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Montgomery, Alabama, Stati Uniti del Sud. E’ qui che inizia l’ascesa di Martin Luther King a leader del movimento dei diritti civili tra la fine degli anni ’50 e per quasi tutti gli anni ’60. La sua figura sarà rappresentativa di quelle lotte dei neri contro la segregazione razziale e le ingiustizie sociali pesantemente radicate nell’immaginario collettivo e nel tessuto sociale del sud degli Stati Uniti.
Martin Luther King e la Southern Christian Leadership Conference
Quando nel 1954 il giudice della Corte Suprema Earl Warren proclamò la storica sentenza Brown vs Board of Education, sancendo l’incostituzionalità delle segregazione razziale nelle scuole, il sud degli Stati Uniti reagì duramente, alimentando campagne improntate all’anticomunismo e all’odio razziale. Ne fu un esempio il caso di Little Rock nel 1957, dove 9 ragazzi dovettero attendere l’intervento delle truppe federali mandate da Eisenhower per potere entrare a scuola, in quanto il governatore dell’Arkansas, Orval Fubus, gli aveva proibito l’accesso.
La grande ondata del movimento dei diritti civili degli anni ’60 partì da Montgomery, in Alabama, una città che era stata protagonista di profondi cambiamenti sociali, tra cui il raddoppio dei cittadini afroamericani.
A Montgomery la segregazione razziale era fortissima; scuole, teatri, trasporto pubblico ed ogni altro spazio di socialità faceva della segregazione razziale il suo tratto distintivo. Il 1955 è l’anno del famoso rifiuto di Rosa Parks all’ordine di lasciare il posto sul bus riservato ai bianchi.
Un atto, quello di Rosa Parks, che era stato attentamente pianificato dai movimenti delle donne afroamericane, tra cui il Women’s Political Council di Montgomery, attivo sin dal 1946. Le donne del movimento dei diritti civili di questi anni venivano definite “bridge leaders” (leader ponte) in quanto erano loro che si occupavano di fare da tramite tra la comunità degli afroamericani e i leader delle organizzazioni.
E’ in questo contesto di crescente mobilitazione ed organizzazione degli afroamericani nel sud degli Stati Uniti che nasce la leadership di Martin Luther King, un giovane reverendo di 29 anni.
King dimostrò da subito di avere una grande oratoria e una personalità carismatica, capace di rivolgersi alla comunità nera con familiarità e decisione.
La sua idea di resistenza alla segregazione razziale metteva insieme estratti del Vangelo, le tesi di Henry David Thoreau, la non violenza di Gandhi e pratiche di boicottaggio, come quello degli autobus di Montgomery. Questo spirito di lotta non violenta trovò una sua organizzazione nel 1957 con la fondazione della Southern Christian Leadership Conference.
Martin Luther King e il movimento dei diritti civili negli anni Sessanta
I successi ottenuti dal movimento dei diritti civili, come la fine della segregazione sui mezzi pubblici, avevano dato maggior forza agli afroamericani e Martin Luther King iniziò a pensare che si potesse e si dovesse fare di più. Iniziarono allora ad organizzare dei sit-in, come quello a Greensboro nel 1960.
Qui, quattro adolescenti neri della North Carolina si presentarono ad un ristorante ed ordinarono la cena con un servizio che, sino ad allora, era riservato solamente ai bianchi. Rifiutati dalla cameriera, i quattro ragazzi rimasero lì finché non ottennero il loro pasto. La loro azione produsse nei giorni successivi altre ondate di sit-in che arrivarono a coinvolgere decine di migliaia di afroamericani in tutto il paese nel successivo anno e mezzo.
Altre azioni che si dimostrarono di grande successo furono le Freedom Rides, le corse della libertà. Organizzate dal Congress of Racial Equality, un’organizzazione composta sia da bianchi che da neri che si batteva per i diritti civili, queste corse coinvolgevano numerosi attivisti afroamericani che, lungo tutte le tratte del Sud degli Stati Uniti, dovevano monitorare se le recenti sentenze sulla segregazione razziale nei mezzi pubblici venissero rispettate. Giunti a Montgomery, però, i freedom riders, come erano chiamati questi attivisti, trovarono ad attenderli un migliaio di suprematisti bianchi che, grazie alla complicità della polizia locale, aggredì violentemente il gruppo di attivisti.
