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La battaglia di Canne, nota come una delle più cocenti sconfitte nella storia romana e come memorabile capolavoro di strategia e tattica militare, si svolge il 2 Agosto del 216 a.C. in una zona poco distante da Barletta presso il fiume Ofanto in Puglia (località oggi conosciuta proprio come Canne della Battaglia, con presenza di un sito archeologico che ricostruisce non solo la storia della battaglia ma anche quella della zona in sé e del suo insediamento esistente già da prima dell’epoca romana, località che peraltro sarà protagonista di un’altra importante battaglia nell’XI secolo).
Recenti studi e rilevamenti archeologici hanno però messo in dubbio questa collocazione proponendo come teatri alternativi dello scontro il fiume Fortore vicino Carlantino al confine tra Puglia e Molise oppure la valle del Celone presso Castelluccio Valmaggiore. Le fonti principali che abbiamo sono Polibio e Tito Livio (con la prima probabilmente più aderente alla realtà dei fatti), anche se resoconti ci sono pervenuti da Appiano e Plutarco.
La Seconda guerra punica e la calata di Annibale in Italia
L’influente famiglia dei Barca domina nei territori iberici sotto il governo di Cartagine, configurandosi quasi come un regno a sé stante all’interno dello stato punico; il confine secondo un trattato stipulato tra romani e cartaginesi era stato posto sul fiume Ebro, con la parte nord-orientale che rimaneva sotto l’influenza romana tramite la città di Marsiglia, sua alleata.
Annibale, figlio di Amilcare Barca che gli aveva inculcato un forte odio verso i romani fin dalla tenera età, succede al cognato Asdrubale nel governo delle terre spagnole allargandone ancora i confini e arrivando a porre sotto assedio Sagunto nel 219 a.C. Questo evento porta allo scoppio della Seconda guerra punica, poiché questa città, pur essendo a sud dell’Ebro, è alleata di Roma che interviene in sua difesa.
Annibale in seguito cala in Italia attraversando audacemente le Alpi con un esercito numeroso e composto anche da 30 elefanti e si riunisce con le tribù galliche alleate della Gallia Cisalpina, riportando poi una serie di vittorie nette ai danni dei romani tra il 218 e il 217 a.C. (Ticino, Trebbia e Trasimeno dove peraltro perde la vita il console Gaio Flaminio Nepote).
I romani decidono di eleggere un dittatore Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore (Cunctator) perché assume una strategia attendista, che prevede di non scontrarsi con i cartaginesi in campo aperto ma di sfiancarli con piccole imboscate, scaramucce ed azioni di disturbo così da isolare Annibale tagliandogli ogni via di rifornimento. La strategia pur rivelandosi vincente comincia a creare dei malumori a Roma dove si chiede, in particolare tra la plebe, una grande vittoria per determinare l’esito della guerra e scacciare i cartaginesi dalla penisola.
I nuovi consoli e la preparazione allo scontro
Nel 216 a.C. vengono quindi eletti i consoli Lucio Emilio Paolo (già console nel 219 e trionfatore sugli Illiri insieme a Marco Livio Salinatore) e Gaio Terenzio Varrone (che invece era stato pretore nel 218). I due fin da subito dimostrano di avere pareri discordanti sulla strategia da adottare per affrontare Annibale, situazione esacerbata dal diverso ceto sociale di provenienza: Paolo di origine patrizia preme per continuare la tattica di Fabio Massimo mentre Varrone di origine plebea vuole lo scontro in campo aperto.
Anche Annibale, fiaccato dalla tattica messa in atto dai romani nei mesi precedenti, desidera arrivare allo scontro aperto il prima possibile. Tito Livio infatti ci parla di un Annibale fortemente in crisi, con i soldati prossimi all’ammutinamento e il piano di ritirarsi in Gallia Cisalpina mentre Polibio, più moderato, presenta il generale cartaginese come molto prudente ma conscio della sua superiorità e che si è inoltre impadronito della città di Canne dove i romani hanno raccolto grandi quantità di derrate alimentari di cui l’esercito cartaginese ha un disperato bisogno.
I due storici sono ancora discordi sui successivi eventi poiché secondo Tito Livio il generale cartaginese prova ad attrarre i romani in una trappola, scoperta da Emilio Paolo, mentre Polibio racconta che i romani si sono accampati poco lontani dalle truppe cartaginesi e Annibale utilizza la cavalleria numidica per ostacolarne i rifornimenti. In ogni caso Emilio Paolo si stabilisce presso il fiume Ofanto, distribuendo le truppe su due accampamenti ai lati del fiume, decidendo di non attaccare. Il giorno seguente però il comando passa al console Varrone secondo il principio di alternanza tra i due consoli ed egli decide infine di dare battaglia.
