di inutili proclami di Viva il Re da parte degli Svizzeri e da parte di militari regolari guidati dal generale Nunziante, una scarica di fucileria e qualche cannonata riduce il pericolo svizzero. All’indomani, il Filangeri, generale e Capo del governo, scioglie i reggimenti svizzeri, accusati di essere stati proditoriamente pagati da Napoleone per fare da scintilla a sud. Acton, sulla base di testimonianze dirette ed anche di lettere della figlia di Filangeri, sembra avallare il sospetto perché in alcuni cadaveri di soldati vengono trovati luigi d’oro. Ma l’effetto è dirompente: viene meno da quel momento il ruolo difensivo di quei mercenari che nel 1848 e poi nel caso della spedizione di Pisacane nel 1857 risultati utilissimi per salvare il Regno. Sia come sia, parecchi di loro non tornano in Patria, ma rimangano in zona ed ingrossano sia le fila dei garibaldini che quelle dei Briganti di Crocco.
Del resto, la controffensiva di Pallavicini chiude la questione del Brigantaggio fra Calabria e Puglia, ma resta aperta la questione della Sicilia, dove la letteratura Storiografica degli anni ’60 del ‘900 punta sul tema della eccessiva repressione della rivolta di Palermo del 1866. Il citato Mack Smith ricorda che l’opposizione autonomista dei Nobili Gattopardi al nuovo Regno si combina con la radicale avversione della classe dirigente locale, sfociando spesso nella rivolta di colletti bianchi che capeggiano il dissenso nelle campagne. Molti intellettuali isolani sono del parere che il dopo Garibaldi si è dimostrato un borbone-bis per la esclusiva adozione dello Stato di assedio e del metodo di Pubblica Sicurezza adoperato, alternativo alle riforme economiche declamate ma mai di fatto attuate.
Il generale Govone, primo militare dotato di pieni poteri, invece di capire che la fuga dei giovani contadini dalle campagne in montagna è dovuto non a desiderio delittuoso od a fughe per evitare il servizio militare obbligatorio; ma che deriva piuttosto dalla volontà divenuta impossibile per motivi fiscali di avviare coltivazioni atte a superare carestie ed impedire la nascita di epidemie. E per di più Govone ordina incendi di villaggi, tagli di erogazione di acqua e fucilazioni di massa che inaspriscono la reazione di feroci briganti. Cioè è meglio morire in guerra – quella del 1866 contro l’Austria – piuttosto morire di fame. Quanto a Rosario Villari, nel suo manuale scolastico adottato fino agli anni ’80 del secolo scorso, ritorna la questione agraria, dove poggia l’equivoco della fertilità dell’isola.
Invero, Cavour e la Destra storica mai scende in Sicilia per vedere la realtà concreta, credendo aprioristicamente in quella condizione di ricchezza naturale che i classici hanno propagandato fino all’età moderna. Da qui un fiscalismo esasperato e l’apparente impressione per gli imprenditori del Nord di robustezza della locale economia (e lo stesso vale per le Puglia e la Campania). Mai di più falso: proprio la relazione sul Brigantaggio guidata dall’on. Massari – presidente della Commissione Parlamentare del 1863 – riferisce dati alla mano di un crescente ridimensionamento dell’offerta agricola, giacché non appare sufficiente il numero dei piccoli proprietari, ancora in numero scarso per una effettiva cessazione del Feudalesimo, solo a tratti abolito e fortissimo all’interno dell’isola.
La pressoché assenza della piccola proprietà ed un numero molto basso di borghesia imprenditoriale impedisce il balzo in avanti dello sviluppo economico. E’ però in crescita l’area economica costiera. Il fenomeno del latifondo resta ancora esteso nella parte centro occidentale, con un’ampia presenza di fittavoli legati a canoni esorbitanti imposti dai grandi proprietari, spesso però vessati dai campieri – cioè guardiani – esosi e sfruttatori, a volte ricattatori ed accumulatori violenti, spesso protettori di false bande di ladroni che poi altro non sono che i loro mandanti. Un metodo anticipatorio della Mafia del secolo a venire che si estenderà alle organizzazioni delittuose delle grandi città.
