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A cento anni da “Gli ultimi giorni dell’Umanità”. Un’enciclica laica
Quando il 26 marzo 1922 esce a Lipsia la seconda edizione del dramma Gli ultimi giorni dell’umanità, dotato di un diverso finale rispetto a quelli definiti nella prima bozza del 1919 e nella prima edizione del 1920, la critica al suo autore, il grande polemista austriaco Karl Kraus, all’epoca ormai quasi cinquantenne, è fortemente sorpresa. I lettori, anche quelli più assidui al suo notissimo giornale satirico La fiaccola, nelle librerie e nelle edicole fin da l899, rimangono colpiti dalla mole di scene – circa 200 – e dall’ampiezza del numero di atti e personaggi, 5 atti e decine di personaggi.
Soprattutto, dall’evidente contraddizione con una delle sue massime più note, come se un Mosè, personaggio biblico cui si è ispirato, avesse smentito senza deroghe i 10 comandamenti. Infatti, uno dei mille e più aforismi scoccati contro il mondo austroungarico – e il mondo intero – così recita al pubblico di lettori e di ascoltatori senza escludere apparentemente se stesso. Uno che sa scrivere aforismi non dovrebbe disperdersi a fare dei drammi. Eppure così è. Ma perché avviene?
La svolta del suo pensiero epocale, che lo pone come il nostro Giacomo Leopardi a trasferirsi dal collaudato pessimismo storico al pessimismo cosmico, va facilmente datata nel momento in cui scoppia l’evento catastrofico del c.d. Mondo di ieri, tanto per citare l’espressione di una altro nostalgico scrittore e storico suo concittadino, Stefan Zweig. Come Kraus e come tanti altri critici della Vienna di quel secolo, la cambiale del brusco rinnovamento, di una rivoluzione culturale, viene all’incasso, vale a dire la Grande Guerra del 1914-1918.
In quel periodo si rivolta come un calzino il suo atteggiamento liberale e conservatore verso un socialismo pacifista prima, per poi cadere in uno spiritualismo mistico di carattere apocalittico, totalmente alieno dal mero moralismo cinico che lo ha fino ad ora distinto, quasi un rifiuto totale senza speranza non solo di quel mondo, ma dell’intera Umanità. Una generazione irredimibile cui Kraus riserva una maledizione fortissima che ricava da un poema storico politico di un analogo polemista, Heinrich Heine, in occasione della rivolta dei Tessitori della Slesia nel 1844. Una serie di maledizioni che avverranno con diabolica frequenza nel dramma in esame.
Karl Kraus, uno scrittore con la penna in pugno
Si è detto del suo giornale satirico che furoreggia a Vienna fin dal 1899. Nato in una famiglia ebrea boema di assimilati e di poca aderenza all’ebraismo, uno dei tanti figli di un’imprenditore produttore di carta, in tutte le applicazioni del prezioso materiale nel grande Imperial Regio Governo. Nonostante il clima burocratico che regna nell’impresa paterna, ama il teatro e la comunicazione.
A 18 anni è già di casa al Burgtheater di Vienna, dove ormai la numerosa famiglia si è trasferita nel 1884 e dove sedicenne scrive un articolo singolare sulla Gazzetta di Vienna a commento del coevo dramma rivoluzionario di Gerhart Hauptmann, I tessitori, di cui rimarrà per sempre un fedele amico e difensore, anche quando Questi aderirà a scuole teatrali borghesi di stampo espressionista negli anni del primo dopoguerra.
Già nel 1892 Kraus vanta 200 titoli di critica culturale, fra recensioni e presentazioni di libri non solo di lingua tedesca. Harden a Berlino, Papini in Italia, Chesterton a Londra, Zola a Parigi, notano la vitalità espressiva e la lingua ormai divenuta tagliente. Nel 1897 pubblica il saggio satirico La letteratura demolita, in occasione dell’abbattimento del Café – concerto Griensteidl, dove a Vienna si riuniscono tanti circoli culturali e che ha visto come clienti Freud, Mahler, Kokoschka, Liebermann e von Mises, campioni della cultura espressionista nei vari rami del sapere che si oppongono al positivismo scientista e antispiritualista in nome di una morale umanitaria scossa dal pericolo materialista e capitalista foriero di guerre imperialiste già nell’aria.
