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“Sono andato ad acquistare un’auto deliziosa. Non è come le automobiline per giocare che ti regalo, Taro. È piuttosto costosa. Ora la guido da solo, senza autista. Se tu fossi qui, ti porterei a fare tutti i giri che ti farebbero piacere”, Tadamichi Kuribayashi, da una lettera spedita dagli Stati Uniti a suo figlio Taro (tratto da Picture Letters from the Commander in Chief, VIZ Media, San Francisco, USA, 2007)
Esperienza negli Stati Uniti del Comandante della difesa di Iwo Jima

Il fato sa essere beffardo. Spesso si prende gioco della vita delle persone, ponendole di fronte a prospettive mai prima immaginate. Tadamichi Kuribayashi, con il grado di Tenente Generale dell’Esercito Imperiale giapponese, all’inizio del 1945 nel corso di un inconsueto colloquio personale ebbe direttamente dall’imperatore Hirohito, considerato una divinità, il compito di difendere l’isola di Iwo Jima dalla conquista dei marines statunitensi. Una quindicina di anni prima, mentre dal 13 aprile del 1928 con il grado di capitano si trovava negli States per un periodo di lavoro all’estero di un paio di anni, egli non avrebbe certo pensato che un giorno si sarebbe trovato a combattere in quella che è stata definita una delle battaglie più cruente della Seconda guerra mondiale contro coloro dai quali aveva appreso, con curiosità e stupore, una cultura ed un modo di vivere del tutto diverso dal suo.
Per i corsi frequentati presso l’Esercito americano ed il suo incarico di addetto militare alla propria ambasciata, aveva avuto occasione di girare in lungo ed in largo gli Stati Uniti e, oltre i rapporti che certo avrà inviato ai suoi superiori, il suo diario personale su questa realtà così diversa furono le struggenti e tenere lettere che spediva al figlio più grande, Taro, di soli tre anni, illustrate da disegni che chiese alla moglie Yoshii di commentare al piccolo. D’altronde, avrebbe voluto fare il giornalista, ma la sua provenienza (era discendente da una famiglia di samurai) aveva già scritto il suo destino di militare. Più tardi sarebbe stato uno dei pochi ufficiali giapponesi convinti che per la propria nazione dichiarare guerra all’America fosse stata una follia, consapevole – per averne avuta diretta esperienza – dell’enorme divario industriale tra i due paesi.
Il contesto storico e l’importanza strategica dell’isola di Iwo Jima
La battaglia di Iwo Jima, combattuta dal 19 febbraio al 26 marzo 1945, rappresenta uno degli scontri più sanguinosi e significativi della guerra del Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. Mentre la narrazione occidentale ha enfatizzato l’eroismo dei marines americani, sintetizzato dall’iconica immagine della bandiera issata sul Monte Suribachi (per altro replica di una azione avvenuta qualche ora prima e riproposta ad uso del fotografo della Associated Press), la battaglia ci è stata narrata dalla prospettiva giapponese da un regista “che più americano non si può”.
Flags of our fathers
Clint Eastwood, che noi italiani ricordiamo all’inizio della carriera come attore negli spaghetti-western di Sergio Leone, ha saputo evolvere sino a divenire un regista assai apprezzato, e di una certa sensibilità, avendo voluto affrontare nel 2006 una pagina di storia militare così importante come la battaglia di Iwo Jima da due punti vista, con due diversi film: quello dei marines (Flags of our fathers) ma anche quello dei difensori giapponesi (Letters from Iwo Jima), esplorando di questi ultimi le strategie difensive, le decisioni di comando e le esperienze dei soldati che difesero l’isola fino alla morte.
Per il Giappone, Iwo Jima non era una poco significante isola vulcanica nel Pacifico, detta “dello Zolfo”, ma rappresentava uno scudo avanzato per le isole metropolitane dell’Impero, un avamposto strategico la cui caduta avrebbe aperto la strada a un’invasione del territorio nazionale. La feroce resistenza opposta dai difensori giapponesi, che costò la vita a quasi tutti i 22.000 soldati nipponici oltre che a 6.800 americani, riflette l’importanza strategica e simbolica che l’isola rivestiva per l’Impero giapponese negli ultimi, disperati mesi di guerra.