Le truppe in campo
Per quanto riguarda i numeri gli eserciti riuniti dei due consoli ammontano ad 8 legioni (su questo numero Polibio e Tito Livio concordano) per un totale, tra romani e alleati, di circa 80 mila fanti dei quali circa 15-20 mila velites armati alla leggera e 55-60 mila legionari e 6 mila cavalieri divisi in 2.400 romani e 3.600 alleati italici.
Annibale invece può disporre di poco più della metà degli effettivi, circa 50 mila uomini totali, divisi tra 28.500 fanti pesanti tra cui 10 mila veterani africani (libo-fenici) e i contingenti gallici e ispanici, 11.500 fanti leggeri e 10 mila cavalieri divisi tra 3.500 agili numidi e la cavalleria pesante gallica e iberica in numero di 6.500 (qui di nuovo Tito Livio non concorda completamente con Polibio dando cifre più numerose per la fanteria pesante, per un totale di 35 mila uomini di cui 20 mila celti e ispanici e 15 mila africani).
Gli equipaggiamenti dei due eserciti sono molto simili se si guarda alla fanteria pesante (dato questo confermato sia da Polibio che da Tito Livio e dovuto anche al fatto cartaginesi avevano saccheggiato gli armamenti dei soldati romani in seguito alle vittorie ottenute nelle precedenti battaglie di Trebbia, Ticino e Trasimeno).
Bisogna sottolineare che il gladio è ancora quasi sconosciuto ai romani e tra le spade più utilizzate vi sono la kopis e lo xyphos di derivazione greca e la spada celtica di tipo La Tene B; i romani inoltre dispongono del pilum, arma micidiale simile ad un giavellotto e mutuata probabilmente dai sanniti, che veniva scagliata poco prima del contatto con la fanteria nemica per scompaginarne le fila.
Anche le fanterie leggere sono composte di reparti molto simili come i frombolieri delle Baleari, temibile reparto leggero armato appunto con la frombola, una specie di fionda, oltre che nuclei armati di giavellotti e frecce.
Gli iberici hanno i loro equipaggiamenti peculiari, equipaggiati con uno scudo simile a quello romano ma piatto piuttosto che ricurvo e fanno largo utilizzo del gladio ispanico o ispaniense, che diverrà l’arma basilare delle legioni romane per diversi secoli, oltre ad armature ed elmi di foggia varia ma probabilmente più leggeri dei veterani africani e dei legionari romani.
I celti sono muniti sia di scudi simili a quelli iberici ma anche di altri di forma tondeggiante e
utilizzano una spada di tipo La Tene C (tra questi molti probabilmente combattevano senza armatura a
torso nudo o riparati da leggeri corpetti di pelle).
La battaglia di Canne
La battaglia viene presa come esempio di brillante manovra di accerchiamento sui fianchi da parte di un esercito meno numeroso ed è un ottimo esempio della superiorità di un esercito ben bilanciato su uno invece squilibrato (la cavalleria infatti forma il 20% circa delle truppe cartaginesi mentre quella romana solamente il 10%, peraltro con un peso relativo ancora inferiore data la grandezza dell’esercito romano).
Con il fiume Ofanto posto a destra rispetto all’esercito romano e quindi a sinistra di quello cartaginese, i generali di entrambe le parti utilizzano uno schieramento classico per l’epoca con la fanteria al centro e la cavalleria sulle ali (con quella cartaginese in vantaggio grazie ad un leggero pendio a suo favore). Questa consuetudine è data dal fatto che la cavalleria non solo occupa spazi più ampi della fanteria, in proporzione agli effettivi, ma ha anche maggior bisogno di spazi per manovrare, oltre al fatto che in questo modo la fanteria può avanzare con i fianchi coperti.
Per i romani comunque spesso la cavalleria non è cruciale e serve per tenere impegnato il corrispettivo reparto nemico ed evitare accerchiamenti affinché la superiore fanteria romana possa svolgere il suo lavoro sfondando al centro e mettendo in rotta i nemici.