Le ondate di mobilitazioni condotte dagli afroamericani permettevano al movimento dei diritti civili di radunare intorno a sé sempre più organizzazioni e sempre più attivisti; dagli studenti agli agricoltori, dalle domestiche ai lavoratori stagionali e a chiamata, migliaia furono arrestati e andarono così a riempire le carceri delle principali città del sud. Non c’era giorno in cui non vi fossero notizie di nuovi attivisti neri arrestati o di nuove proteste e ben presto la questione dell’uguaglianza razziale divenne un tema di portata nazionale.
Fu a Birmingham, in Alabama, che il movimento dei diritti civili subì un mutamento profondo, passando dalla protesta ad una richiesta di cambiamento radicale del tessuto politico e sociale statunitense. Qui, Martin Luther King e la Southern Christian Leadership Conference, nell’aprile 1963 organizzarono una nuova mobilitazione volta a porre fine alla segregazione nei negozi della città e nelle pratiche di assunzione.
Birmingham, città caratterizzata da una fortissima segregazione razziale, fu il teatro di sperimentazione di una nuova tattica da parte del movimento dei diritti civili, il cosiddetto Project C (Project Confrontation) ossia il tentativo di provocare la reazione violenta dei suprematisti bianchi così da giungere sulle cronache nazionali e sensibilizzare l’intero paese alla causa dei neri. Lo scopo venne raggiunto grazie anche all’aggressività del commissario di polizia Eugene “Bull” Connor, che aggredì i manifestanti con cani e idranti.
Alle violenze seguì l’arresto di molti attivisti tra cui quello di Martin Luther King. Portato in carcere, King scrisse quella che divenne nota come Lettera dalla prigione di Birmigham. In questa lettera c’è una difesa a spada tratta della lotta non violenta che gli afroamericani stavano portando avanti nonché un richiamo ai padri fondatori della nazione quando, parafrasando Thomas Jefferson, sostenevano di non obbedire a delle leggi ritenute ingiuste.
La marcia su Washington e il discorso “I Have a Dream”
L’estate del 1963 fu caratterizzata da potenti e numerose ondate di manifestazioni degli afroamericani, volte a denunciare la violenta repressione da parte delle forze di polizia. La questione razziale era oramai divenuta un tema primario nel dibattito politico nazionale.
Nell’agosto del 1963, grazie anche al sostegno di sindacati come la United Auto Workers, Martin Luther King e il movimento dei diritti civili portarono a Washington oltre 250 mila persone, delle quali circa 60 mila erano bianche. King aveva sempre cercato di ottenere il sostegno di una parte dei bianchi, dimostrando così che la questione razziale non fosse solo una battaglia degli afroamericani ma di tutti i cittadini americani, che fosse una battaglia di civiltà e di giustizia sociale.
Dal Lincoln Memorial, Martin Luther King pronunciò un discorso passato alla storia come “I Have a Dream“. Il reverendo, con una retorica che metteva insieme idealismo cristiano e i più alti principi di libertà e democrazia, sostenne che fosse giunto il momento di
“Rendere realtà la giustizia per tutti i figli di Dio” perché, altrimenti “non ci sarà né pace né tranquillità in America fino a che ai neri non saranno garantiti i diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non emergeranno i luminosi giorni della giustizia […] Ho un sogno che i miei quattro bambini possano un giorno vivere in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma dal contenuto del loro carattere“
Ma la Marcia su Washington non si limitò solamente a richiedere il diritto di voto ai neri e la fine delle discriminazioni. Bayard Rustin, uno degli organizzatori della marcia, sottolineò l’importanza della questione occupazionale e della giustizia economica. Rustin, che da giovane era stato iscritto al Partito Comunista degli Stati Uniti, da tempo era impegnato nel terreno sindacale e delle lotte per la giustizia sociale.
A Washington, perciò, i temi del lavoro e dell’occupazione trovarono ampio spazio grazie a Bayard Rustin e altri attivisti radicali, giungendo a proporre “un massiccio piano di occupazione federale – per neri e non – che garantisse lavori e salari dignitosi”. Per questo il nome della più importante manifestazione per i diritti civili nella storia degli Stati Uniti prese il nome di “March on Washington for Jobs and Freedom“.
La marcia da Selma a Montgomery
Martin Luther King era ormai non solo il leader di un movimento che si batteva per la fine della segregazione razziale ma anche un leader morale. La guida e la lotta per la causa del movimento dei diritti civili, nel dicembre 1964, valsero a King il Premio Nobel per la pace. Subito dopo il ritiro del premio ad Oslo, King fu ricevuto da Lyndon Johnson, il presidente che aveva preso il posto di John Fitzgerald Kennedy dopo il suo assassinio nel novembre 1963.