Insomma, il Massari nota che i giovani preferiscono la professione del brigante a quella dal contadino, magari nella veste legale del campiere, tanto che da essi uscirà la figura del nuovo proprietario che si è fatto da sé, come il Mastro Don Gesualdo del Verga. Tanti altri, cessato il vento del Brigantaggio, volgeranno lo sguardo all’emigrazione ed all’industria di gelsi, limoni, cotone, vino ed oli, con esiti incerti e per di più penalizzati dalla concorrenza settentrionale e dalle forti imposte daziarie spiccate da Francia ed Inghilterra, senza contare la svolta energetica dallo zolfo al petrolio, che colpirà le imprese siciliane occidentali, come sarà l’esperienza dei Florio e che narrerà il giovane Pirandello nei Vecchi e i giovani del 1909.
Dal 1860 al 1914 per Mack Smith – ma anche per Lucy Riall – la Sicilia e buona parte del Meridione – rimarrà indietro per tenore di vita, per decadenza dall’artigianato e della pesca, mentre la produzione del vino e dell’olio, oppure degli agrumi, rimane soggetta a livelli fissi di produzione che il potere centrale economico, fra Torino, Genova e Milano, organizza a livello centrale, operazione che sarà svelata dalla nuova storiografia degli anni ’70 di stampo antiunitario e perfino filoborbonica, in cui prevale un malcelato sentimento nostalgico spesso infondato. Ma due altri fattori devono essere pure evidenziati per la nascita e lo sviluppo del Brigantaggio: la politica Fiscale e la Legislazione Anticlericale, causali che primariamente incidono sulla fine della società feudale e sulla sostituzione forzata dell’economia capitalista nel Meridione, dalla Sicilia alla Puglia ed alla Basilicata, Regioni già sottosviluppate in età borbonica e dunque bacino di utenza del fenomeno delinquenziale in esame. Invero, la politica Fiscale opprime dal 1861 al 1893 proprio la Sicilia, scatenando la reazione dei Fasci Siciliani.
Eppure l’isola è stata trovata da Garibaldi e Crispi nel 1860 in un buon bilancio commerciale e con un debito nazionale più basso di quello delle regioni centrali. Ma appena viene avviato il regime unitario nel 1861, la situazione finanziaria locale non riesce a sostenere una maggiore esazione centralistica rivolta a garantire strade, scuole, sanità, ecc. per l’intera nazione. Un aumento improvviso delle aliquote che penalizza il Sud che lede poco il Nord, dove la riserva finanziaria accumulata privatamente subisce poco danno. Ben minore l’amalgama è a Sud: scattano fallimenti – e la storia di casa Florio è esemplare – e le vendite di terre, con ricadute in Sicilia per l’occupazione che va ad ingrassare le bande criminali.
Neppure la riforma fiscale del 1878 migliora la situazione: il balzo in avanti del Fisco al Sud consente paradossalmente nuove colture al Nord – per esempio il cotone ed il riso – che sopportano la nuova tassazione e raggiungono positivi livelli di entrate e di scambi all’estero. Al contrario è il Sud a restare al palo, dove solo il latifondo agrario coltivato a grano e le colture speciali resistono senza alcuna franchigia, cosicché aumenta ancora la disoccupazione in agricoltura, spingendo anzi al Nord la creatività d’impresa. Anche la legislazione Anticlericale piemontese è introdotta nel Sud senza alcun processo di mediazione, dove appunto qui meglio prospera un’economia feudale ecclesiale buona, stante la comunità di interessi fra clero e popolo.
Infatti, il modello economico unitario fra chierici e popolo di Dio, con ricadute meno rigide fra contadini e proprietari ecclesiastici – per esempio la figura dall’Apostolica Legazia – consente una distribuzione del reddito agrario molto più liberale di quella del Nord, dove la politica laica del Piemonte ha tassato notevolmente la proprietà ecclesiale con le leggi Siccardi del 1850, un trampolino di lancio della carriera politica di Cavour e che trova nella borghesia democratica moderata un notevole appoggio anche nel Governo dopo l’Unità. La politica ecclesiastica dei primi successori di Cavour – da Lamarmora al Rattazzi – nega anche qui una maggiore omogenizzazione delle legislazioni ecclesiastiche degli Stati preunitari e perciò il processo di nazionalizzazione dei patrimoni ecclesiastici assume una velocità impetuosa che naturalmente fa contente le minoranze laiche e capitaliste agrarie. Si contano – a dire del Mack Smith – più di 250.000 ettari potenzialmente immessi sul mercato di acquisto, dopo rapide espropriazioni attuate con procedimenti speciali di effettivo incameramento che non tengono conto della proposta alternativa di Garibaldi e Crispi che intendono distribuire le terre della Chiesa al fine di equilibrare le famiglie povere, anche per la fine dei diritti di pascolo sulle terre comuni ecclesiastiche sottratte dalla famosa legge n. 3848 del 15. 8.1867, la quale predispone l’abolizione di tutti gli Enti Ecclesiastici ritenuti inutili dallo Stato laico liberale.
