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La battaglia di Mogadiscio del 1993 nell’operazione Restore Hope

Narrato in un celebre film di Ridley Scott ed in una sua recente docu-serie, l’intervento americano in Somalia da umanitario si trasformò in impositivo. I feroci combattimenti con il Signore della Guerra Aidid e le conseguenti perdite di vite umane spinsero gli Stati Uniti a disimpegnarsi e frenarono le successive immediate missioni di pace delle Nazioni Unite e l’idea di un possibile modello di democrazia liberale esportabile in ambito mondiale

di Francesco Caldari
13 Maggio 2025
TEMPO DI LETTURA: 11 MIN

CONTENUTO

  • Gli Stati Uniti vincitori della guerra fredda. Il rilancio del ruolo dell’ONU
  • La Somalia post-1991: un esempio di fallimento statale
  • L’intervento ONU e USA in Somalia
  • UNOSOM II: La seconda fase dell’intervento ONU in Somalia
  • Operazione “Gothic Serpent”
  • Il fallimento dell’operazione militare

Gli Stati Uniti vincitori della guerra fredda. Il rilancio del ruolo dell’ONU

Spesso nel corso degli ultimi anni le narrazioni giornalistiche ci parlano di “Stati falliti”. Il significato è chiaro: in ambito internazionale accade che una nazione non sia più in grado di svolgere le sue funzioni di base, come garantire la sicurezza interna ed esterna, fornire servizi pubblici essenziali quali sanità ed istruzione, e mantenere lo stato di diritto. Il termine failing state si riferisce quindi a uno Stato che sta progressivamente perdendo il controllo e la capacità di svolgere queste attività fondamentali, e può dirsi sull’orlo del collasso. Esempi includono Afghanistan, Siria, Sudan, Libia, Yemen.

Il 1993 portava con sé una eredità di speranza: era caduto il “Muro di Berlino” e si era dissolto per consunzione l’impero sovietico. La vittoria della Guerra Fredda da parte degli Stati Uniti spinse il politologo americano Francis Fukuyama a scrivere un saggio che dice molto di quel periodo: La fine della storia e l’ultimo uomo (The End of History and the Last Man, 1992) ebbe enorme risonanza. Vi si affermava che, con la caduta del comunismo, la democrazia liberale occidentale aveva trionfato come modello finale e universale. Oggi possiamo dire che si trattava di una tesi discutibile, anche perché sappiamo che era prematura e non aveva tenuto conto dello sviluppo economico e dell’importanza geopolitica che avrebbe assunto un’altra potenza comunista: la Cina.

Ma sulle ali dell’entusiasmo di quegli anni l’ONU assunse un rinnovato ruolo, sotto la spinta di un ordine internazionale unipolare con l’egemonia degli USA, definitivamente superpotenza globale indiscussa. Con la fine della paralisi del Consiglio di Sicurezza dovuta al veto incrociato, l’ONU cominciò a promuovere interventi in situazioni di crisi interne agli Stati, e non solo tra Stati sovrani. Questo rappresentò una nuova dottrina d’azione, fondata sul principio della “responsabilità di proteggere”. Ecco quindi una maggiore enfasi sulle Missioni di pace (peacekeeping) che vennero ampliate, ma spesso – come vedremo – con esiti contrastanti.

La Somalia post-1991: un esempio di fallimento statale

Appena due anni prima, nel 1991, la Somalia era precipitata nel caos: era stato rovesciato il dittatore Siad Barre, un ufficiale dell’esercito che nel 1969, dopo l’assassinio del presidente Abdirashid Ali Shermarke, aveva preso il potere con un colpo di Stato militare, instaurando un regime autoritario di stampo socialista ispirato al modello sovietico e maoista, con tratti nazionalistici africani. Il suo ambizioso progetto di modernizzazione, alfabetizzazione e laicizzazione sfociò in autoritarismo e clanismo.

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Dobbiamo ricordare che la Somalia era stata colonia italiana dal 1889 al 1941, e dal 1950 Amministrazione fiduciaria ONU sotto l’Italia per i successivi dieci anni. Per tale motivo anche dopo l’indipendenza il nostro Paese manteneva forti legami con la Somalia post-coloniale, sicché ne era uno dei principali partner economici e politici. Negli anni ’80, la situazione nel Paese del Corno d’Africa si andò deteriorando: si fece più feroce la repressione contro il clan Isaaq nel nord (oggi Somaliland), esplosero corruzione e nepotismo, e la conseguenza fu la perdita del sostegno popolare. Dopo una lunga guerra civile, Barre fu rovesciato (fuggì prima in Kenya, poi in Nigeria, dove morì nel 1995).

