CONTENUTO
Le ripercussioni della sconfitta di Dogali
In seguito alla sconfitta nella battaglia di Dogali del 26 gennaio 1887 un forte impulso alla politica coloniale italiana viene dato da Francesco Crispi, sessantottenne di origine siciliana, esponente della Sinistra e Presidente del Consiglio dal luglio 1887. Vivendo con fastidio e con insoddisfazione lo status di potenza di secondo grado a cui il paese è relegato, Crispi diventa il promotore di una politica estera di prestigio, all’interno della quale l’espansione coloniale si inserisce alla perfezione.
A differenza dei suoi predecessori, egli proclama la necessità storica per l’Italia liberale di coniugare imperialismo ed emigrazione popolare e, in tal senso, appoggia il programma di insediamento delle famiglie rurali sull’altopiano africano. Inoltre, incoraggia entrambi i progetti di espansione elaborati in quei mesi: sia quello dei militari, che vogliono estendersi da Massaua a tutti i territori confinanti, sia quello diplomatico che auspica, invece, il protettorato italiano sull’Etiopia, da ottenere possibilmente attraverso un’alleanza con il ras scioano Menelik.
Il trattato di Uccialli: verso la battaglia di Adua
Il 1889 rappresenta un anno di svolta per la “microcolonia” italiana in Africa Orientale. Nel mese di marzo l’imperatore Giovanni IV perde la vita in battaglia e, con la successione incerta, Menelik si autoproclama suo successore. A quel punto, approfittando dei capovolgimenti interni all’Abissinia, il governo italiano modifica il suo indirizzo politico, accantonando la “linea tigrina” proposta dai militari, in particolare dal generale Antonio Baldissera , e “dando inizio a quella politica, detta scioana, che si fondava sui rapporti intrecciati precedentemente dal conte Pietro Antonelli con Menelik”[1].
I risultati non si fanno attendere: dopo poco giunge in Italia un’ambasceria, per rendere omaggio al re e per concludere accordi. Il 2 maggio, nei pressi del villaggio di Uccialli, viene firmato il trattato di amicizia e di commercio, con il quale Menelik riconosce “all’Italia un’estensione del dominio sull’altopiano ad ovest di Massaua“ e accetta di “servirsi della mediazione del governo italiano per le sue relazioni internazionali, contro un prestito di due milioni di lire e l’amicizia italiana”[2].
In Italia la frase del trattato in cui il negus etiopico acconsente a “valersi dei servigi di Roma per comunicare con le altre potenze”[3] è interpretata in maniera alquanto distorta e Crispi può affermare alla Camera, con un’esplosione di orgoglio misto a gioia, che l’Etiopia è diventata a tutti gli effetti un Protettorato italiano. In quello stesso anno, grazie all’appoggio dell’Inghilterra, vengono gettate le basi di quella che sarebbe divenuta la Somalia italiana e il 1 gennaio 1890, i Reali possedimenti d’Africa vengono rinominati Colonia Eritrea.
L’ignoranza e la sottovalutazione della situazione in Africa Orientale risultano evidenti nella pessima gestione del Trattato di Uccialli[4]. Dopo essere stato incoronato imperatore e dopo aver consolidato la sua posizione grazie all’aiuto del governo di Roma, Menelik, indispettito sempre di più dalla sfacciata e asfissiante invadenza dell’esercito italiano, prende autonomamente contatti diretti con altre cancellerie europee, per ottenere il riconoscimento dell’indipendenza del proprio paese. Quando, nei mesi di settembre e dicembre, ha modo di rincontrare gli emissari italiani egli si dimostra determinato e chiaro nell’affermare che mai si sarebbe sottomesso ad un controllo esterno.