Se restano immuni da confisca Cattedrali, Seminari, Canonicati e Parrocchie, perfino Fabbricerie ed Ordinariati; i patrimoni terrieri vanno in complesso all’incanto senza frammentazione a danno delle famiglie nullatenenti e con immenso guadagno per i proprietari latifondisti, ma anche per i massari che a poco a poco prenderanno il loro posto, borghesi che si arricchiscono progressivamente investendo i loro risparmi, spesso in collaborazione coi i predetti campieri, che ne costituiscono il braccio armato. Un processo lungo di sostituzione di classe che alimenterà prima il malcontento generale locale – vedi la rivolta del 1866 su cui fra poco si dirà – e poi la costituzione di onorate società di armati nelle campagne al servizio dei nuovi arricchiti che verrà etichettata a fine ‘800 col termine mitico di Mafia. A guadagnare è anche il Governo di Destra – col colpevole concorso della Sinistra democratica di Crispi e Depretis – che non cedono neppure una misura percentuale dei guadagni delle vendite demaniali ai singoli villaggi siciliani, ma li destinano a pagare il credito estero con la Francia, a sostenere lo sviluppo urbanistico di Roma Capitale e ad erogare fondi alle imprese private del Nord, spesso favorite per una migliore gestione delle vie di comunicazione stradale, ferroviarie e portuali.
Si è parlato della rivolta di Palermo del 1866, parallela al fenomeno del Brigantaggio per pericolosità e partecipazione popolare. A Palermo si giunge ad una notevole rivolta in quell’anno quando convergono forze interclassiste scontente della politica piemontese dei primi 5 anni di unità. Si è detto della Chiesa locale, dove loro uomini passano già alla Mafia e poi ad ingrossare le bande criminali in montagna. Garibaldi pensa a Roma ed a Venezia, ma trova nell’isola ancora tantissimi adepti. Mazzini tenta la via parlamentare, ma eletto 2 volte a Messina, gli viene negato il permesso di usufruire del suo seggio. Circostanze che per un momento riescono a riaprire il dialogo democratico rinfocolando la speranza di un cambio di passo governativo, tanto più che il governo Rattazzi – ma anche il precedente diretto da Ricasoli – nella gestione iniziale della questione romana appare più moderato nei confronti dei democratici e diffida delle reazioni di Napoleone III.
D’altra parte lo scontento degli ex borbonici è alimentato dalla citata pressione fiscale non compensata dai guadagni cospicui che si attendono gli agrari dalla confisca dei latifondi ecclesiastici non ancora avvenuta. Molto popolino ignorante è pure sollecitato da una scarsa politica preventiva sanitaria contro le epidemie di colera che comportano provvedimenti restrittivi onerosi per la vita quotidiana, spesso aggravata da sospetti e superstizioni che motivano un ulteriore dissenso antigovernativo. E’ poi intervenuta una primavera asciutta che porta carestia ed aumento dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli del 50%. Nondimeno, segnali di minaccia all’ordine pubblico vengono da un episodio inquietante narrato in un saggio storico sapientemente ricordato da Leonardo Sciascia nel 1976, cioè che il 1.10.1862 a Palermo alla stessa ora ed in strade le une vicine alle altre del centro storico, vengono pugnalate 13 persone di ogni grado sociale.