Quando lo Stato somalo collassò non vi era più un governo centrale, solo frammenti di autorità sparse ed in lotta tra loro. Il potere passò nelle mani di signori della guerra locali, a capo di milizie armate basate su clan. È opportuno precisare che in Somalia la società tradizionale è organizzata in clan patrilineari, ovvero gruppi genealogici che si basano sulla discendenza da un antenato comune (vero o mitico). Si tratta di strutture identitarie molto forti, che spesso sostituiscono lo Stato in termini di protezione, giustizia e potere.

Il warlord più noto, a capo della così detta Alleanza Nazionale Somala che controllava gran parte di Mogadiscio era Mohamed Farrah Aidid (del Clan Hawiye-Habr Gedir), che cercò di imporsi come leader nazionale, basando la sua azione su autoritarismo e violenza. Suo principale competitore nella capitale era Ali Mahdi Mohamed, del Clan Hawiye–Abgal, nominato presidente “provvisorio” nel 1991 da una parte dell’opposizione. Egli controllava una porzione diversa di Mogadiscio rispetto ad Aidid. I due si fecero la guerra per anni, dividendo la capitale in zone di influenza. Le milizie si finanziavano con estorsioni, traffici illegali, controllo degli aiuti umanitari. Il Paese divenne uno dei simboli del “fallimento statale” più completo del dopoguerra.

L’intervento ONU e USA in Somalia

La situazione divenne drammatica. Milioni di persone soffrivano la fame e la malnutrizione, poiché si faceva strada una forte carestia. Le spedizioni di aiuti umanitari internazionali venivano intercettate dalle milizie armate al soldo dei signori della guerra, che esercitavano una deliberata interferenza con gli sforzi di soccorso. Per far fronte a questa situazione critica, minacciata dalla carestia e caratterizzata da condizioni di insicurezza che ostacolavano lo svolgimento della missione, le Nazioni Unite decisero di intervenire.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU stabilì un embargo su tutte le spedizioni di armi e autorizzò il Segretario generale a prendere contatto con le parti per ottenere la cessazione delle ostilità e consentire la distribuzione degli aiuti. Dopo la firma di un impegno e una tregua nel marzo 1992, le Nazioni Unite con la risoluzione n. 751 del 24 aprile autorizzarono l’invio di una missione denominata UNOSOM I (United Nations Operation in Somalia) che prevedeva l’impiego di 4000 militari e circa 200 civili, con l’obiettivo di sorvegliare la fragile tregua tra le fazioni e coadiuvare le varie organizzazioni non governative (ONG) presenti.

Tuttavia, l’UNOSOM I, protrattasi dall’aprile al dicembre 1992, risultò infruttuosa, non riuscendo a conseguire i risultati sperati, a causa del peggiorare della situazione e degli attacchi dei miliziani. Ciò portò all’avvio dell’operazione successiva, UNITAF/Restore Hope, a dicembre 1992. Con la risoluzione n. 794 del 3 dicembre, fu autorizzato l’invio di una coalizione di forze di mantenimento della pace a guida statunitense. Il suo compito principale era garantire le condizioni per la consegna degli aiuti umanitari, proteggendo le distribuzioni di alimenti e stabilendo corridoi sicuri per gli aiuti, riducendo i saccheggi dei warlord.

Per la prima volta nella storia dell’ONU in questo contesto, fu autorizzato l’utilizzo di ogni mezzo necessario allo scopo, compreso il ricorso all’uso della forza. Inizialmente, regole di ingaggio restrittive prevedevano di evitare il disarmo forzato dei warlord per non esacerbare gli scontri, concentrandosi sulla sicurezza dell’aiuto. Tuttavia, le truppe americane non mancarono di contrastare le milizie ed identificare e sequestrare arsenali di armi.

UNITAF/Restore Hope vide una significativa cooperazione internazionale. Gli Stati Uniti ebbero la leadership e fornirono il contingente più numeroso (inizialmente sbarcarono circa 20.000 marine, e complessivamente 28.000 soldati americani furono impegnati nell’operazione) L’Italia partecipò con il secondo contingente più numeroso, denominato ITALFOR-IBIS, composto da 2.500 uomini. I militari italiani giunsero in Somalia nei giorni successivi allo sbarco dei marine americani, l’8 dicembre 1992. L’Italia – in virtù del passato che la legava a quella nazione – fu anche invitata a svolgere un ruolo di mediazione. UNITAF coordinò truppe da altre 13 nazioni.