Prima della battaglia di Adua: Oreste Baratieri nella colonia italiana
La sopravvalutazione della propria forza e delle proprie capacità da parte degli italiani risulta evidente anche per lo sviluppo della Colonia Eritrea lungo la linea tigrina. Con le operazioni militari che portano all’occupazione di Cheren (giugno 1889) e di Asmara (agosto 1889), l’area dei possedimenti italiani si estende sino al fiume Mareb.
Presi dall’entusiasmo, i militari credono erroneamente di trovarsi di fronte ad un paese diviso e debole e “non tenendo conto delle conseguenze a medio e a lungo termine delle proprie azioni, cominciano a mirare alla città santa di Adua, nel Tigrè”[5].
Risulta eclatante l’episodio verificatosi nel gennaio 1890, quando il generale Baldassarre Orero, divenuto da poco governatore al posto del Baldissera, decide di oltrepassare il Mareb per essere ad Adua il 26, ovvero il giorno dell’anniversario della battaglia di Dogali; e tutto ciò avviene nonostante il ministro della Guerra e il Presidente del Consiglio gli abbiano comunicato il proprio disaccordo, temendo, a buona ragione, reazioni o malumori da parte degli etiopici.
Di fronte a tale disobbedienza, il governo non può sorvolare o far finta di nulla, e decide pertanto di instaurare per la Colonia Eritrea la carica di governatore civile, che nel giugno 1890 è affidata al generale Antonio Gandolfi e, successivamente, il 28 febbraio 1892, al suo Vice, il colonnello Oreste Baratieri.

Un apprezzabile ritratto del neogovernatore dell’Eritrea, anche amico di vecchia data di Crispi, ci è stato offerto dalle parole scritte dal radicale e anticolonialista Achille Bizzoni:
Universali erano le simpatie per Baratieri. Abilissimo, aveva saputo destreggiarsi fra tutti i partiti, senza mai offenderne alcuno; per i Democratici era dei Mille; per i crispini aveva la garanzia di Zanardelli; per la Destra la benevolenza della Corte; per tutti, un’aureola di simpatia, certo non ispirata dal suo fisico e dalla sua facondia, forse dalla bonomia cordiale da pievano, dal sorriso stereotipato, benevolo con tutti, ed anche per tutti coloro che non si davano la pena di studiare i contrasti fra lo sguardo esageratamente miope attraverso le potenti lenti da microscopio ed il sorriso, come direbbe un pittore, di maniera[6].
Non appena ottiene la carica, Baratieri accentra nelle proprie mani ogni potere politico e militare, inaugurando una stagione di “dittatura coloniale”. Chiede e ottiene anche un bilancio unico per l’Eritrea, che gli consente di sottrarsi al controllo del Ministero degli Esteri, della Marina e della Guerra, e di assumere direttamente la gestione della colonia emancipandola, amministrativamente, dalla madrepatria.
Contemporaneamente dà un’impronta personale al nuovo governo coloniale, dando vita a “cinque dicasteri: l’ufficio politico-militare, l’ufficio centrale amministrativo, quello degli affari civili, l’ufficio demaniale e quello legale”[7].
Costituito il nuovo apparato governativo, Baratieri si occupa della riorganizzazione del Corpo Speciale d’Africa, che raggiunge alla fine del 1892 un totale di 6.560 uomini, di cui 2.115 italiani e 4.445 indigeni del posto. La sua opera riformatrice investe altre sfere come quelle relative alle pratiche religiose, alle condizioni sanitarie, alla diffusione della lingua italiana, ai tributi e alla sicurezza interna.
Il governatore cerca di imporre al governo italiano anche il proprio indirizzo nella politica con l’Etiopia. Come scrive nel luglio 1893, egli è assolutamente contrario alla via diplomatica, poiché convinto del fatto che solo assumendo un atteggiamento ostile e aggressivo nei confronti di Menelik, si sarebbe riusciti ad ottenere qualcosa:
Ormai, a mio modo di vedere, è giunto il tempo di mostrare all’imperatore Menelik che egli col contegno suo verso l’Italia e verso i di lei protetti corre un brutto rischio, perché l’Italia è molto potente nella Colonia Eritrea e perché tiene nelle sue mani le sorti del Tigrè e con esse l’avvenire del trono di Salomone[8].