L’inchiesta ha ben presto un responsabile nel ricchissimo e rispettatissimo Senatore del Regno d’Italia, il principe di Sant’Elia, accusato di essere il mandante della strage, collegata da un intreccio di mafia, potere governativo e politica che avrà come esito una condanna limitata ai soli esecutori, degli sbandati comprati all’opera da personaggi insospettabili mai lambiti dalle indagini, affidate ad un bravo Procuratore del Re, molto presto trasferito a Nord. Le condanne a morte e le chiare responsabilità di polizia e magistratura mostrano oggi come quel precedente giudiziario è un ottimo segnale di anticipazione per giustificare la rivolta di cui si è detto.
Scoppiata nel settembre del 1866, all’indomani di una festa di S. Rosalia patrona, circoscritta ad una celebrazione religiosa senza alcuna appendice popolare, motivata dall’epidemia di colera, ma priva di quel festino popolare che dai Romani ai Borboni funge da argine rispetto al malcontento popolare, all’epoca schizzato al massimo perché è stata proibita la coltivazione locale del tabacco ora importato ad altro prezzo. La rivolta viene annunziata da un robusto passa parola durante la sola manifestazione pubblica, cioè la tradizionale processione della Santa, dove si odono spari di fucili accanto ai mortaretti appena esplosi.
Poi da Monreale scendono in città bande armate attraverso le campagne arse da un caldo torrido e da una siccità analoghe a quelle che ancora oggi le affliggono. Vengono attaccati uffici e depositi del dazio, ma anche mercati e panetterie, carnezzerie e pescherie. Ogni genere di negozio alimentare è saccheggiato. Uno dei capi delle Bande, Il brigante Di Miceli. tenta di liberare i prigionieri dal carcere, ma cade ucciso. Tuttavia, il tumulto diventa sempre più forte. Tutti gli scontenti entrano in lotta e tanti uffici non solo di polizia, finiscono in fiamme.
Un’inedita alleanza fra bandiere rosse, bandiere borboniche, drappi ecclesiali e segni mafiosi, magari legati alla Massoneria, compaiono ai 4 Canti di Palermo ed assalgono la casa del marchese di Rudinì, sindaco della città gradito al Ricasoli. Alcune fonti dell’epoca parlano di 18.000 ribelli e perfino la Guardia Nazionale non esegue gli ordini del Sindaco di riportare l’ordine. Ed i baroni siciliani – il Sant’Elia citato ed il Riso, ma anche la borghesia dei Florio – per una settimana organizzano addirittura un Comitato di Salute Pubblica e l’assalto all’Ucciardone – il carcere – tanto che vengono assimilati dalla leggenda popolare ai Tribuni che assalirono la Bastiglia della Grande Rivoluzione del 1789.
Ma è un esito temporaneo. Mentre la spedizione dei Mille di Garibaldi appena 6 anni prima ha avuto nel Generale il garante interno ed esterno di ritorno all’ordine borghese, qui manca lo spirito unitario e la marcia indietro della nuova borghesia farà il resto. Il fatto è che il Consiglio Comunale e quel Comitato dichiarano agli ultimi difensori italiani di essere stati costretti a cedere il Potere e perciò chiedono al Ricasoli di intervenire. Il Generale Raffaele Cadorna è dunque nominato commissario di Palermo con i pieni poteri di stato d’assedio. La Marina Militare bombarda Palermo e sbarca 40.000 soldati richiamati dalla appena conclusa campagna contro il Brigantaggio in Abruzzo. Fra il 18 ed il 21settembre, dopo accaniti scontri, restano 500 morti e viene avviata la giustizia militare con altrettanti fucilazioni ed incarcerazioni. Solo a fine ottobre la rivolta è domata ed il comunicato di Cadorna è lapidario: è una rivolta borbonica e clericale, attuata da criminali senza alcun elemento politico di rilievo.
Il Brigantaggio criminale: dal Banditismo alla Mafia interna ed internazionale (1870-1933)
Così il Brigantaggio politico romantico è liquidato per assumere orma veste permanente criminale e mafiosa. Le ragioni sociali ed economiche vengono obliate e la storiografia per più di un secolo trascurerà il contesto causale di quell’evento. Dopo i fatti di Palermo – ma anche dopo le parallele vicende repressive di Puglia, Basilicata e Calabria – diventano incontestabili le fonti governative, per esempio la Relazione della Commissione per l’inchiesta della città e della provincia di Palermo del 1867.
