CONTENUTO
Le fonti storiche sulla battaglia di Carre
Ricostruire in modo dettagliato la battaglia di Carre non è compito facile. La fonte privilegiata per la conoscenza di tale avvenimento è, senza dubbio, la Vita di Crasso di Plutarco, autore che scrive tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. Quest’opera ci conserva un resoconto dettagliato delle vicende, tuttavia si tratta di una biografia e, come tale, è fortemente incentrata sulla figura di Crasso, di cui l’autore vuole mettere in luce pregi e difetti.
Le informazioni che ci sono giunte tramite Plutarco devono essere dunque confrontate e completate con gli accenni contenuti in altre opere storiche, in particolare Le guerre civili di Appiano e la Storia romana di Cassio Dione, autori greci di II e III secolo d.C.
Il territorio dei Parti
Nomadi provenienti dall’Asia centrale, tra il III e il II secolo a.C. i Parti iniziano a penetrare nel territorio dell’impero seleucide, del quale occupano dapprima i possedimenti più orientali per poi impossessarsi di tutta la Babilonia, intorno al 120/110 a.C. Di fatto, sul finire del I secolo a.C., il regno partico si estende dall’Alta Mesopotamia all’Asia centrale e si pone come erede degli antichi Persiani Achemenidi, il cui impero era caduto per mano di Alessandro Magno, quando nel 331 a.C. aveva sconfitto l’imperatore Dario III a Gaugamela.
I primi contatti tra i Parti e i romani
I Romani entrano per la prima volta in contatto con i Parti all’epoca delle guerre mitridatiche (88-85 a.C. la prima; 83-81 a.C. la seconda; 75-63 a.C. la terza), quando sono impegnati ad affrontare Mitridate, re del Ponto, il cui desiderio di espansione in Asia Minore sta minacciando gli interessi di Roma nella regione. In quell’occasione, i Parti non si presentano sin da subito come nemici dei Romani, anzi: durante la terza e ultima fase dello scontro con Mitridate, il regno partico si schiera dalla parte di Roma e il suo sostegno si rivela non insignificante per il felice esito delle operazioni militari contro il sovrano pontico.
Combattendo contro Mitridate e uno dei suoi principali alleati, il re d’Armenia, Tigrane, i Romani si affacciano sui territori dell’Alta Mesopotamia, di cui intravedono le infinite ricchezze e potenzialità: controllare quella regione significa, infatti, avere l’accesso alle vie commerciali che conducono verso l’estremo Oriente (India e Cina). A custodia di quelle terre, però, ci sono i Parti che, dunque, costituiscono non tanto una minaccia per i Romani, quanto più un ostacolo alle loro mire espansionistiche.
Un primo tentativo di guerra contro i Parti viene concepito e programmato nel 58 a.C., quando una crisi dinastica interna al regno fornisce a Roma il pretesto per intervenire militarmente nella regione. Alla morte del re Fraate III, i due figli, Orode e Mitridate, vengono a contesa per il trono: Mitridate, rifugiatosi nella provincia romana di Siria, chiede l’aiuto di Roma contro il fratello. I tempi, tuttavia, non sono maturi e i Romani, che si rendono conto di non avere le risorse necessarie per affrontare in campo aperto i nemici partici, rinunciano all’impresa.
Il proconsolato di Crasso in Siria
L’occasione si ripresenta propizia nel 56 a.C., quando gli accordi di Lucca, che rinnovano per altri cinque anni la spartizione dei poteri tra Cesare, Pompeo e Crasso, come previsto dal primo triumvirato (59 a.C.), assegnano a Crasso, dopo il consolato nel 55 a.C., il proconsolato della Siria.
Marco Licinio Crasso è, a quel tempo, uno degli uomini più potenti e ricchi di Roma: dopo aver combattuto a fianco di Silla nella guerra contro Mario, egli si è distinto per la repressione della rivolta servile di Spartaco e, nel 70, ha raggiunto l’apice della propria carriera ricoprendo il consolato insieme a Pompeo. Nel corso degli anni, Crasso ha accumulato, oltre che esperienza militare e politica, anche una straordinaria quantità di ricchezze: Plutarco ci informa del fatto che il suo patrimonio constasse di 7100 talenti, oltre a proprietà terriere, miniere d’argento e schiavi. Uomo avido e spregiudicato, Crasso era “potente per i favori che accordava, e per la paura che incuteva, soprattutto per la paura” (Plutarco, Vita di Crasso, 7, 8).
