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Cercare di capire l’insieme di avvenimenti ed intrecci tra cause di lungo e breve termine, oltre che le conseguenze, di quella polveriera politico-sociale che è l’Italia uscita dalla Grande guerra non è mai semplice. Di certo è fondamentale capire come un’esperienza come il ‘biennio rosso’ si leghi fortemente ancora al clima del conflitto bellico, così come quello sociale – quasi una guerra civile – che segue direttamente alle agitazioni deve essere inserito in un più ampio contesto politico e culturale di quegli anni. Non va inoltre dimenticato che proprio in questi anni iniziano a palesarsi questioni che non sono completamente avulse dai vent’anni di governo fascista che seguono.
La fragilità della società nazionale
La fine della Grande Guerra per lo Stato italiano comporta dure conseguenze sia in campo politico che in quello sociale ed economico. Gli anni che intercorrono tra la cessazione delle ostilità e la presa del potere del fascismo fanno venire alla luce contraddizioni e tensioni che erano germinate durante il conflitto. Sebbene rimaste compresse a causa della sempre maggiore militarizzazione del paese, trovano ora spazio grazie al tentativo di ristabilire le indispensabili condizioni per un libero confronto politico, oltre che di un semplice ritorno alla normalità.
Esplodono così tutti i problemi di fondo che caratterizzano la società italiana di inizio Novecento: la fragilità di un sistema politico che ha relegato il paese reale ad una posizione inferiore; il sempre maggiore distacco tra classe dirigente e classi subalterne, condannate ad una arretratezza politica e che si trovano ora impreparate ad affrontare le nuove sfide poste dal suffragio universale maschile (introdotto poco prima del conflitto mondiale dal governo Giolitti); i limiti dell’industrializzazione che rimane circoscritta in alcune aree del nord, evidenziando ancora di più i problemi legati alla cosiddetta questione meridionale, cui è fortemente legata la questione dei contadini delle campagne; la sempre più gravosa condizione di povertà in cui si trovano i ceti popolari che avevano sempre dovuto fare i conti con un arretrato e arcaico sistema assistenziale e previdenziale e che ora si ritrovano a fare i conti anche con le conseguenze della Grande Guerra, in primis l’ecatombe di migliaia di vite sui campi di battaglia.
Ci sarebbe da aggiungere un ultimo, ma non meno importante, aspetto: ovvero quello psicologico. La guerra per come è stata presentata durante la diatriba tra interventisti e non interventisti prima del 1915 e gli eventi bellici in sé hanno cambiato molto il modo di sentire e di pensare di coloro che sono stati coinvolti. Oltre al superamento delle barriere materiali, il conflitto, forse prima che il suffragio universale, butta le masse prepotentemente nella politica, anche se una politica di guerra.
Le aspettative che si generano durante gli hanno precedenti, ora vengono clamorosamente deluse. Sia una fazione che l’altra (semplificando il campo delle idee di quegli anni possiamo dire che il grosso della battaglia politica avveniva tra nazionalisti di vario tipo e socialisti, mentre la classe liberale si trova già in caduta libera) speravano che la guerra si tramuti in un fatto rivoluzionario tale per cui si possa cambiare l’ordine costituito ritenuto ingiusto.
L’esperienza della delegazione italiana a Versailles e le dure conseguenze economiche dovute ad una difficile riconversione rappresentano in questo momento, per una serie di plurime cause che sono più di lunga portata, l’ennesima gettata di benzina sul fuoco che fanno esplodere definitivamente la situazione. Il risultato più evidente di questa situazione è sicuramente quello che viene chiamato comunemente ‘biennio rosso’.
1919 – 1920: il “biennio rosso”
Il 1919 ed il 1920 sono anni caratterizzati da un ciclo di lotte sociali senza precedenti, poiché coinvolgono l’intero corpo sociale del paese. Aumentano fortemente il numero degli scioperanti e degli scioperi sia nelle città che nelle campagne. Gli scioperi di operai e contadini aumentano praticamente del 500% rispetto all’anno precedente.
L’ondata rivendicativa, che viene incanalata dalle organizzazioni sindacali, inizia nelle città dove gli operai si muovono collettivamente per chiedere un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (anche a causa dell’aumento dei prezzi e del costo della vita in generale dovuto all’ondata inflazionistica avvenuta dopo la fine della guerra), la riduzione della giornata lavorativa a 48 ore settimanali, l’adeguamento dei salari reali e commissioni interne alle fabbriche.
I primi risultati ottenuti dai metalmeccanici, che riescono a conquistare la riduzione delle ore a paghe invariate, apre le porte a riforme simili in altri settori e soprattutto al raggiungimento di un nuovo rapporto tra imprenditori e lavoratori tramite la contrattazione collettiva nazionale. Oltre che la politicizzazione delle lotte sindacali, il fermento si allarga presto anche alle campagne dove i contadini chiedono ora le ricompense e i benefici che erano stati promessi loro durante la guerra.