Ma occorre di seguito dare ampio spazio alle fonti storiografiche private. A tal fine si veda ancora Pasquale Villari, Scritti sulla questione sociale in Italia, 1902; oppure quelle del politico, ma anche statistico e criminologo Napoleone Colaianni, senza contare il romanzo verista di Giovanni Verga, I malavoglia, pubblicato nel 1881. In sintesi il fenomeno del Brigantaggio viene sostituito dall’insorgere spontaneo di un Banditismo più o meno represso da più organiche attività di polizia in alcune aree del paese: per esempio, il Banditismo sardo specializzato in rapimenti di persona addirittura parallelo alla crescita economica di quella Regione, addirittura fino al secondo dopoguerra del ‘900.
Nondimeno, un’altra valvola di sfogo è l’emigrazione estera verso le Americhe e l’Australia quasi proprio delle ampie forze lavorative agricole per le regioni peninsulari del Sud. In Sicilia – ed in misura progressivamente significativa in Campania ed in Calabria – la spinta criminale assume un tono peculiare che fa leva sulla reazione della massa contadina rimasta nell’area di origine, dove come si è visto la logica feudale e del latifondo ha una mera trasformazione solo formale, nel senso di una nuova classe proprietaria che ha pressoché mantenuto lo status quo antecedente all’Unità, qui ancora ben rappresentata del Mastro Don Gesualdo del Verga, dove una nuovo ceto di agrari si è formato a base più larga del precedente blocco nobiliare, accrescendo e mantenendo la logica latifondista.
Si è detto che questa classe si è trovata a reggere il nuovo Potere con una sottoclasse di sorveglianti nei centri urbani e nelle campagne, riunite sotto l’aspetto sociopsicologico detto di bassa cavalleria al servizio della alta cavalleria di origine ancora feudale, rappresentata solo dai vecchi nobili, ora Principi nostalgici dei tempi preunitari, i Gattopardi che un’altra corrente di letteratura ci racconta, con Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina (1901); Federico De Roberto, I viceré (1894); ed il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autori nostalgici, cui la mitica onorata società si ispira fin dall’età borbonica e per la prima metà del ‘900, nel senso di uno spirito ideologico antigovernativo rivolto al delitto motivato dall’onore e da una presunta libertà, mai conseguita nel corso di secoli di oppressione straniera.
A questo presunto nuovo Patto sociale fra la nuova classe di redditieri e di borghesi – che con squadre armate già nel 1813 si sono proposte a difendere nell’Isola i primi agrari non nobili dopo la crisi economica causata dall’arrivo nel Ragno di Sicilia dei Borbonici di Ferdinando di Napoli, cacciati dall’esercito napoleonico – seguirà la formazione di un gruppo sociale già indicato come campieri, chiamati a difendere i nuovi padroni. Nasce già in età borbonica e prosegue subito dopo – malgrado un momento di temporaneo accordo con l’arrivo di Garibaldi – un salto di qualità oggettivo nella capacità ambientale di moltiplicarsi di tali gruppi – dette Cosche – prima nelle zone attorno a Palermo e poi nei mercati, fino alle campagne più interne dell’Isola. La loro forza è nella protezione violenta che garantiscono ai nuovi proprietari spesso in concorrenza fra loro.
E poi la loro azione passerà agli Appalti ed alle Pubbliche Amministrazioni, già infarcite di corruzione in età borbonica, fino ad entrare nelle competizioni elettorali nello Stato liberale, sia sotto Crispi, sia sotto Giolitti, la cui riforma del suffragio universale (1912) farà gridare a Salvemini che quest’ultimo Capo del Governo altro non sia che un Ministro della malavita. Il sociologo Napoleone Colaianni ed il politologo Gaetano Mosca, proprio in quegli anni denunziano nella varie inchieste parlamentari dal 1876 al 1910, nonché nei loro saggi sociopolitici, non solo il ruolo dominante di tali Associazioni criminali nella realtà agraria, ma anche lo estendono al settore edilizio, che soffre della loro ingerenze sempre più legate ad estremi atti di violenza, come nel caso della morte del banchiere Emanuele Notarbartolo, ucciso dalla Mafia su mandato del deputato crispino Raffaele Palizzolo, colpevole per l’onorata società parlamentare di avere tentato di risanare il Banco di Sicilia nel 1893, a sua volta in odore di fallimento, come quello della Banca Romana di poco prima, dove l’accertamento della corruzione venne soffocato dal Governo Crispi, mentre a Palermo sarà limitato dalle coltellate dei campieri Giuseppe Fontana e Matteo Filippello, mafiosi di Villabate, condannati dai giudici di Palermo, ma senza alcuna connessione del mandante Palizzolo, malgrado le prove opposte dal Colaianni presentate alla Camera.