E mentre prende netta opposizione all’antisemitismo montante difendendo a spada tratta il colonnello Dreyfus; Kraus è ormai sul versante illuminista etico, essendosi ormai vieppiù convinto che la stampa di regime, la corruzione pubblica, la esclusione del diverso, la manipolazione dei potenti burocrati, la sottomissione della donna; sono sintomi di decadenza morale progressiva che avrebbero divorato la civiltà europea. Unica via gli sembra quella dell’ironia. Come è stato per Aristofane, Luciano, Machiavelli, Shakespeare, Swift, Oviedo, Heine, Offenbach e Nietzsche.
Di qui, approfittando dell’impresa paterna, fonda quella fiaccola a foderina rossa, dove vi sta una maschera che ride e che nasconde la fiamma della morale che arde. Dal 1899 al 1936, il calore dell’ironia arderà un mondo che brucerà per sempre. Quale sarà l’effetto di quella sarcastica rassegna di eventi e di figure, di quella rassegna infinita di motti a doppio senso che avrebbe dovuto svelare i vizi privati e le pubbliche virtù di quella umanità malata e destinata a scomparire?

Elias Canetti, un figlio degenerato (1924-1935)
Non è questa la sede per scandagliare la complessa mole di aforismi e di scritti che Kraus espone nei numeri della sua rivista. Ma una testimonianza di uno dei suoi figli intellettuali ci pare possa qui bastare per capire la sua proteiforme personalità. Una sera di maggio del 1924, il giovane Elias Canetti, invitato da un gruppo di amici comuni, fra cui spicca il filosofo Ludwig Wittgenstein, si reca al Burgtheater di Vienna, dove Kraus legge ampie pagine del suo prolisso dramma. Con voce fievole e possente ad un tempo, basso di statura e con la schiena palesemente storta, come il nostro Leopardi, ma vivace nel volto incorniciato di occhiali dorati; Canetti lo vede entrare a passo felpato sul palcoscenico, sedere al pianoforte e cantare in falsetto brani d’opera di Giuseppe Verdi e Wagner, intervallati da brani descrittivi tratti dal suo dramma.
Sono bozzetti di vita viennese durante la guerra. Una rassegna di parole spesso ambivalente, un collage linguistico che fanno saltare sulle sedie gli spettatori, appena usciti dai caffè-concerto dove hanno fatto scarse colazioni perché in quel dopoguerra erano carenti i rifornimenti alimentari. Ma la presenza intellettuale è altissima, come pure quella di monarchici nostalgici dell’Impero, disillusi repubblicani, militari spesso mutilati, dame dell’alta società, vedove di guerra, giovani pieni di speranze, scrittori in cerca di nuovi argomenti e stili, conservatori, socialisti, cattolici, liberali e operai.
Tutti zitti e attenti ad ascoltare. Che cosa? Una predica terribile: i buoni cittadini sono molto pochi; i cattivi, tanti, perché corrotti e ipocriti come i sepolcri imbiancati evangelici al Tempio di Gerusalemme. Al centro della scena, il Dio disceso in terra che domina sul palcoscenico e che giudica il bene e il male senza appello. Nessuno protesta, ma tutti tacciono a capo chino. E tuttavia Canetti non vede che una massa di colpevoli che con il loro profondo silenzio avallano i giudizi di Kraus.
Il poeta Trakl, fra la folla di pecore tacitamente assenzienti delle loro colpe – medici, magistrati, burocrati, donne fedifraghe, ladri autorizzati a vendere merci avariate alla povera gente, gazzettieri pagati dai pescecani industriali; generali che avevano condotto al macello masse di soldati al fronte russo o a quello italiano – lo classifica come uro stregone adirato contro i suoi apprendisti che hanno danneggiato l’opera del maestro, sul modello della fiaba di Goethe. Ma cosa rende così docile quella massa? Quale potere esercita su di loro quello strano ometto di così scarsa imponenza? Erano per Canetti le parole e il loro uso, una serie di scioglilingua, di versi a doppio senso, che destavano timore e terrore.