Suddividendo geograficamente l’Italia in tre zone agricole si possono notare tre differenti situazioni e motivi di lotta:
- nel nord Italia dove vi è un’agricoltura capitalistica e la figura prevalente è bracciante le battaglie vengono dirette da Federterra e già nella primavera del 1919 i lavoratori ottengono la giornata lavorativa di otto ore, mentre nell’estate l’aumento delle retribuzioni;
- nel centro Italia i mezzadri si organizzano in leghe ‘rosse’, di ispirazione socialista, e in leghe ‘bianche’, di ispirazione cattolica, portando avanti lunghe agitazioni per rompere la secolare subordinazione al ‘padrone’ e raggiungere miglioramenti rinegoziando i patti: la parte di raccolto spettante ai contadini è ora aumentata, mentre aumentano le aliquote a carico del padrone; viene introdotto il principio di giusta causa, aumentando la libertà di disdetta; e vengono abolite tutte le prestazioni servili, le cosiddette corvées, alle quali sono obbligati i mezzadri;
- nel Mezzogiorno gli scioperi agrari non sono invece all’ordine del giorno, anche perché il pensiero socialista della socializzazione della terra su cui si basano molte associazioni sindacali al sud non trova molto seguito. Vi si trova comunque una forma particolare di di agitazione contadina, ovvero l’occupazione dei latifondi: esse sono il risultato di un’adesione agli scioperi dovuta ad una spinta emotiva più che per una coscienza politico-sindacale, da cui consegue una protesta ed una organizzazione frammentaria, non coordinata e confusa.
L’occupazione delle fabbriche
La conflittualità di quegli anni trova il picco più alto in due grandi agitazioni verificatesi nel 1920: lo ‘sciopero delle lancette’ e l’occupazione delle fabbriche. Esse sono fondamentali poiché rappresentano un chiaro tentativo di legare le rivendicazioni immediate a questioni di più larga scala, ovvero il potere all’interno delle fabbriche e nella stessa società.
Il primo episodio, di cui sono protagoniste le maestranze metalmeccaniche e automobilistiche di Torino, prende il nome da un tentativo, in concomitanza con il ristabilimento dell’ora legale (19 aprile 1920), di ritardare la l’inizio della giornata lavorativa di un’ora. Nonostante l’occasionalità della motivazione, lo scopo precipuo della protesta è un altro. La reale causa dello sciopero è il tentativo degli industriali di soffocare l’esperienza delle commissioni interne, istituite l’anno precedente, e dei nuovi consigli di fabbrica.
Lo scopo quindi che gli agitatori perseguono va al di là della semplice rivolta per la singola giornata lavorativa. I nuovi consigli di fabbrica, sorti su ispirazione delle teorie ordinoviste (che si rifanno alle teorie della rivista “Ordine nuovo”, il cui maggiore idolo è sicuramente Antonio Gramsci), vengono eletti da tutti i lavoratori di ogni reparto, sia che essi siano rappresentati dai sindacati o meno. La rappresentatività di questi organi risulta quindi molto maggiore delle commissioni interne.
Il tentativo di questi organi di svolgere una funzione di controllo e e orientamento dell’attività produttiva, dando alla classe operaia una nuova dimensione all’interno della società nazionale, oltre che nelle fabbriche, non può che suscitare la forte reazione degli industriali. Sono giorni di duro scontro.
L’agitazione si trasforma presto in sciopero generale. Tuttavia, il mancato appoggio della direzione del Partito socialista italiano e della Confederazione generale del lavoro (CGL), perché non condividono l’ispirazione politica di fondo della sollevazione che vuole far leva anche sui non sindacalizzati, porta alla sconfitta dei lavoratori e l’inizio della parabola discendente del movimento operaio, mentre gli industriali esautoravano commissioni e consigli di fabbrica, riprendendo una posizione di forza nel conflitto.
Il secondo episodio, invece, avviene il mese seguente (maggio 1920) a causa dell’intransigenza degli industriali davanti alle richieste di miglioramenti salariali e normativi richiesti dai metalmeccanici, raccolti nella FIOM. Il sindacato tenta con la via dell’ostruzionismo, tentando di limitare la produzione, ma la reazione degli industriali non si fa attendere e annunciano le serrate. A questo punto la FIOM decide di dare l’ordine di occupazione delle fabbriche che dalla città di Milano diventa una occupazione su tutto il territorio nazionale.
Nonostante le pressioni degli industriali, il presidente del consiglio Giolitti preferisce evitare lo scontro, mediando un accordo mediazione fra la Confindustria e la Confederazione Generale del Lavoro siglato a Roma il 19 settembre 1920: i lavoratori ottengono i miglioramenti economici e sindacali, tuttavia il punto fondamentale dell’accordo, che prevede un progetto di legge relativo all’intervento degli operai sul controllo tecnico e finanziario dell’amministrazione delle aziende rimane lettera morta.
Questo punto, caduto nel dimenticatoio, non può che segnare l’insuccesso del movimento operaio e socialista e dei loro presupposti se non totalmente rivoluzionari, per lo meno riformistici. Conseguenza diretta di questi problemi sarà un mutamento nei rapporti di forza tra datori di lavoro e operai, soprattutto nell’immediato futuro, quando i primi si organizzeranno con milizie private al fine di proteggere la produzione, facendo cadere la nazione in un clima di guerra civile.