In questo caso Annibale (non abbiamo fonti certe su questo) sembra che decida di schierare la fanteria con una forma convessa ponendo i galli e gli ispanici al centro in posizione più avanzata rispetto alle truppe africane, divise sui lati in due contingenti di 5 mila uomini, così da reggere il primo urto, e dando così un’impostazione aggressiva e offensiva al suo esercito:
“Dopo dunque la disposizione di tutto il suo esercito in linea retta, prese le compagnie centrali degli Ispanici e dei Celti e avanzò con loro, mantenendo il resto della linea in contatto con queste compagnie, ma a poco a poco essi si staccarono, in modo tale da produrre una formazione a forma di mezzaluna, la linea delle compagnie fiancheggianti stava crescendo in sottigliezza poiché era stata prolungata, il suo scopo era quello di impiegare gli Africani come forza di riserva e di iniziare l’azione con gli Ispanici ed i Celti.”
Polibio, Storie III, 113
Anche Varrone sceglie un’impostazione altrettanto offensiva, sfruttando la superiorità numerica per riuscire a comporre un fronte di fanteria su una linea lunga almeno quanto quella nemica, se non di più, ma dando anche una certa profondità alle linee, addensandone i reparti:
“[…] schierò la fanteria disponendo i manipoli più fitti del solito e facendoli molto più profondi che larghi.” Polibio, Storie, III, 113
In realtà diversi storici hanno ipotizzato che la scelta di Varrone è in parte obbligata, a causa del poco spazio a disposizione per schierare l’intero esercito su una linea più ampia e questo grazie all’intelligenza di Annibale che, facendo leva sull’irruenza mostrata da Varrone nel ricercare lo scontro in campo aperto, pur avendo l’accampamento di fronte a quello romano sulla riva opposta del fiume, riesce a far sì che si combatta su un terreno più consono al suo esercito cioè sull’altro lato dell’Ofanto.
La battaglia inizia come di consueto con l’azione delle fanterie leggere schierate davanti alle linee di fanteria pesante (in questa prima fase viene anche ferito il console Lucio Emilio Paolo che però prosegue il combattimento). Dopodiché la cavalleria gallica e iberica sul fianco sinistro dei cartaginesi carica quella posta sul fianco destro romano (la più debole, composta di cittadini romani) mentre sull’altro lato stessa cosa fa la cavalleria numidica, comandata da Maarbale, nei confronti dei cavalieri italici al comando di Varrone (che forse tra i loro reparti contengono anche alcuni cavalieri della tribù dei galli Cenomani, l’unica rimasta fedele a Roma).
Mentre sul fianco destro romano lo scontro fra le cavallerie si risolve in una mischia furibonda, dall’altro lato la tattica dei numidi è quella del mordi e fuggi: i cavalieri bersagliano gli italici con i giavellotti ritirandosi poi per sfuggire al contatto con i nemici. Gli italici però riescono a resistere a questi ripetuti assalti mentre la cavalleria romana viene sbaragliata anche grazie alla tattica utilizzata da galli e ispanici che smontano da cavallo affrontando come una fanteria compatta i romani, prendendoli così di sorpresa.
Nel frattempo le fanterie giungono a contatto, con celti e iberici posti al centro che sono i primi a scontrarsi con il centro delle legioni romane forse perché così previsto da Annibale o forse semplicemente perché più irruenti e indisciplinati dei veterani africani posti sulle due ali della fanteria; il centro romano si dimostra superiore agli avversari e inizia a guadagnare terreno facendo retrocedere i soldati avversari.
A quel punto i legionari arrivano a contatto anche con le fanterie africane ma secondo Polibio essi nell’avanzata si sono raggruppati verso il centro dando così modo ai contingenti africani sui due lati di stringerli (secondo Tito Livio addirittura di accerchiarli completamente, ipotesi poco probabile per via della forte superiorità numerica romana). Ad ogni modo si compie la brillante tattica di Annibale che riesce, con una fanteria in netta inferiorità numerica, a chiudere su tutti i lati la fanteria nemica.
Intanto i cavalieri celtiberi dopo essere rimontati a cavallo aggirano l’intero schieramento andando a prendere alle spalle la cavalleria dei socii italici i quali si trovano accerchiati e quindi volgono in fuga inseguiti da entrambe le cavallerie puniche che, dopo averli raggiunti e massacrati, tornano indietro per completare l’accerchiamento della fanteria romana attaccandola alle spalle e travolgendola.