Letters from Iwo Jima: il film sulla battaglia di Iwo Jima
Alla fine del 1944, l’Impero si trovava infatti in una situazione militare estrema. Sconfitto su tutti i fronti, aveva perso il controllo di territori strategici nel Pacifico e si preparava a difendere il territorio metropolitano. La caduta delle isole Marianne nell’estate del 1944 aveva provocato lo sfondamento della “linea interna di difesa” giapponese, comprendente le isole Caroline, Marianne e Ogasawara.
La perdita di Saipan, in particolare, aveva avuto conseguenze strategiche gravissime, poiché aveva permesso ai bombardieri strategici americani B-29 Superfortress di raggiungere il Giappone senza necessità di scali intermedi. In questo contesto, Iwo Jima, situata a metà strada tra le Marianne e Tokyo, assumeva un’importanza cruciale: in primis rappresentava una sentinella avanzata, essendo dotata di una stazione radar, sì da poter fornire un preavviso di circa due ore per gli attacchi aerei diretti verso il territorio metropolitano, permettendo alle difese antiaeree giapponesi di prepararsi adeguatamente.
Inoltre, era una base aerea, poiché ospitava due aeroporti (un terzo era in costruzione), che consentivano ai caccia giapponesi di intercettare i bombardieri americani. Le installazioni portuali dell’isola fungevano da punto di appoggio per le unità navali danneggiate, ed insieme a Okinawa, Iwo Jima costituiva l’ultima linea di difesa prima del territorio nazionale giapponese. Il suo controllo assumeva un valore simbolico oltre che strategico.
La strategia difensiva innovativa dei giapponesi a Iwo Jima
Nel maggio 1944, il tenente generale Tadamichi Kuribayashi fu convocato nell’ufficio del Primo Ministro, il generale Hideki Tōjō, e gli fu comunicato che era stato scelto per difendere Iwo Jima fino all’ultimo. L’importanza di questo incarico fu sottolineata quando Tōjō gli fece notare che gli occhi dell’intera nazione erano concentrati sulla difesa dell’isola. Pienamente consapevole delle implicazioni del compito, l’8 giugno 1944, dopo essere stato introdotto il giorno precedente alla presenza dell’imperatore, procedura del tutto anomala per un comandante di truppe, era in viaggio per trasformare Iwo Jima in una fortezza inespugnabile. La sua strategia difensiva rappresentò una rottura netta con la dottrina militare giapponese tradizionale.
Invece di concentrare le forze sulle spiagge per respingere gli invasori al momento dello sbarco, come era stato fatto in precedenti battaglie spesso con esiti disastrosi, egli optò per una difesa che potremmo definire “in profondità” che avrebbe massimizzato le perdite nemiche e ridotto le proprie. Fu una decisione che non fu presa senza opposizione: il precedente comandante, il tenente generale Hideyoshi Obata, aveva seguito la dottrina tradizionale, ordinando il posizionamento dell’artiglieria e la costruzione di casematte vicino alle spiagge. Anche la Marina Imperiale insisteva sulla difesa sul bagnasciuga.
Alla fine, Kuribayashi fece costruire alcune casematte sulla spiaggia, ma concentrò i suoi sforzi sulla creazione di un sistema difensivo sotterraneo, trasformando l’isola in una fortezza di straordinaria complessità, per il tramite di una rete di tunnel. Quasi 30 chilometri di gallerie intercomunicanti, profonde oltre 20 metri, collegavano centinaia di postazioni difensive, permettendo ai difensori di spostarsi al riparo dal fuoco nemico. Particolare attenzione fu dedicata alla ventilazione delle installazioni, poiché i fumi di zolfo naturalmente presenti sull’isola rappresentavano un pericolo costante per la salute dei soldati.