Nell’incontro con Johnson, King, dopo l’approvazione nel mese di luglio del Civil Rights Act, la prima legge sui diritti civili che bandiva la segregazione razziale nei luoghi pubblici e le discriminazioni nelle registrazioni di voto, propose al presidente un nuova legge che garantisse il pieno esercizio del diritto di voto per gli afroamericani. L’approvazione di questa seconda legge per i diritti civili avrebbe, però, richiesto agli attivisti per i diritti civili altre mobilitazioni e altre lotte, come la lunga marcia da Selma a Montgomery.
La marcia da Selma a Montgomery vide protagonisti migliaia di americani, scesi per le strade contro le pesanti discriminazioni di cui erano vittime gli afroamericani. In particolare, negli stati del sud, come l’Alabama, la registrazione dei neri per essere ammessi al voto veniva ostacolata in ogni modo, sia dai pubblici funzionari sia da parte di gruppi razzisti.
La storica marcia da Selma ebbe inizio dopo l’ennesimo episodio di violenza ai danni di un giovane afroamericano, Jimmy Lee Jackson, il quale venne ucciso da un colpo d’arma da fuoco dopo aver preso parte ad una manifestazione nella cittadina di Marion, nella contea di Perry, in Alabama.
La marcia non era certo destinata a non incontrare resistenze e opposizioni, che puntualmente, e pesantemente, arrivarono al Edmund Pettus Bridge, dove le truppe nazionali dell’Alabama, chiamate dal governatore Wallace, il 7 marzo 1965 caricarono i manifestanti, provocando pesanti incidenti e numerosi feriti, tra cui John Lewis, allora leader dello Student Non Violent Coordinating Committe, una delle più importanti organizzazioni del Civil Rights Movement.
L’episodio dell’Edmund Pettus Bridge, ricordato come Bloody Sunday, produsse un notevole sdegno generale nell’opinione pubblica americana e non solo; uno sdegno al quale si unì anche il Presidente Lyndon Jonhson, denunciando la brutalità con la quale erano stati trattati i manifestanti.
Dopo il violento episodio, King chiamò a raccolta tutti gli americani di coscienza ad unirsi a lui per riprendere la marcia. Nel frattempo, il giudice della corte distrettuale Frank Johnson Jr. emanò un ordine con il quale vietava ogni altra manifestazione.
Il martedì successivo, oltre duemila manifestanti tornarono sull’Edmund Pettus Bridge dove trovarono ad accoglierli nuovamente la guardia nazionale dell’Alabama, pronta a far valere il divieto di manifestazione. Questa volta, però, a seguito della richiesta della guardia nazionale di fermarsi, i manifestanti tornarono indietro.
Il 15 marzo, la settimana successiva al Bloody Sunday, Lyndon Johnson in una seduta comune del Congresso, introdusse il Voting Rights Act, la seconda legge sui diritti civili che avrebbe dovuto garantire il diritto di voto agli afroamericani. In un discorso passato alla storia, Johnson riconobbe la grande importanza storica degli avvenimenti di Selma e, in un Congresso che lo applaudì decine di volte, disse:
What happened in Selma is part of a far larger movement which reaches into every section and State of America. It is the effort of American Negroes to secure for themselves the full blessings of American life.
Their cause must be our cause too. Because it is not just Negroes, but really it is all of us, who must overcome the crippling legacy of bigotry and injustice.
And we shall overcome!
Nell’ultima tappa della marcia partita da Selma, i manifestanti si diressero verso lo State Capitol a Montgomery, dove Martin Luther King pronunciò un famoso discorso passato alla storia con il titolo di “How long? Not long”, in riferimento a quanto ancora gli afroamericani avrebbero dovuto attendere per potere vivere in una società in cui il pregiudizio razziale e la segregazione non fossero più parte della vita pubblica e politica americana, dove il sogno americano potesse essere sognato e raggiunto anche da quelli che fino ad allora erano stati lasciati indietro. Non molto avrebbero dovuto attendere, secondo Martin Luther King, perché “l’arco dell’universo morale è sì lungo ma è diretto verso la giustizia!”