Lo scontro tra socialisti e fascisti ed il tentativo di pacificazione
Il ‘biennio rosso’ si lega fortemente alla democratizzazione della società e alla comparsa dei grandi partiti di massa nel primo dopoguerra, soprattutto dopo la legge elettorale proporzionale voluta dal governo Nitti, che stravolge gli equilibri politici in Parlamento. Tuttavia questi due anni di agitazioni e scontri, anche perché fortemente politicizzati dalle sinistre, non trovano l’appoggio di una parte della società. La lotta per le rivendicazioni sociali si trasforma in poco tempo in una lotta politica nelle piazze, che vede contrapposte le sinistre ed il nazionalismo nelle sue varie forme.
Quando il governo Nitti presenta le dimissione nel 1920 a causa dell’alto grado di instabilità che si può riscontrare nel Paese, sembra di essere sull’orlo della guerra civile. I proprietari terrieri e gli industriali, infatti, decidono di ricorrere a milizie private per salvaguardare i propri interessi nei confronti delle lotte dei movimenti sindacali che vanno ad intaccare la produzione degli impianti. Spicca in queste situazioni il movimento fascista, non ancora diventato partito, per le azioni squadristiche di stampo militare molto efficaci. Il successo del fascismo non si limita di certo a questo, tuttavia, è innegabile il fatto che fino all’agosto del 1922, Mussolini presenterà sempre il movimento come l’antidoto del virus social-bolscevico.
Il primo tentativo di risolvere la situazione viene fatto nel 1921 da Giolitti. Diventato presidente del consiglio, dopo il dimissionario Nitti, il liberale piemontese tenta di assorbire il fascismo nella propria maggioranza per equilibrare le forze in parlamento, tentando parallelamente di snaturarlo e di renderlo, in un certo senso, innocuo. Il progetto di Giolitti viene distrutto sul nascere, poiché dopo le elezioni del maggio si trova a dover governare una maggioranza eterogenea, di cui 35 deputati fascisti. Resosi conto dell’impossibilità di governare in tali condizioni, Giolitti rassegna le dimissioni.
Il secondo ed ultimo tentativo di sedare il clima da guerra civile che si respira in quegli anni in Italia viene fatto dal nuovo presidente del consiglio Ivanoe Bonomi. Quest’ultimo tenta di recuperare il fascismo nell’area della legalità tramite un patto di pacificazione con i socialisti. Il patto, che viene firmato nell’agosto del 1921, mette sostanzialmente d’accordo le due realtà politiche, anche quella fascista. Mussolini, infatti, in quel periodo ha intenzione di dare un nuovo volto legalitario al movimento.
Tuttavia, al tempo Mussolini non gode di una comprovata leadership all’interno del movimento. Il fallimento del patto di pacificazione avviene tramite un dietrofront del duce, dopo le forti pressioni dei ras provinciali, di cui lui ancora deve tenere conto in quanto primus inter pares. Sorge in questo momento un conflitto che tornerà e rimarrà incompiuto negli anni, ovvero il distacco tra la politica centralizzatrice del fascismo al potere e il provincialismo dei ras.
Il fallimento dell’accordo dovuto ad una crisi all’interno del movimento fascista comporta il susseguirsi delle violenze squadristiche nei confronti di un movimento operaio e socialista in completa crisi, anche a livello ideale e organizzativo dopo la scissione dovuta prima alla creazione del Partito comunista italiano a Livorno e in seguito con la creazione del Partito socialista unitario.
Mussolini si prende la rivincita pochi mesi dopo, riuscendo a convertire il movimento in un partito nel novembre del 1921. Atto di cui si sentiranno le conseguenze durante il corso del Ventennio. Il colpo finale del fascismo al socialismo e grazie al quale Mussolini potrà proporsi per la conquista del potere è il fallimento dello sciopero ‘legalitario’ indetto dalle sinistre nei primi giorni dell’agosto 1922.
L’insuccesso viene dunque presentato come la definitiva vittoria del fascismo, garante dell’ordine e della nazione italiana, contro il bolscevismo, mentre l’offensiva fascista, oltre che tentare di chiudere i giochi con le sinistre, inizia una serie di occupazioni di città con scenografiche adunate di camicie nere. Il fascismo, operando da stato nello Stato, inizia a preparare così la strategia che lo porterà, politicamente e bellicosamente, da lì a pochi mesi a marciare contro e su Roma.
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- N. Banin, Il biennio rosso 1919-1920, Helicon, 2013
- S. Giacometti, Il soggetto della rivoluzione. Antonio Gramsci dalla Grande Guerra al biennio rosso, Mimesis, 2016
- G. Sabbatucci (a cura di), La crisi italiana del primo dopoguerra. La storia e la critica, Laterza, 1976
- F. Fabbri, Le origini della Guerra civile. L’Italia dalla Grande guerra al fascismo (1918-1921), Utet, 2009
- R. De Felice, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere (1921-1925), Torino, Einaudi, 2019