Le cause della battaglia di Adua
Mentre ad Addis Abeba è ormai ufficiale che Menelik II ha rinnegato e denunciato qualsiasi pretesa italiana di protettorato, da Massaua si continua ad irritare il potente vicino con delle frequenti spedizioni, che hanno come obiettivo un luogo religioso assai significativo per gli etiopici. La politica aggressiva di Baratieri è sorprendente poiché viene perseguita, con convinzione e tenacia, nonostante il fatto che le truppe di cui dispone non vengano “aumentate parallelamente alle sue ambizioni”[9].
Ancora più stupefacente è che il temperamento bellicoso del generale non viene mai efficacemente ostacolato dai governi moderati di Antonio Starabba marchese Di Rudinì e di Giovanni Giolitti, ben disposti più a ridurre che ad aumentare i costi per il mantenimento della colonia sul Mar Rosso. Proprio il governo è in quegli anni il vero ed unico interlocutore del governatore dell’Eritrea, poiché il paese rimane, per lungo tempo, sostanzialmente disinformato sulle mosse politiche e sui rischi che si sarebbero potuti correre in Africa, allo stesso modo del Parlamento.
Quotidianamente la stampa fornisce poche informazioni sulla vita coloniale, e solo in occasione di scontri militari o di qualche rientro in patria dei protagonisti scese più nei particolari, tendendo sempre a deformare le notizie con una buona dose di retorica nazionalistica e patriottica[10].
La classe dirigente, invece, si dimostra più volte divisa sulla questione coloniale: una buona parte della Destra continua a guardare più alla situazione europea che a quella africana; la Sinistra dal canto suo proclama che non avrebbe dato all’Africa “né un uomo né un soldo”[11], coniando in tal modo uno slogan ripreso successivamente in Europa anche da altre opposizioni coloniali.
Mentre a Roma si discute il generale Baratieri, nel frattempo, si decide ad occupare il Tigrè, probabilmente spinto dalla convinzione che sfidando il negus sul controllo di quella importante regione e riuscendo a batterlo, tutto l’impero sarebbe crollato come un castello di sabbia o, nella migliore delle ipotesi, tornato ad essere un protettorato italiano.
Il 13 gennaio 1895 le truppe italiane invadono il Tigrè e nel mese di marzo occupano stabilmente Adigrat, Macallè e Adua. Nel mese di luglio, soddisfatto dei risultati ottenuti fino a quel momento, Baratieri rientra in Italia dove viene accolto da una nazione in festa per l’estensione dell’Oltremare e “da manifestazioni che oltrepassavano ogni misura”[12].
Durante i 53 giorni della sua licenza l’uomo del momento attraversa la nazione da nord a sud “passando da un trionfo all’altro, da un banchetto all’altro, da un brindisi all’altro”[13], e quando ha modo di incontrare per pochi minuti Crispi e di parlargli della situazione in Eritrea, quest’ultimo “non volle udire parole di preoccupazioni e di dubbi circa le prossime probabili complicazioni ed espresse la ferma speranza in nuove vittorie[14].
Le nefaste conseguenze di questa politica coloniale avventurista, ardita e dispendiosa più di quanto le forze economiche e militari italiane possano sopportare, si materializzano in breve tempo. Menelik II, dopo aver appreso che il Baratieri ha osato spingersi fino ad Adua, si convince definitivamente della necessità di impartirgli una bella lezione, non avendo ormai più alcun dubbio sull’ambizione dei militari di Massaua e sui loro mai sopiti sogni di conquista.