Ciò nonostante, la sua ricchezza non è sufficiente a competere con i suoi colleghi triumviri, Cesare e Pompeo, il carisma e la genialità dei quali finisce inevitabilmente per oscurare il suo prestigio. Quando, nel 56 a.C., gli viene affidato il proconsolato della Siria, Crasso decide di mettere in atto il progetto fino a quel momento irrealizzato di una spedizione contro i Parti: è per lui l’occasione di dimostrarsi all’altezza dei successi militari di Cesare e di Pompeo, oltre che l’opportunità di acquisire dai territori orientali una quantità smodata di ricchezze.
L’inizio della spedizione di Crasso
Nell’autunno del 55 a.C., senza attendere la fine dell’anno di consolato, Crasso parte per l’Oriente. Secondo le fonti antiche, il suo esercito doveva essere composto di undici legioni tra soldati romani e ausiliari, più le forze già stanziate in Siria negli anni precedenti. Questi numeri dimostrano che il nemico partico non era stato sottovalutato.
La partenza di Crasso è accompagnata da alcuni presagi negativi di cui però il triumviro non sembra curarsi: in un primo momento, il tribuno della plebe Gaio Ateio Capitone lancia oscure maledizioni nei confronti di Crasso che è sul punto di lasciare Roma; successivamente, al porto di Brindisi, mentre l’esercito si sta imbarcando, dal mercato vicino il grido “Cauneas!” di un venditore che promuove i suoi fichi provenienti da Cauno viene avvertito da molti dei presenti come “Cave ne eas!”, “Attento, non partire!”.
Dopo la sconfitta di Carre, la noncuranza di Crasso di fronte a tali avvenimenti va a compromettere ancora di più l’immagine del comandante che, da buon romano rispettoso delle tradizioni, avrebbe dovuto, se non proprio desistere, almeno ritardare l’inizio della spedizione.
Verso la battaglia di Carre: il primo anno di guerra
Attraversato l’Adriatico, l’esercito di Crasso marcia fino all’Ellesponto lungo la via Egnazia, percorrendo la Macedonia e la Tracia; da lì, prosegue via terra attraverso l’Asia Minore.
Raggiunta la Siria nel 54 a.C., Crasso organizza l’offensiva contro la Mesopotamia: oltrepassato l’Eufrate grazie ad un ponte di barche, i Romani non incontrano grandi resistenze da parte della popolazione locale. Dopo aver occupato alcune città dell’Alta Mesopotamia, tra le quali Carre, e avervi insediato delle guarnigioni, Crasso ordina la ritirata in Siria: l’arrivo dell’inverno impedisce alla spedizione di proseguire l’avanzata.
Nei mesi successivi, il comandante romano si dedica al reclutamento di nuove truppe, grazie ad una rete di alleanze con i sovrani dei regni vicini: egli ottiene l’appoggio del re Antioco di Commagene e di Ariobarzane II di Cappadocia, oltre che di Abgar di Osroene. Ma l’alleato più importante è, senza dubbio, Artavasde II d’Armenia: data la sua particolare posizione geografica di “cerniera” tra i territori dei Romani e dei Parti, l’appoggio del regno armeno costituisce un indubbio vantaggio sull’avversario.
Da Roma arriva anche suo figlio, Publio, con un’unità di mille cavalieri gallici inviati da Cesare a sostegno del collega triumviro. Nel frattempo, per rimpolpare le casse della spedizione, Crasso decide di attingere ai tesori dei santuari della sua provincia; non pago, si impadronisce anche dell’oro custodito nel santuario della dea Atargatis a Hierapolis e nel Tempio di Gerusalemme. Plutarco racconta che, all’uscita del santuario di Atargatis, Crasso e suo figlio Publio scivolano sulla soglia e cadono: un presagio infausto che preannuncia la morte dei due.
Il consiglio di Artavasde
Il piano di Crasso è quello di conquistare tutto il territorio della Mesopotamia fino a Babilonia, l’area che i Parti avevano sottratto ai Seleucidi durante il II secolo d.C.
Nella primavera del 53 a.C. Artavasde lo raggiunge con seimila cavalieri della sua guardia personale, promettendo l’arrivo di un ulteriore contingente di diecimila cavalieri e trentamila fanti. Egli propone anche anche un cambiamento dell’itinerario da seguire: invece che procedere attraverso il deserto mesopotamico, il sovrano armeno suggerisce di passare per l’Armenia e da lì penetrare in Mesopotamia. Il percorso sarebbe stato sì più lungo, ma si sarebbe sviluppato in territorio amico.