L’operazione portò alla fine accelerata della carestia e al ripristino di infrastrutture chiave come pozzi, ponti e piste d’atterraggio. La missione prevedeva una transizione verso una successiva operazione ONU con un mandato più ampio. L’operazione UNITAF/Restore Hope si protrasse fino a marzo/maggio 1993, quando fu sostituita dall’UNOSOM II. Nonostante i successi iniziali nella stabilizzazione, l’operazione umanitaria “forzata” continuava ad incontrare diversi ostacoli. Non solo la resistenza delle milizie, ma anche una strisciante percezione neocoloniale che iniziava a serpeggiare tra la popolazione, il tutto collegato a difficoltà diplomatiche.

Una foto collettiva dei soldati del 75° Reggimento Ranger, 3° Battaglione, Compagnia Bravo (pubblico dominio)

UNOSOM II: La seconda fase dell’intervento ONU in Somalia

UNOSOM II si collocava in diretta continuità temporale con le missioni precedenti. Il peggiorare continuo della situazione, con l’aumento delle manifestazioni popolari contro i Caschi blu (il termine con il quale vengono comunemente indicati i militari delle varie Nazioni contribuenti nelle missioni ONU) e l’audacia crescente dei miliziani, indusse l’ONU ad autorizzare una nuova fase. La risoluzione n. 814 del 26 marzo 1993 fornì un mandato più ampio e aggressivo. Le operazioni iniziarono formalmente il 4 maggio. UNOSOM II aveva il fine di disarmare le fazioni in lotta, ripristinare la sicurezza locale e favorire l’eventuale reinsediamento di un governo legittimo. I Caschi blu erano autorizzati all’uso della forza per perseguire l’obiettivo del disarmo. Si passava quindi ad una postura più muscolare di peace enforcement (imposizione della pace). La forza complessiva era di 28.000 uomini, di cui 22.000 militari e 6.000 tra personale logistico e civile. I contingenti provenivano da un gran numero di nazioni, Italia compresa (missione IBIS II).

L’operazione UNOSOM II fu segnata da diversi scontri violenti e intensi combattimenti, a partire dalla “battaglia della radio” (5 giugno), in cui furono uccisi 23 militari pakistani. Il carattere prevalentemente militare dell’operazione iniziò ad emergere in maniera evidente. Seguì la “battaglia del pastificio” (2 luglio), il primo combattimento italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale, in cui i nostri militari caddero in un’imboscata, che causò la morte di 3 di loro ed il ferimento di oltre venti. Essi erano impegnati in una attività di rastrellamento, alla ricerca di armi e munizioni nel quartiere di Haliwaa, nel cuore del territorio controllato da Mohamed Farah Aidid, nei dintorni del posto di controllo/check point “Pasta”, situato all’incrocio tra la via imperiale e la via 21 Ottobre, così chiamato per la vicinanza ad un vecchio pastificio abbandonato sovrastante il quartiere. Esso fungeva da postazione di controllo di uno di sei varchi di accesso ad una sorta di zona di sicurezza che si estendeva sino al porto.

Il rastrellamento raggiunse l’obiettivo: venne scoperto un grosso deposito di armi e tre somali furono arrestati. Gli abitanti del quartiere iniziarono a riversarsi per le strade, prima lanciando insulti verso i paracadutisti italiani, poi iniziò un’intensa sassaiola e furono avvertiti spari. L’ultima parte della colonna di mezzi italiani, che si stava allontanando avendo terminato il compito, fu fatta oggetto di colpi, tali da innescare un intenso scontro a fuoco. Il primo a cadere fu il Sergente Maggiore Incursore Stefano Paolicchi. I veicoli avanzati tornarono indietro, trovandosi nel cuore di una vera battaglia. I miliziani con un lanciarazzi colpirono un mezzo blindato, causando la morte del paracadutista Pasquale Baccaro. Nel corso degli scontri venne colpito mortalmente anche il Sottotenente Andrea Millevoi.