Di fronte a tali rilevantissime infiltrazioni delittuose che già minano il regime Liberale e che lo espongono a corruzioni non minori di quelle che avverranno quasi un secolo dopo nella Seconda Repubblica del dopoguerra. Intanto, cosa ne è del Brigantaggio? Le fonti ci narrano di due bande, nel Salernitano quella del Musolino e quella del Salomone nella Sicilia di Giolitti, in singolare coincidenza con lo sviluppo della Mafia e con l’incremento dell’emigrazione nel Napoletano, non disgiunto da un parallelo evolversi del fenomeno camorrista. Qui l’aspetto psicologico e quello sociologico di gruppo solidaristico di pressione protettivo sul commercio e nelle campagne, è testimoniato dalla cultura familistica e paternalista della scrittrice Serao e del commediografo Scarpetta, esponenti di un riscatto intellettuale del Sud in cui l’una rappresenta la reazione, alla povertà mai contenuta, malgrado lo sviluppo urbanistico di Napoli avviato con la legge relativa del 1885.
Senza contare la critica popolare del Commediografo, calata in un ambiente di vicoli pieni di povera gente, cui l’unica alternativa era di aderire al gruppo malavitoso di turno; o di emigrare dalle banchine di S. Lucia per le Americhe, scelta mitica raffigurata nelle famose farse o nelle altrettante tragedie melodiche: si pensi a Miseria e nobiltà dello stesso Scarpetta (1830), oppure all’Assunta Spina di Salvatore di Giacomo (1888). Invece, alla impetuosa rete delittuosa del fenomeno mafioso, in Sicilia corrisponde la commedia popolare I mafiusi della Vicaria (1875) di Giuseppe Rizzotto che l’etnologo Giuseppe Pitrè apprezza per la genuinità elementare e la sincerità del galantuomo che difende i poveri dalle prepotenze dei potenti, salvo a demitizzarsi nella successiva azione scenica di Luigi Sturzo – La Mafia, 1900 – che riporta il fenomeno nell’area realistica della delinquenza organizzata e corruttrice, che ritrova nella politica locale di Caltagirone, dove il fenomeno gli appare prodromico dello Stato Totalitario di qualche anno dopo.
Nondimeno, il passaggio dal mito al reale alla legenda è quello della bipolare lettura che fonti e letteratura – ed anche il cinema – apportano al comune spettatore. Già l’opera lirica Frà diavolo del francese Auber (1830), sulle orme di Eugene Scribe, mitizza la figura dal Michele Pezza, il brigante buono divenuto tale per essere stato tradito da un gendarme geloso dell’amata. Infatti, la figura del brigante Musolino, di fine ‘800, benché fosse autore di delitti monotoni ed alquanto aggressivi e violenti, avvenuti a danno di poveri viaggiatori nelle stradine dell’Aspromonte o di inermi piccoli contadini; lo si vede apparire come un Robin Hood del Sud che dà ai poveri dopo aver depredato e violentato i ricchi. Appostarsi, sparare anche a tradimento e fuggire, magari dopo aver fatto l’amore con una gentildonna od una contadinella di passaggio, costituiscono i tasselli delle commedie popolari e dei primi romanzi popolari del ‘900.
La spavalderia è la sua prassi e la fuga per leggerezza delle guardie e degli ufficiali diventa un proverbio popolare. Solo nel 1901 dopo anni di latitanza a Lucca, la attività del Musolino è interrotta e sarà condannato all’ergastolo. Malgrado ciò, la stampa dell’epoca si premurerà di onorarlo perché è contento che i suoi complici siano stati assolti. Il volto bonario di criminale galantuomo nel secolo della criminologia di Lombroso riemerge nella letteratura giuridica e non solo, quando la Mafia, il precipitato sociale del Brigantaggio, emetterà i suoi ulteriori vagiti nei primi anni del ‘900, in occasione della sua rinascita nei Paesi di emigrazione dalla Sicilia e dal Meridione intero, vale a dire negli Stati Uniti d’America fin dagli anni ’90 dell’800.