Conclusione della battaglia e conseguenze
La vittoria di Annibale si trasformerà in un vero massacro, pochi infatti saranno i romani sopravvissuti e quelli presi prigionieri. Nello scontro perde la vita anche il console Lucio Emilio Paolo che indebolito dalle ferite ricevute all’inizio dello scontro si lancia nella mischia andando incontro alla morte (la tradizione vuole che sia stato ritrovato ferito gravemente da un sottoposto ma che abbia rifiutato il cavallo che questi gli aveva offerto per fuggire, accettando eroicamente la sua fine sul campo). Secondo la testimonianza di Tito Livio:
“Tante migliaia di Romani stavano morendo […] Alcuni, le cui ferite erano eccitate dal freddo mattino, nel momento in cui si stavano alzando, coperti di sangue, dal mezzo dei mucchi di uccisi, erano sopraffatti dal nemico. Alcuni sono stati trovati con le teste immerse nelle buche in terra, che avevano scavato; avendo, così come si mostrò, realizzato buche per loro stessi, e essendosi soffocati.”
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXII, 51
Sulle cifre esatte delle perdite ci sono pareri discordanti i romani perdono circa 50 mila uomini secondo Tito Livio, Appiano e Plutarco e vengono catturati tra i 10 e 20 mila prigionieri con un totale di circa 15-20 mila sopravvissuti che si rifugiano a Canosa. Altre fonti come Polibio ridimensionano i numeri di prigionieri e sopravvissuti, accentuando invece il numero di caduti stimato in circa 70 mila uomini. Nonostante la vittoria anche Annibale sembra abbia avuto numerose perdite stimate in circa 6 mila galli, 1500 tra ispanici e africani e 200 cavalieri tra numidi e celtiberi.
Il console Varrone riesce a fuggire a Venosa mentre la notizia della disfatta giunta a Roma semina il panico tra i cittadini che ora vedono aprirsi ad Annibale la strada verso l’Urbe senza nessun ostacolo a poterlo fermare.
“Mai prima d’ora, mentre la stessa città era ancora sicura, c’era stato tanto turbamento e panico tra le sue mura. Non cercherò di descriverlo, né io indebolirò la realtà andando nei dettagli. Dopo la perdita di un console e dell’esercito nella battaglia del Trasimeno l’anno precedente, non fu una ferita dopo l’altra, ma una strage molto (più) grande quella che era stata appena annunciata. Secondo le fonti due eserciti consolari e due consoli sono stati persi, non c’era più nessun accampamento romano, nessun generale, nessun soldato in esistenza, Puglia, Sannio, quasi tutta l’Italia giaceva ai piedi di Annibale. Certamente non c’è altro popolo che non avrebbe ceduto sotto il peso di una simile calamità.”
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXII, 54
Roma vede anche il repentino cambio di fronte di alcuni suoi alleati tra cui la città di Capua che si consegna ad Annibale, le popolazioni di Bruzi e Lucani e infine nel 214 a.C. la città di Siracusa (l’Italia centrale invece rimane fedele alla Repubblica e svolgerà un ruolo cruciale nel proseguo della guerra); anche il re macedone Filippo V si allea con i cartaginesi in chiave antiromana.
Nonostante ciò Roma riuscirà ad assorbire il colpo subito dall’ennesima disfatta nel giro di soli due anni, innanzitutto grazie alla sua supremazia marittima che impedisce ai rifornimenti di truppe, mezzi e viveri di giungere dalla Spagna e da Cartagine ma anche grazie all’indecisione di Annibale che non sfrutta l’occasione decidendo di non marciare su Roma (i motivi di questa scelta non sono chiari e si hanno pareri discordanti tra gli storici).
Con un immenso sforzo economico finanziato dai capitali privati del ceto aristocratico e di quello equestre (i quali vedono la loro sopravvivenza e quella della Repubblica oltre che la loro ricchezza futura legate alle sorti del conflitto con Cartagine), Roma saprà ricreare un esercito di ben 25 legioni grazie al quale già nel 211 a.C. riuscirà a riconquistare Siracusa e in seguito a sconfiggere il fratello di Annibale, Asdrubale, giunto in Italia nel 207 a.C. con i rinforzi.
Infine sarà Scipione l’Africano a portare a termine la guerra e dopo una campagna in Spagna tra il 210 e il 208 a.C., sconfiggerà definitivamente Annibale in Africa a Zama nel 202 a.C. sancendo la vittoria definitiva dei romani e la fine della Seconda guerra punica.
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- Bocchiola Massimo, Marco Sartori, La battaglia di Canne, Milano, UTET, 2017
- Andrea Frediani, Le Grandi Guerre di Roma: L’Età Repubblicana, Newton Compton Editori, 2018
- Andrea Frediani, I Grandi Condottieri che hanno cambiato la Storia, Newton Compton Editori, 2019