Crasso, però, non fidandosi completamente di Artavasde e temendo un’imboscata da parte degli Armeni, preferisce seguire il piano originario. La successiva sconfitta ha attirato su Crasso l’accusa di irresponsabilità per non aver seguito il consiglio di Artavasde: tuttavia, la scelta del comandante romano è stata effettivamente la più ragionevole. Dopo la spedizione di Pompeo in Mesopotamia, i Romani conoscevano già il territorio verso il quale si stavano dirigendo, cosa che non si poteva dire dell’Armenia, una regione montuosa in cui le legioni avrebbero marciato a fatica; inoltre, la lealtà di Artavasde non era garantita.
Verso la battaglia di Carre: la ripresa delle ostilità
Oltrepassato nuovamente l’Eufrate, i Romani muovono in direzione di Ctesifonte, la capitale del regno partico. L’itinerario prevede di passare attraverso le località che erano state occupate durante la prima offensiva l’anno precedente; tra queste città c’è Carre, un importante snodo carovaniero per i collegamenti tra la Siria e la Mesopotamia.
Nel frattempo, il re dei Parti, Orode, ha preparato la controffensiva: una parte dell’esercito, sotto la sua personale guida, si dirige in Armenia per impedire ad Artavasde di inviare i rinforzi promessi ai Romani; l’altra parte, affidata al comando del generale Surena, ha il compito di bloccare l’avanzata di Crasso in Mesopotamia.
La strategia di Orode funziona: Artavasde invia a Crasso dei messaggeri per informarlo dell’impossibilità di aiutarlo e consigliargli nuovamente di cambiare percorso. Dura è la reazione del comandante romano:
Crasso non mandò nessuna risposta per iscritto, ma rispose subito con rabbia e perversione che per il momento non aveva tempo da perdere con gli Armeni, ma che in un altro momento sarebbe tornato a punire Artavasde per il suo tradimento. (Plutarco, Vita di Crasso, 22, 3)
La battaglia di Carre del 53 a.C.
Privo dei rinforzi armeni, l’esercito romano continua ad avanzare in Mesopotamia: gli esploratori inviati in avanscoperta, tuttavia, riferiscono erroneamente che il paese è disabitato.
Il 9 giugno del 53 a.C., giunti nei pressi di Carre, i Romani si trovano inaspettatamente faccia a faccia con il nemico. Crasso è convinto che l’esercito di Surena sia in realtà un’avanguardia: i Parti hanno coperto con mantelli e guaine di pelle le armi, rendendone invisibile il bagliore. Il comandante si lascia convincere dal figlio ad ingaggiare subito il combattimento, ma la fanteria romana viene in brevissimo tempo travolta da una pioggia di frecce scagliate dai cavalieri partici.
La forza dell’esercito partico risiede, infatti, nella stretta collaborazione tra i catafratti, ovvero cavalieri ricoperti da una corazza di bande di metallo ineguagliabile in quanto a protezione e armati di una lancia lunga almeno quattro metri, tenuta con entrambe le mani, e gli arcieri a cavallo. Questa tattica permette di superare e aggirare la compattezza della legione romana.
Così Cassio Dione descrive l’effetto delle frecce partiche:
Piombando in massa sui Romani da ogni parte, ne ferivano mortalmente parecchi, e parecchi impossibilitavano a combattere, e nessuno poteva trovar pace. Infatti i dardi sfrecciavano sugli occhi, sulle mani e su tutto il resto del corpo; trapassavano le armature, li lasciavano senza protezione e, continuando a ferirli, li costringevano a esporsi. […] Che si muovessero o restassero impassibili, non avevano via di scampo, poiché entrambe le soluzioni erano insicure e portavano alla morte: infatti la prima cosa gli era impossibile, mentre la seconda li rendeva più vulnerabili. (Cassio Dione, Storia romana, XL, 22, 2)
La morte di Publio Crasso nella battaglia di Carre
Per tentare un’azione diversiva, Publio Crasso, con i suoi cavalieri gallici, parte all’inseguimento degli arcieri; questa manovra si rivela però fallimentare, perché porta i Romani direttamente a confronto con i catafratti. Accerchiati, Publio e i suoi hanno la peggio: Publio viene ucciso e la sua testa, innalzata su una picca, viene consegnata al padre che cade in uno stato di disperazione. Così, secondo Plutarco, Crasso parla ai suoi:
“O Romani, questa sventura è soltanto mia, mentre la grande gloria e fortuna di Roma sono riposte, intatte e invitte, in voi, se vi salvate. Ma se provate anche un po’ di pietà per me, privato del migliore dei figli, dimostratela col furore verso i nemici. Privateli della loro gioia, puniteli della loro crudeltà, non lasciatevi sgomentare dall’accaduto, poiché è necessario anche soffrire, se si aspira a grandi cose”. (Plutarco, Vita di Crasso, 26, 6-7)
Alla fine della giornata, i catafratti travolgono la fanteria romana.