Molti appartenenti alla Mafia americana del nuovo secolo risultano essere figli di italiani immigrati nelle ondate europee di fine secolo. Il famoso criminologo italo-inglese Francis M. Guercio – da esperto del Senato Americano nominato da E. Kefauver, presidente di una parallela Commissione a quella più nota di McCarthy, istituita fra il 1950-1951 – conferma la natura derivata dal modello siciliano di quella statunitense. In particolare, Guercio distingue la mafia dalle antiche società segrete liberali, perché dedite piuttosto ad influenzare con mediazioni e raccomandazioni minacciose o violente, le imprese commerciali locali motivando un generico diritto di resistenza che i Siciliani pretendono dagli attacchi di altre etnie già stanziate od addirittura successivamente arrivate nel territorio. Una sorte di legittima difesa degli emigrati italiani contro coloro che vorrebbero escluderli dal mercato libero portuale e locale.
E’ così spiegata la potenza associazione della Mano Nera, che negli anni ’10 si è posta a proteggere la comunità italiana a New York. Un sistema criminoso svelato e fronteggiato dal poliziotto più famoso dell’epoca, Joe Petrosino, capo della polizia nominato dal sindaco Theodore Roosevelt. Inviato in missione a Palermo per scoprire le radici e l’organizzazione dell’associazione, Petrosino cade sotto i colpi di pistola di Giuseppe Morello, su mandato di Giuseppe Fontana, emigrato in America dopo la morte dal banchiere Notarbartolo, di cui è accusato insieme all’onorevole Palizzolo, naturalmente assolto in giudizio (12.3.1909). Uccisione di Petrosino che capovolge il mito: dal buon bandito e brigante si passa alla leggenda del buon poliziotto fino a quella del buon Prefetto (si pensi a Cesare Mori, il prefetto di di ferro dal 1924 al 1925 in Sicilia) e poi dei buoni giudici inquirenti del secondo dopoguerra fino ad oggi.
Di fatto la Mano Nera, si evolve fra il 1909 ed il 1919 in Cosa Nostra, acquisendo il controllo del contrabbando, del gioco clandestino, della prostituzione e della protezione ricattatoria sul commercio al minuto. Gli storici ricordano che fino alla Prima Guerra Mondiale, scoppia la prima guerra di mafia, combattuta fra New York e New Orleans fra le famiglie Matranga e Provenzano. Ed anche viene meno il mito della legittima difesa dal Governo, sostituito dal reale interesse di acquisire nuovi mercati illeciti, primo fra tutti quello della droga e della liberazione dal divieto di consumo dell’alcool, il c.d. proibizionismo, voluto dal Governo repubblicano conservatore dopo il 1918. E’ l’epoca del Jazz, delle nuove libertà sessuali e della reazione culturale alla morale protestante incarnata dal Governo isolazionista del Volstead Act – del senatore Andrew Volstead promotore della legge – che mette al bando alcolici, droghe e qualunque ideologia permissivista.
A tale reazione popolare che si svilupperà negli anni ’20 fino alla crisi del ’29 – non solo corrisponde un’epoca di crescita economica e sociale – si pensi per esempio al film di Billy Wilder, A qualcuno piace caldo, ma anche allo sviluppo di Cosa Nostra, dove al regime familiare della Mafia – inquadrata splenditamente dal romanzo Il padrino di Mario Puzo- succederà dal 1933 un regime economico delittuoso più complesso, a stento represso dalla politica sociale del New Deal di Delano Roosevelt ed alla convivenza forzata del regime mafioso con la società civile per buona pare del secondo dopoguerra. Emergono nuovi orizzonti dal Crimine organizzato – si veda la trilogia cinematografica sul gangsterismo di Francis Ford Coppola apparso negli anni fra il 1972 ed il 1990 – quando questa fase storica sembra essere al tramonto.