Un linguaggio per di più gridato, una valanga di accuse ai cittadini del popolo e a dotti intellettuali partigiani, un sermone di un profeta discriminato, ma che entra con impeto nei loro cuori. Un oratore perfetto le cui parole svelavano il conflitto interiore di tutti e di tutte, poveri, ricchi, borghesi, operai, intellettuali e ignoranti. Per esempio, prendiamo la guerra: Questa è dapprima la speranza che dopo si stia meglio; poi l’attesa che l’avversario non stia meglio di noi; ma alla fine la triste sorpresa che ambedue stanno peggio di prima. E andiamo alle vaccinazioni: Si è detto che a Vienna non è scoppiato il vaiolo, ma un’epidemia da vaccino. Ora perciò i no vax stanno verificando il valore negativo di quella cura. Ma loro sembrano di avere trovato la giusta soluzione e dunque cercano di prendere il vaiolo per proteggersi dal vaccino. E che pensava Kraus dei santi che professano una fede cristiana francescana, tutta Dio, patria e famiglia? Semplicemente che i pii cattolici trascurano che Dio è nel mondo molto spesso tutto tranne che un mistico e un probo fedele. E di fronte alla morte? Kraus afferma di non credere alla pace eterna, né di aspirarla. Io voglio soffrire, amare, sentire, guardare, essere per sempre inquieto, finché la giustizia non prevalga qui e non solo nell’altro mondo.
Cosa rimaneva al pubblico dopo tali affermazioni e tali concetti completamente invasati di responsabilità etica? Certamente Canetti e tutti gli altri escono con un impegno morale per la tutela dell’altro nel mondo, magari ritrovando per le strade di Vienna masse di immigrati affamati e folle che inneggiavano a poteri autocratici che imponessero ordine e lavoro. In una Repubblica d’Austria piena di burocrati decaduti, di operai licenziati, di donne di strada che si vendevano per pochi denari, Si era – dice Canetti – come i Cristiani durante la caduta dell’Impero romano: mandati da pecore nella tana dei lupi…. Eppure, a Canetti, Kraus apre la lingua e l’udito. Gli fa capire l’uomo e il suo linguaggio. Capire cos’era un grido d’aiuto, un segnale di dolore, un esistere non solo di interprete e lettore di libri, come il colto Kien del suo famoso romanzo, Auto da fè, del 1935.
Il motto di Kraus – ripreso da Kierkegaard, Spinoza, Goethe e Nietzsche – cioè di saper sentire, di saper interpretare, di saper esistere e di saper dire, di dare un significato alle parole confermandole colla sua vita, fu per Canetti – ma anche per Wittgenstein e Jaspers altri illustri uditori del Kraus – lo stigma di vita e il marchio della sua poetica, come ebbe a dire Canetti nel 1974, quando pubblicò uno dei suoi saggi migliori, La fiaccola nell’orecchio. Sebbene in questo scritto riconosca la grandezza magistrale del Kraus, ne segnala il limite. La lezione di vita del Kraus avrebbe una fondamentale aporia, essere come una muraglia cinese, troppo perfetta per non essere perforata.
Ciò che lo porta a vincere nella splendida forma del messaggio è per Canetti l’essere il Guardiano onnipotente di quella muraglia, vale a dire proprio la vittima di quel buco che lo perfora. Kraus, nel suo delirante pessimismo storico, non perdona e non ha la pazienza di sopportare. Possiederebbe che una pena interiore che accompagna la sua ironia, un evitare la dura realtà, sia che fosse futile o drammatica, vera o falsa che sia. La doppiezza della duplicità del significato sarebbe un escapismo autoprotettivo.
In altri termini, quel silenzio di quella sala significa un turbamento momentaneo di quella massa di ascoltatori appena usciti, che ritorna presto a peccare, come i fedeli all’uscita della messa. Ecco il tormento dell’anima di Kraus, perché la sua sottile ironia non ha alcun riscontro permanente nella gran parte degli uditori. Un altro passaggio è ancora da fare per raggiungere la vetta della sua eccezionale poetica e per intravvedere finalmente un risultato meno ipocrita?