A ciò affiancò una serie di bunker e casematte. I giapponesi scoprirono che la cenere vulcanica nera presente in abbondanza sull’isola poteva essere convertita in cemento di qualità superiore, facilitando la costruzione delle fortificazioni. Le posizioni difensive furono rinforzate con calcestruzzo spesso fino a tre metri, in grado di resistere ai bombardamenti navali e aerei, mentre artiglieria, mortai e mitragliatrici erano posizionati sul Monte Suribachi e nelle alture a nord dell’aeroporto di Chidori in modo da essere al sicuro dal tiro navale e praticamente invisibili fino a quando non aprivano il fuoco. Nei lavori di scavo fu impiegato un quarto della guarnigione.
Inoltre, furono previste diverse tattiche innovative di combattimento: dalla imboscata calcolata, che permetteva agli americani assalitori di avanzare senza ostacoli per almeno un’ora, in modo che si cullassero in un falso senso di sicurezza (allo sbarco, solo quando le spiagge furono piene di uomini e mezzi, i giapponesi scatenarono un fuoco intensissimo), alla difesa statica e al fuoco incrociato. Kuribayashi in più vietò espressamente gli attacchi banzai suicidi, che erano stati la norma nelle precedenti battaglie del Pacifico. Sebbene considerati onorevoli nella tradizione militare giapponese, si erano rivelati assai dannosi dal punto di vista tattico.
Insomma, gli ordini erano di costringere gli americani a una sanguinosa lotta di logoramento, uomo per uomo, vita per vita. La battaglia si concluse con il quasi totale annientamento della guarnigione, con soli 216 prigionieri. I soldati vivevano principalmente nel vasto sistema di tunnel e bunker. Tali spazi sotterranei, sebbene offrissero protezione dai bombardamenti, erano angusti e sovraffollati, con scarsa ventilazione (complicata dalla presenza di fumi di zolfo), umidità costante e oscurità quasi permanente.
Con il progredire della battaglia, le condizioni peggiorarono drasticamente, a causa della grave scarsità di acqua potabile (l’isola non aveva sorgenti naturali), del razionamento severo del cibo, della mancanza di medicinali per i feriti e delle munizioni limitate. L’isolamento fisico e psicologico fu un aspetto cruciale dell’esperienza dei soldati, con l’impossibilità di evacuare i feriti, comunicazioni limitate con il comando centrale e la cognizione crescente di essere stati “abbandonati” a un destino di morte per una causa superiore.
Battaglia di Iwo Jima: le Decisioni di comando
Nonostante la sua ammirazione per gli Stati Uniti e la consapevolezza dell’inevitabile sconfitta, Kuribayashi dedicò anima e corpo alla difesa. Il suo senso del dovere verso l’imperatore e la patria gli imponeva di difendere l’isola fino all’ultimo, cercando di infliggere il massimo numero di perdite al nemico. Egli seppe gestire con abilità le limitate risorse a sua disposizione. La forza della guarnigione, anche grazie a rinforzi provenienti da isole già perse, fu portata a circa 12.700 uomini. Il 10 agosto 1944, il contrammiraglio Rinosuke Ichimaru raggiunse Iwo Jima con 2.216 marinai, che furono integrati nella difesa. Intanto, entro la fine di luglio, erano stati evacuati tutti i civili, sì da diventare esclusivamente una fortezza militare. Kuribayashi impose un severo razionamento di cibo, acqua e munizioni.
Al momento della battaglia, il comandante mantenne un controllo rigoroso sulle sue forze. Stabilì il suo posto di comando nella parte settentrionale, a circa 500 metri a nord-est del villaggio di Kita e a sud di Kitano Point. Questa installazione, un vero e proprio bunker posto 20 metri sottoterra, consisteva in grotte di varie dimensioni, collegate da 150 metri di tunnel. Da qui, mantenne le comunicazioni con il comando centrale in Giappone il più a lungo possibile, inviando rapporti sulla situazione e ricevendo ordini. Riuscì per quanto possibile, man mano che la battaglia progrediva, ad adattare le sue tattiche alla situazione, pur mantenendo la strategia generale di difesa in profondità.