Nell’accampamento in preda alla confusione, i legati romani Cassio (il futuro cesaricida) e Ottavio prendono in mano la situazione e ordinano la ritirata. Mentre Surena prepara l’assedio di Carre, l’esercito romano inizia a dividersi: Cassio si dirige verso la Siria, Ottavio parte alla volta dell’Armenia, mentre Crasso segue un notabile di Carre, Andromaco, che, accordatosi segretamente con i Parti, finge di portarlo in salvo per poi condurlo in luoghi ostili e paludosi. Raggiunto dai nemici, Crasso è costretto a venire a patti con Surena; tuttavia, durante l’incontro tra i due comandanti scoppia una scaramuccia disordinata nella quale Crasso trova la morte.
Surena ordina che gli vengano tagliate testa e mano destra e vengano inviate al re Orode; il corpo del comandante, invece, “fu lasciato sul posto, in mezzo ai morti ammucchiati alla rinfusa, perché gli uccelli e gli animali selvatici lo dilaniassero” (Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili, I, 6, 1). Orode si trova in quel momento alla corte di Artavasde, in Armenia, dove, a suggello dell’alleanza tra i due, si stanno celebrando le nozze tra il figlio del re partico e la sorella del sovrano armeno.
Plutarco racconta che, quando il messaggero di Surena entra nella sala del ricevimento con la testa di Crasso, è in atto una rappresentazione delle Baccanti di Euripide; un attore, che in quel momento sta recitando la parte di una menade che, in preda al delirio dionisiaco, ha decapitato il figlio, vedendo la testa di Crasso se ne impadronisce e la utilizza come strumento di scena. Con queste parole Plutarco conclude la narrazione della biografia di Crasso:
In questa farsa, dicono, finì come una tragedia la spedizione di Crasso. (Plutarco, Vita di Crasso, 33, 7).
Secondo una tradizione riportata dallo storico Floro, la bocca di Crasso fu riempita d’oro fuso come per saziare, una volta morto, la sua avidità di ricchezza.
Il recupero delle insegne militari
Il bilancio della battaglia è disastroso: alla morte del comandante e di suo figlio, si aggiunge la perdita di sette aquile, le insegne militari delle legioni romane. Dei pochi sopravvissuti, una larga parte viene fatta prigioniera e condotta a Seleucia, dove viene fatta sfilare davanti al popolo e derisa.
La perdita delle insegne era, per i Romani, un grande disonore. Negli anni successivi diversi tentativi vengono fatti per recuperarle: solo Augusto, nel 20 a.C., riesce nell’impresa. La restituzione delle aquile avviene, tuttavia, in maniera pacifica, grazie alla stipula di un accordo tra Roma, rappresentata da Tiberio, e il re dei Parti Fraate IV. Questo avvenimento viene celebrato da Augusto come una vera e propria vittoria militare: famosa è la statua dell’Augusto di Prima Porta, sulla cui corazza, al centro, è raffigurato Fraate nell’atto di riconsegnare un’insegna a Tiberio.
Un giudizio storico su Crasso
La pesante sconfitta di Carre ha inevitabilmente comportato, da parte delle fonti antiche, un giudizio negativo su Crasso. Egli viene spesso presentato come un comandante incapace, mosso solamente da brama di ricchezza e di potere, unico responsabile di un disastro epocale. Ora, Crasso ha commesso senza dubbio alcuni errori, in primis quello di sottovalutare il nemico, in termini sia di forza che di tattica militare. Allo stesso tempo, però, è improbabile che egli fosse un comandante così inesperto e inadeguato: prima di Carre, egli aveva alle spalle una carriera di tutto rispetto e, dunque, doveva avere le doti normali di un qualsiasi generale romano.
La sconfitta di Carre ridimensiona l’illusione romana di una conquista facile e rapida del regno dei Parti, così com’era stato per la sottomissione dell’Oriente greco-ellenistico. Ciò nonostante, l’ambizioso progetto di espansione in Mesopotamia rimane un punto chiave nella politica estera di Roma: Giulio Cesare, a distanza di poco meno di dieci anni, sta programmando una spedizione contro i Parti quando viene ucciso; Marco Antonio realizza l’incompiuto progetto cesariano e muove contro il nemico orientale, pur senza riportare un grande successo. Augusto, dopo di lui, decide di optare per una gestione diplomatica del conflitto, stabilendo con i Parti un rapporto di amicitia; questo accordo dura, con alti e bassi, fino a quando Traiano, nel 116 d.C., giunge per primo a conquistare Ctesifonte.
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- R. M. Sheldon, Le guerre di Roma contro i Parti, LEG Edizioni 2018.