L’ultimo discorso di Martin Luther King
Negli ultimi anni di vita, Martin Luther King dedicò la sue forze contro l’impegno americano nella guerra del Vietnam e al sostegno e alla mobilitazione dei lavoratori. E’ proprio a loro che, nell’aprile del 1968, King dedica quello che sarà il suo ultimo discorso.
A Memphis, la sera del 3 aprile 1968, King tenne un discorso, che sarebbe stato il suo ultimo in pubblico, a sostegno della protesta dei netturbini. Nel sermone oggi noto con il titolo “I’ve Been to the Mountaintop” il reverendo afferma di non aver paura della morte, sentendosi nelle mani di Dio dopo essere stato “sulla vetta della montagna”:
“And then I got to Memphis. And some began to say the threats… or talk about the threats that were out. What would happen to me from some of our sick white brothers? Well, I don’t know what will happen now. We’ve got some difficult days ahead. But it doesn’t matter with me now. Because I’ve been to the mountaintop. [applause] And I don’t mind. Like anybody, I would like to live a long life. Longevity has its place. But I’m not concerned about that now. I just want to do God’s will. And He’s allowed me to go up to the mountain. And I’ve looked over. And I’ve seen the promised land. I may not get there with you. But I want you to know tonight, that we, as a people, will get to the promised land! [applause] And so I’m happy, tonight. i am not worried about anything. I’m not fearing any man. My eyes have seen the glory of the coming of the Lord!”
L’assassinio di Martin Luther King
Alle 18:01 King, che era fuori nel balcone di fronte alla sua camera, venne colpito da un singolo proiettile calibro 30-06 sparato da un Remington 760 (un’arma di precisione). Il colpo si disse che fosse partito da una stanza dell’albergo di fronte.
Il proiettile perforò la guancia destra di King, spezzò la mascella e le vertebre cervicali, tagliando la vena giugulare e le arterie maggiori. La forza del colpo strappò addirittura la sua cravatta. Il reverendo cadde violentemente all’indietro, privo di sensi.
Chi ha ucciso Martin Luther King?
Le indagini dell’FBI portarono l’8 giugno all’arresto in Europa (all’aeroporto Heathrow di Londra) del principale sospettato, James Earl Ray, che dopo le prime ammissioni ritrattò e si dichiarò e continuò a dichiararsi innocente: estradato in Tennessee, fu processato e condannato a 99 anni di carcere.
L’inchiesta e gli atti processuali pubblici non hanno mai risolto del tutto la vicenda: ancora oggi non è chiaro se si è trattato del gesto di un difensore della razza bianca o di un complotto. I documenti desecretati nel 2002 non hanno contribuito a fare emergere la verità.
Black Lives Matter e la lotta per i diritti civili nel XXI secolo
Nell’estate del 1967 una grande ondata di rivolte nei ghetti afroamericani scuote gli Stati Uniti. L’amministrazione di Lyndon Johnson decide così di nominare la Commissione Kerner al fine di indagare le cause di un tale malcontento sociale. Il rapporto finale, conosciuto come Kerner Commission Report, sancisce ciò che è chiaro a molti neri americani:
Il comportamento della polizia è la causa principale delle rivolte nei ghetti […] Per molti neri la polizia ormai è il simbolo di potere bianco, razzismo bianco, repressione bianca. E il fatto è che spesso la polizia riflette ed esprime questa mentalità.
Il Black Panther Party
Dopo la morte di King, la più famosa organizzazione afroamericana che viene a crearsi è il Black Panther Party. Nato a Oakland, in California, nel 1966 da Huey Newton e Bobby Seale, il Partito delle Pantere Nere fa dell’autodifesa armata dei neri uno dei suoi punti programmatici fondanti, soprattutto nei ghetti.
A differenza dei movimenti che si rifanno al nazionalismo nero, le Pantere Nere credono sia possibile cercare alleanze – oltre che con altri movimenti radicali neri – anche con quei bianchi progressisti e anti-razzisti. Influenzati anche dal marxismo, le Black Panther sostengono che lo sfruttamento capitalistico sia alla base del sistema di oppressione a cui sono sottoposti i neri e pertanto solamente una lotta per il superamento del capitalismo potrà davvero condurre ad un sistema fondato sulla giustizia sociale.