Resta sempre comunque un elemento leggendario a fare da sfondo letterario a questa progressione criminale, un legame sotterraneo che non risulta mai intaccato fra le due sponde dell’oceano, una discendenza ideologica ed etica dal vecchio Brigantaggio meridionale, che pur acquisendo un connotato criminale, non perde l’ottica tollerante nei confronti dei Nuovi Briganti, ora come allora incarnati in movimenti populisti, non a caso guidati da un Capo costretto per provocazione avversaria a delinquere. Una sovrapposizione fra società civile e società politica che indurrà la Storiografia dello stato liberale prima, e quello fascista poi, a riconsiderare il Brigantaggio come la matrice di episodi di rivolta popolare, al pari di quella dei Fasci Siciliani del 1893, che lo Stato totalitario si arroga come l’unica via di assorbimento nell’ottica della Nazione come Potenza
Bibliografia
- Sul rapporto fra Mito e Storia vd. LUIGI SALVATORELLI, Mito e storia, Torino, 1964 e FURIO JESI, Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Torino, 1979.
- Sul Brigantaggio e Banditismo, vd. in generale ERIC HOBSBAWM, Bandits, London, 1969 e ADRIANO SCONOCCHIA, Banditi e briganti d’Italia, Milano, 2023.
- In merito al Brigantaggio nella letteratura romantica, cfr. fra un immenso numero di romanzi, racconti e film od opere teatrali, cfr. l’opera unitaria di GIULIO TATASCIORE, Briganti d’Italia. Storia di un immaginario romantico, ROMA 2022. Per i romanzi e le opere letterarie, si segnalano I Masnadieri, di FRIEDRICH SCHILLER, I grandi libri, Garzanti, Milano, 1991 e ROBERT WALSER, Il Brigante, Milano, 2008. Per l’Italia vd. RICCARDO BACCHELLI, Il brigante di Tacca del lupo, Garzanti, 1942 ed il film di Germi citato nel testo. Sulla nascita degli Stati nazionali ed il rapporto fra eserciti mercenari e Brigantaggio, vd. DOMENICO LIGRESTI, Storia moderna (secoli XVI-XVIII), Catania, 2014 e dello Stesso, Le armi dei Siciliani, Palermo, 2013. A livello generale vd. ARMANDO SAITTA, Il cammino delle civiltà, vol. II, 1963 e ROSARIO VILLARI, Storia moderna, 1984. Più di recente vd. SERGIO ROMANO, Disegno della storia d’Europa dal 1789 al 1989, Milano 1991 e Manuale Donzelli di storia moderna e contemporanea, Roma, 1997-1998.
- Oltre alle opere citate nel testo, vd. una bibliografia ragionata sul Brigantaggio quale conseguenza della questione meridionale dal 1861 al 1961, in Il sud nella Storia d’Italia. Antologia della questione meridionale, a cura di ROSARIO VILLARI, Bari, 1961.
- I vari episodi citati nel testo sono tratte dalle memorie dei generali McFarlane, Hugo e Manhès pubblicati in un’opera collettanea Brigantaggio, ed. Capone, Lecce, 2005.
- Sulla legge Pica – Peruzzi e la situazione internazionale, vd. il Nostro Tumulti popolari indicato nel testo; nonché Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di RAFFAELE ROMANELLI, Donzelli, Roma, 1995.
- Per la storia della Sicilia medievale e moderna, in chiave alternativa a quelle legate alla dottrina liberale e socialista predette, cfr. DENIS MACK SMITH, Bari, 1970. Vd. anche HAROLD ACTON, Gli ultimi Borboni di Napoli (1825-1861), Milano, 1964 e LUCY RIALL, La Sicilia e l’unificazione italiana, Torino, 2002.
- In letteratura, l’epoca di Florio, dei Lampedusa e degli Uzeda, trova sponda in Verga, Capuana e Tomasi di Lampedusa, nonché in Stefania Auci per la famosa famiglia palermitana. Per tale schiera di scrittori fra Verismo ed Espressionismo, cfr. CARLO SALINARI, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, 1960. Per la posizione di Pirandello fra Naturalismo e Decadentismo vd. il Nostro Il chiodo di Pirandello e Davanti alla legge di Kafka, in giovannighiselli.blogspot.com, 10.10.2024.
- Sulle interpretazioni generali del Fascismo come Democrazia autoritaria di massa atta a superare in forma totalitaria ed alternativa alle incapacità dello Stato liberale, vd. ENZO COLLOTTI, Fascismo, fascismi, editore Sansoni, Milano, 2004, pagg. 41 e ss.