Il secondo tempo di Karl Kraus (1926-1936)
In realtà, la scelta di rappresentare per intero la mastodontica tragedia a Lipsia già nel 1922, malgrado forse a causa della terza stesura del finale – dove appaiono i Marziani a punire l’Umanità ribelle alla volontà di Dio – non lo appaga del tutto, anche perché il pubblico stavolta non tace fino in fondo come era stato solito, lesinandogli ora non poche critiche dal vivo. Ecco perché da allora, come avverrà dal 1925 in poi, Kraus deve ridurre la mole delle scene e dei personaggi, fino a ritornare da solo sulle scene. Prima a Praga e poi a Berlino ricompare il dramma con alterne vicende, mentre nello stesso anno ha l’ennesima polemica letteraria e giudiziale, il famoso affare Bekessy.
In un ennesimo pamphlet, riprodotto in forma di farsa satirica non solo si attira le ire di quel giornalista conservatore accusato di aver sparso notizie false sul conto dal Capo della Polizia, azionista di una ditta appaltatrice del Ministero dell’Interno; ma anche perché dimostra l’attività corruttrice dell’industriale triestino Camillo Castiglioni. La censura della polizia calò sulla relativa satira – Gli insuperabili – e la permanenza di Kraus a Vienna peggiora sensibilmente, anche perché la protezione dell’amica baronessa Sidonie non è più sufficiente a stornare le ire della polizia. A poco a poco, opera dopo opera, rappresentazione dopo rappresentazione, Kraus comincia a guardare a sinistra, divenendo più radicale e più pessimista nei confronti della giovane Repubblica.
Fugge quindi a Parigi e qui cambia lo stile estetico, passando dal teatro della parola, al teatro della poesia e dunque riprendendo il romancero di Heine e le operette di Offenbach. Intanto, il critico reazionario W.F.Otto e non pochi professori della Sorbona insorgono a più non posso contro la proposta di conferirgli il premio Nobel. Anzi il poeta A. Kerr, entra nel suo mirino perché i Canti rumeni di quell’autore mostravano un livore inusitato contro gli ebrei francesi, cosa che lo indigna anche perché è falsamente incolpato di antisemitismo. Pure a Parigi l’aria si è fatta pesante e dunque ore andrà a Berlino dell’amico Brecht. E vi soggiorna, inseme ancora al discepolo Canetti dove conosce l’attrice Helene Weigel, già compagna di Brecht.
Entra nel sodalizio anche un giovane critico letterario, tale Walter Benjamin, che qualche anno dopo – siamo già nel 1931 – pubblicherà il miglior saggio critico su Kraus sul Frankfurter Zeitung. Sono gli anni dei suoi più apprezzati momenti di solidarietà con la sinistra socialdemocratica. Non solo spiccano le immediate correzioni e integrazioni dell’Opera da tre soldi, che nel 1929 appare sul palcoscenico al Beggar’s opera, con la Weigel nella parte di Jenny; ma nella stessa sede andrà in scena un’edizione ridotta e rifatta dell’Ultima notte, indubitabile un precedente dell’opera brechtiana.
Nondimeno, a Berlino rilegge a suo modo le operette di Offenbach e il Timone di Atene di Shakespeare. Il timore di rappresaglia nazista – ma anche un certo contrasto con Piscator, il regista di Brecht, nonché qualche screzio con lo stesso amico, forse anche per una troppa vicinanza di Kraus con la Weigel – lo riporteranno a Vienna. Il passaggio al pessimismo cosmico, alla impossibilità di perseguire un ideale estetico morale per la durezza del cuore dell’Umanità, lo spinge ora – anche dopo un prima attacco di cuore – a riconvertire la sua poetica, da integrato con dubbi e speranze, a apocalittico senza se e senza ma.
La comparsa all’orizzonte del pericolo nazista e il tradimento dei chierici, cioè di coloro in cui ha creduto a Berlino, lo portano a un giudizio caustico su Adolf Hitler. Nel numero 888 della Fiaccola, proclama Mir fällt zu Hitler nichts ein (su di lui non ho nulla da dire) è emblematico della sua nuova poetica, del suo Uomo che non parla, dove anche nello stesso numero afferma che quando la Parola tace, allora e solo allora il mondo è veramente sveglio. E l’altro il suo discepolo Wittgestein gli fa il verso: su ciò di cui non si può parlare si deve tacere. E poi venne l’affare Dolfuss, il cancelliere austriaco destituito e ucciso durante un colpo di stato nazista a Vienna e poi rapidamente represso dal governo repubblicano (25.7.1934).