Ma nelle fasi conclusive della battaglia, quando la sconfitta era ormai inevitabile, Kuribayashi prese decisioni finali coerenti con il codice d’onore samurai: con le risorse ormai esaurite, il 16 marzo 1945 decise che rimaneva un ultimo attacco, che si tenne il 26 marzo. Alcune fonti (e lo stesso film di Eastwood, molto ben documentato) suggeriscono che combatté fino alla fine con i suoi soldati. Altri sono propensi a ritenere che egli, come era tradizione per gli alti ufficiali, si diede la morte facendo seppuku (da noi più noto come harakiri). Quello che è certo è che inviò un ultimo messaggio al quartier generale imperiale: “La situazione è diventata estremamente critica. La forza d’attacco nemica è schiacciante…Ci prepariamo a combattere fino all’ultimo uomo.” Il suo corpo non è stato ritrovato.
Il significato storico della battaglia dal punto di vista giapponese
La battaglia di Iwo Jima, vista attraverso la prospettiva giapponese, rivela non solo una straordinaria determinazione e ingegnosità tattica, ma anche il tragico costo umano di una guerra che stava volgendo al termine. Le decisioni di Kuribayashi, che ruppe con la dottrina militare tradizionale, si rivelarono efficaci nel massimizzare le perdite nemiche e prolungare la resistenza ben oltre le previsioni americane. Le esperienze dei soldati giapponesi e la loro resistenza fino alla morte rappresentano un capitolo fondamentale nella storia della guerra del Pacifico, che merita di essere compreso nella sua complessità e nelle sue sfumature umane. Basti pensare che due soldati, Yamakage Kufuku e Matsudo Linsoki, restarono nascosti nelle gallerie, “arrendendosi” solo sei anni più tardi.
Sebbene l’isola alla fine cadde, la strenua resistenza giapponese causò pesanti perdite agli americani (oltre 6.800 morti e 19.000 feriti) e ritardò significativamente l’avanzata verso il Giappone. Le pesanti perdite subite a Iwo Jima (e successivamente a Okinawa) contribuirono alla decisione di utilizzare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, piuttosto che procedere con un’invasione terrestre, che si prevedeva avrebbe causato centinaia di migliaia di vittime.
In Giappone, la memoria della battaglia di Iwo Jima è complessa. Il generale fu insignito solo nel 1967 del Gran Cordone dell’Ordine del Sol Levante. Questa decorazione – uno degli onori più prestigiosi della nazione – riconosceva la sua leadership e il suo servizio, inclusa la difesa di Iwo Jima. Nella storiografia occidentale la prospettiva giapponese sulla battaglia è stata a lungo trascurata, ma opere come quella di Kakehashi Kumiko e il conseguente film di Clint Eastwood hanno contribuito a una rivalutazione più equilibrata.
Le lettere dei soldati rimangono la testimonianza più toccante della loro esperienza, offrendo uno sguardo umano su una delle battaglie più sanguinose della Seconda guerra mondiale. Il generale stesso (lo abbiamo detto, un giornalista mancato) inviò, così come aveva fatto nella sua precedente esperienza americana, numerose lettere alla sua famiglia, rivelando il lato umano di un comandante altrimenti stoico, consapevole che il suo solo compito era quello di una disperata azione di frenaggio delle forze americane. Come scrisse il 12 settembre 1944: “mi spiace concludere la mia vita in questo luogo abbandonato da Dio, ma difenderò questa isola sino all’ultimo, pregando che Tokyo non venga bombardata”.
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- Kumiko Kakehashi, Letters From Iwo Jima, W&N, 2007.
- Tadamichi Kuribayashi, autore, Eric Searleman, curatore, Picture Letters From the Commander In Chief: Letters From Iwo Jima, VIZ Media LLC, 2007.