A seguito della Battaglia del Pastificio vi furono tensioni tra il comando italiano e quello delle Nazioni Unite. Il Generale italiano Loi si oppose alla richiesta del Comando ONU di riconquistare il giorno successivo il Check-Point Pasta con l’uso della forza. Le truppe italiane ne riacquisirono il controllo solo il 9 luglio, dopo delicati negoziati. A seguito delle trattative condotte, gli americani ritennero che il nostro contingente avesse stretto un accordo segreto con Aidid. In un contesto più ampio, il comando italiano aveva anche criticato le direttive aggressive di UNOSOM II, ritenute responsabili dell’escalation della violenza dopo maggio.

Operazione “Gothic Serpent”

 

Il prolungato scontro nei pressi del “Pasta” fece da premessa (ma non da lezione acquisita) all’evento più cruento successivo: la battaglia di Mogadiscio (3-4 ottobre 1993), svoltasi nel corso dell’operazione “Gothic Serpent“, che mirava alla cattura dei luogotenenti di Aidid, e che contò pesanti perdite da entrambe le parti. Questa è conosciuta anche come la Battaglia del Mar Nero dai veterani statunitensi e il Giorno dei Rangers dai somali. L’episodio è stato reso celebre anche dal nome “Black Hawk Down“, a causa dell’abbattimento di due elicotteri americani di quel tipo e di un film del regista Ridley Scott del 2005, recentemente seguito da un documentario – prodotto dallo stesso Scott – in visione sulla piattaforma Netflix.

Il tutto iniziò con un’azione pianificata per il pomeriggio del 3 ottobre, che aveva l’obiettivo immediato della cattura di alcuni dei più importanti luogotenenti di Aidid, localizzati riuniti in un palazzo nel cuore di Mogadiscio, tra il Mercato di Bakara e l’Hotel Olympic. Ciò, come accennato, avveniva nell’ambito di un’operazione condotta dai corpi speciali degli Stati Uniti sin dal 22 agosto, che mirava a disarticolare lo Stato Maggiore della Alleanza Nazionale Somala (SNA) ed a catturare lo stesso Mohamed Farrah Aidid.

La Task Force Ranger statunitense era composta da Forze speciali (75º Reggimento Rangers, la Delta Force e il 160° SOAR (unità elicotteristica)). Nella successiva fase di soccorso presero parte anche truppe pakistane e malesi. All’inizio dell’operazione, la forza statunitense contava 160 soldati, 19 velivoli e 12 veicoli (di cui 9 Humvees, un veicolo da trasporto multiuso ad alta mobilità). La forza di salvataggio successiva arrivò a circa 3000 uomini. Dall’altro lato, la SNA di Aidid contava tra i 2000 e 4000 uomini all’inizio dei combattimenti, dotati di armi automatiche, mitragliatrici pesanti e lanciarazzi anticarro (RPG). Utilizzavano veicoli armati noti come “techniques”. I civili vennero usati come scudi umani o si mischiarono ai combattenti.

La mappa di Mogadiscio ed i luoghi del combattimento (pubblico dominio)

Il piano prevedeva di calare i Rangers con corde dagli elicotteri MH-60 Black Hawk attorno all’edificio “target” (obiettivo) per fare da “cintura di sicurezza”, mentre elicotteri MH-6 Little Bird avrebbero calato i Delta Force sul tetto per un “eli-assalto”. Un convoglio di veicoli a terra avrebbe poi recuperato le truppe e i prigionieri. Il piano era considerato routine ed era già stato usato con successo in circostanze simili. Alle 15:32 del 3 ottobre ebbe avvio l’operazione. Le forze Delta dopo essersi calate sul tetto fecero irruzione e federo prigionieri gli uomini riuniti, ma durante la fase di “estrazione” del personale e dei catturati un primo elicottero Black Hawk Super 6-1 fu colpito da un razzo RPG e precipitò. Un convoglio a terra si perse nelle strade strette e subì perdite mentre cercava di raggiungere il sito del primo schianto.

Poco dopo, un secondo Black Hawk Super 6-4, pilotato dal maresciallo Michael Durant, fu anch’esso colpito da un RPG e si schiantò a sua volta. Due tiratori scelti della Delta Force che si trovavano su un altro velivolo si offrirono volontari per difendere il sito dello schianto del Super 6-4, calandosi su questo. Riuscirono a salvare la vita a Durant prima di essere uccisi, mentre il pilota fu preso prigioniero. Con l’arrivo della notte, le forze americane si trovarono intrappolate e asserragliate in varie abitazioni vicine all’obiettivo “target” ed ai luoghi dove erano caduti gli elicotteri, mentre i Little Birds, attrezzati per la visione notturna (che invece i soldati a terra avevano lasciato alla base), fornirono supporto aereo. Si rese quindi necessaria una colonna di soccorso di grandi dimensioni, che incluse anche truppe pakistane e malesi, che giunse la mattina del 4 ottobre, ma l’evacuazione fu difficile e caotica, con alcuni soldati costretti a rientrare a piedi sotto il fuoco.