Kraus dalle colonne della sua Fiaccola, peraltro sempre pubblicata con meno pagine e con frequenza alternata, dirà che la fiaccola non brucia più….che il povero Dollfuss, malgrado non fosse un campione di democrazia, era il male minore per la difesa della Repubblica. Negli ultimi due anni di vita (1935-1936), Kraus comporrà in segreto l’ultima e meno conosciuta “performance”, La terza notte di Valpurga, uno zibaldone antinazista che soltanto nel 1952 andrà alle stampe per merito dell’amica Helene Weigel, ormai in rotta con Brecht e che gli farà da segretaria per quel breve torno di tempo.

Va notata – come ci dirà Canetti che proprio in quell’anno pubblica il suo capolavoro Auto da fè – la ripresa delle sue letture teatrali e non è un caso che l’ultima recita sarà il Re Lear di Shakespeare. Sarà la Weigel a conservare il manoscritto della terza notte e che lo assisterà fino alla fine, collaborando alla ricostruzione del suo archivio di lettere e brevi saggi, fino a pubblicare nelle prime settimane del 1936 l’ultimo numero della Fiaccola. Poco prima di morire concluderà la sua ultima lettura pubblica (la n.700) dove esporrà brillantemente – pur con una flebite acuta e un dolore acuto al cuore, sintomi del prossimo infarto – il suo testamento letterario, dove enuncerà il suo giudizio universale di condanna irremissibile, anche se, come il Leopardi della Ginestra, segnalerà quanto in quell’apocalisse nazista il fiore della parola è sempre pronto a sbocciare.
La sera del 12 giugno del 1936, dopo una recita pur da sofferente, di fronte al visibile male che lo assale – così dice ancora Canetti, che malgrado le critiche mai lo abbandonerà nel suo animo, come Nietzsche che sul letto di morte invoca papà Wagner – Kraus esce canticchiando le note di Weil dall’Opera da tre soldi, senza vedere un ciclista che al buio della sera lo centrerà in pieno. Una morte anticipatrice dell’infarto quasi successivo, che a 72 anni gli impedisce di vedere l’Anschluss di Adolf Hitler della Vienna mai tanto amata e tanto odiata. Dirà di lui Brecht: Quando il secolo levò la mano contro se stesso, quella mano solo in apparenza è stata quella dello studente anarchico di Sarajevo. In realtà la vera mano che lo uccise fu quella di Karl Kraus.
A cento anni dalla sua pubblicazione, soltanto la bravura del nostro regista Luca Ronconi nel 1991 è stata capace di rappresentare L’ultima notte dell’umanità nella nostra lingua al Lingotto di Torino nella sua immane completezza. “Piéce” che si può rivedere su Youtube con pazienza e con la medesima attenzione di rispetto silenzioso di coloro che vedono con ansia crescente il pericolo della guerra atomica dietro l’angolo di casa nostra.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
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- Per il contesto storico e culturale, vd. EDWARD TIMMS, La Vienna di Karl Kraus, Il Mulino 1989.
- Per una completa biografia di Kraus, cfr. ALFRED PFABIGAN, Karl Kraus, una biografia politica, ed. Lucarini, 1988.
- Per il controverso rapporto fra Kraus e Canetti, cfr. di quest’ultimo il saggio, Il frutto del fuoco, ed Adelphi, 1982 e le opere connesse ivi citate.
- Per l’edizione integrale degli Ultimi giorni dell’Umanità, in lingua italiana vd. Adelphi e-book. A cura di ERNESTO BRANN e MARIO CAPITELLI, 2019.
- Sull’opera e al figura di Karl Kraus, da ultimo vd IRENE FANTAPPIE’, L’autore esposto, scrittura e scritture in Karl Kraus, ed. Peter Lang edition, New York, 2016.