Date queste premesse, le Black Panthers si ritrovano ben presto sotto l’occhio dell’FBI e del suo programma COINTELPRO, venendo definite da J. Edgar Hoover la più grande minaccia alla sicurezza nazionale. Ma le Pantere Nere non si occupano solo di contrastare la brutalità della polizia nei quartieri afroamericani; sono decine i programmi per la comunità che il Partito porta avanti, dall’istruzione ai test per la tubercolosi, dal sostegno legale al Free Breakfast for Children, un servizio con il quale le Pantere Nere portano cibo ai bambini dei quartieri poveri.
Tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, però, il Black Panther Party inizia un declino che lo porterà all’insignificanza. Certamente il ruolo dell’FBI tramite sabotaggi, agenti provocatori, infiltrati e operazioni mirate ha contribuito non poco alla sconfitta del movimento ma anche una lotta fratricida nella leadership del Partito ha avuto un notevole peso.
Black Lives Matter
Nei decenni successivi alla morte di King e alla fine del Black Panther Party, le violenze della polizia contro gli afroamericani non si sono arrestate. Il conto delle uccisioni, delle violenze, dei pestaggi, dei soprusi delle forze dell’ordine contro i neri ha raggiunto cifre impressionanti che sono state ben contestualizzate storicamente e socialmente nell’ultimo libro di Alessandro Portelli “Il ginocchio sul collo”, che abbiamo recensito qui.
È in questo contesto che, circa un decennio fa, nasce il movimento Black Lives Matter. Dopo l’uccisione di Michael Brown a Ferguson, Missouri, nel 2014, le proteste hanno iniziato lentamente ad espandersi in tutto il paese, attraverso mobilitazioni di solidarietà.
A differenza, infatti, delle proteste negli anni Sessanta, che rimanevano spesso confinate alle città dove le violenze avevano luogo, il movimento di Black Lives Matter si estende, appunto, in tutto il paese tramite reti e proteste in solidarietà con un evento accaduto in un singolo luogo. Flash mob, cortei, atti di disobbedienza civile ma anche campagne politiche e sostegno a procuratori distrettuali vicini al movimento, che ricordiamo sono eletti con il voto popolare.
Black Lives Matter non ha come unico obiettivo la fine delle violenze perpetrate dalla polizia nei confronti della comunità afroamericana. Infatti, il contesto nel quale questo movimento esplode è il post 2007-2008, anno della grande crisi finanziaria che ha avuto ripercussioni devastanti sulla vita dei neri americani.
Ad essa si aggiungono i costi esorbitanti per l’istruzione, dal college all’Università, l’assistenza sanitaria, gli affitti e, non da ultimo, la pandemia da Covid-19 che ha fortemente aggravato le precedenti condizioni di vita degli afroamericani e ha marcatamente mostrato la profonda questione razziale anche in un contesto in cui, falsamente, ci viene raccontato di essere colpiti tutti indistintamente e che, pertanto, si è “tutti sulla stessa barca”.
Take a Knee, inginocchiarsi contro il razzismo
Uno degli atti che ha ottenuto un riconoscimento quasi universale contro il razzismo è quello di inginocchiarsi, conosciuto come Take a Knee. Il gesto fu inizialmente eseguito da Martin Luther King e Ralph Abernathy, fondatore insieme a King della Sourthern Christian Leadership Conference. I due afroamericani, all’inizio di febbraio del 1965, si inginocchiarono in pregheria a Selma, Alabama, a seguito dell’arresto da parte della polizia di 250 manifestanti che si stavano dirigendo nella contea di Dallas.
Il gesto venne in qualche modo ripreso nel 2016 da Colin Kaepernick, ex quarterback dei San Francisco 49ers, durante l’inno americano all’inizio della stagione di NFL, ed è divenuto ben presto un gesto di solidarietà in tutto il mondo con le lotte contro il razzismo negli Stati Uniti ma non solo. Difatti, a dispetto di quanto si creda, i fenomeni di razzismo nei confronti di neri, ispanici, asiatici, nativi americani non avvengono solamente negli Stati Uniti.
Basti ricordare l’atto terroristico di Luca Traini a Macerata, in Italia, dove rimasero ferite con un colpo d’arma da fuoco sei persone di origine sub-sahariana, oppure i quotidiani episodi di aggressione, violenza verbale e fisica nei confronti di immigrati. Inginocchiarsi, kneeling, è pertanto un gesto simbolico di solidarietà, di vicinanza a chi ogni giorno lotta per vedersi riconosciuto il diritto a non essere discriminato per il colore della sua pelle. Per il diritto ad essere parte di una comune umanità.