Il fallimento dell’operazione militare

La battaglia di Mogadiscio fu il punto di rottura. L’operazione si rivelò un fallimento per gli Stati Uniti e l’ONU, a causa dell’alto numero di perdite statunitensi, la cattura di un prigioniero (che verrà rilasciato dopo lunghe trattative) e le immagini dei corpi dei soldati americani trascinati per le strade di Mogadiscio, così come una intervista forzata allo stesso Durant mentre si trovava nelle mani del clan, che ebbero un impatto mediatico devastante in Occidente. L’Amministrazione Clinton decise di evitare ulteriori confronti militari e di stabilire una data di ritiro per le truppe statunitensi, che tornarono in Patria il 25 marzo 1994, seguite da altre truppe ONU (l’Italia aveva disimpegnato il proprio contingente IBIS II il 21 marzo precedente). L’operazione UNOSOM II si concluse ufficialmente nel marzo 1995 con l’evacuazione del personale rimanente (principalmente egiziani, pakistani e bengalesi) che avvenne con l’Operazione United Shield, supportata da una coalizione navale e aerea che incluse forze americane, italiane e pakistane.

Non mancarono naturalmente le analisi post-operazione, alla ricerca dei fattori controversi, tra cui spiccò una pianificazione approssimativa statunitense che aveva sottovalutato i somali – nonostante la “prova generale” degli insorgenti che risultò essere lo scontro con gli italiani del Check Point Pasta – e sovrastimato le capacità della Task Force, che pure mancava di equipaggiamento chiave come visori notturni e veicoli corazzati ed ebbe problemi di comunicazione. Il fatto poi che l’obiettivo strategico finale fosse la cattura di una singola persona (Aidid) rendeva la intera missione un fallimento se non fosse stata raggiunta, nonostante successi tattici, e così fu. Anche la carenza di “operazioni psicologiche” da parte della coalizione (psyops, ovvero attività mirate a influenzare a proprio favore il pensiero e il comportamento della popolazione per raggiungere gli obiettivi strategici) facilitò l’ostilità somala verso le forze ONU/USA: la battaglia fu vista da alcuni somali come una difesa della propria terra contro gli invasori, combattuta da veterani esperti.

In conclusione, UNOSOM II non riuscì a raggiungere l’obiettivo di riappacificare il paese e disarmare le fazioni. Le pesanti perdite subite dai contingenti internazionali, la percezione neocoloniale e il fallimento politico nel mediare tra i clan giunsero a minare la credibilità delle Nazioni Unite come forza di stabilizzazione, tanto che la missione contribuì a ridefinire in negativo l’approccio agli interventi internazionali. L’opinione pubblica mondiale iniziò a diffidare delle risoluzioni umanitarie armate. I feroci scontri avevano contribuito a creare la “sindrome somala”, una forte riluttanza negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali all’uso della forza per scopi umanitari, influenzando decisioni future come il mancato intervento in Ruanda, ove – nonostante la presenza di una missione ONU (UNAMIR) – un genocidio di una delle due componenti della popolazione da parte dell’altra non subì alcun freno dalla comunità internazionale.

Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!

  • I diavoli neri. La vera storia della battaglia di Mogadiscio, di Paolo Riccò (autore), Meo Ponte (a cura di), Longanesi, 2020.
  • La fine della storia e l’ultimo uomo, di Francis Fukuyama, UTET, 2020.
  • Black Hawk Down, di Mark Bowden, Corgi, 2000.
Letture consigliate
Francesco Caldari

Francesco Caldari

Concluso il servizio attivo in una forza di polizia, si dedica alla sua passione per la storia, convinto che personaggi definiti "minori" meritino le giuste attenzioni, poichè spesso hanno fornito il proprio contribuito al pari di quelli più noti. Ha conseguito la laurea triennale in Scienze della Sicurezza (Roma-Tor Vergata) e quella magistrale in Relazioni Internazionali (Genova), qui con una tesi sulla "cooperazione internazionale di polizia", argomento anche a carattere storico sul quale cura un blog ed un podcast.

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