Forte dell’appoggio diplomatico di Francia e Russia, che lo riforniscono di munizioni e artiglieria moderna, il negus, dopo aver stabilito un piano d’azione, l’8 maggio lascia la capitale per dirigersi verso nord, con un esercito che secondo le stime ufficiali più attendibili è composto da circa 130 mila uomini.
La battaglia di Adua del 1896: le prime operazioni militari
Dopo il rientro in Africa, il governatore italiano si limita a fortificare gli ultimi avamposti occupati, ma continua a sottovalutare l’offensiva etiopica, che probabilmente ritiene essere solo un’azione puramente dimostrativa. Una prova di ciò è data dalla lettera che scrive il 23 novembre al Ministro degli Esteri per informarlo sulle novità in territorio africano, senza perdere l’occasione di sminuire le forze a disposizione di Menelik. Dopo aver annunciato che Menelik è in cammino con non più di 30 mila uomini, Baratieri si arrischia a precisare:
Una cifra tonda di 30.000 uomini non è certo molto ragguardevole dato il nostro ascendente militare e politico, dato il nostro ordinamento, disciplina, unità di direzione e di azione rispetto alle truppe scioane; data la nostra rapidità e coesione nelle marcie e nei combattimenti; date le profonde scissure fra i capi nemici, il malcontento nelle popolazioni e il timore nei soldati, segnalato da parecchi informatori[15].
Tenendo presente questa missiva, grande è lo stupore di Baratieri quando viene informato della caduta di Amba Alagi (7 dicembre 1895), dove muoiono il maggiore Pietro Toselli e i suoi uomini, e di Macallè il successivo 22 gennaio, a seguito di accordi fra Menelik e Baratieri, il quale ottiene un salvacondotto per le truppe del maggiore Galliano che hanno salva la vita in cambio della cessione del forte. Rimpossessatosi di queste due importanti piazze, Menelik non perde tempo e il 20 febbraio avvia una manovra di accerchiamento, che lo avrebbe condotto di lì a poco di fronte agli invasori bianchi.
In quegli stessi giorni, nelle file italiane regnano l’incertezza e le divisioni tra i capi: da una parte vi è chi, come Baratieri, si rende finalmente conto del pericolo incombente e, dall’altra, i generali appena giunti dall’Italia con i rinforzi[16], per la maggioranza digiuni di questioni coloniali, che non prendono in considerazione nemmeno per un secondo “la possibilità che un esercito bianco” possa permettersi di soccombere “di fronte ad un avversario indigeno”[17].
La battaglia di Adua del 1 marzo 1896: il piano di guerra italiano e gli schieramenti in campo
Il consiglio di guerra fra i vari generali, svoltosi il 28 febbraio, con le truppe italiane ormai vicinissime a quelle etiopiche, non serve a stabilire un piano chiaro; viene deciso soltanto di non restare fermi sulla propria posizione e di attaccare il nemico. Alle 21 del giorno seguente, il Corpo d’operazione si mette in marcia verso Adua, diviso in tre colonne: quella di destra, viene affidata al generale Vittorio Dabormida; quella di centro a Giuseppe Edoardo Arimondi avendo nelle retrovie Giuseppe Ellena; quella di sinistra a Matteo Albertone.
Stando al telegramma spedito a Roma da Baratieri, le forze a sua disposizione per il combattimento ascendono a 20.170 uomini, mentre l’esercito abissino conta circa 120 mila effettivi. Piuttosto che attendere l’urto etiopico da una posizione sicura e strategica, i generali italiani – che nemmeno dispongono di una sufficiente cartografia – lo provocano inconsapevolmente e, cosa ancora più grave, senza mantenere una formazione compatta tra i vari reparti, che, al contrario, si dividono e vengono costretti dalle circostanze ad affrontare il nemico separatamente.
«Signori, si dispongano con la loro gente e vediamo di finire bene»
(ultime parole del Tenente Colonnello Giuseppe Galliano prima di morire sul campo di battaglia)
Tra le truppe italiane la prima a subire numerose perdite è la brigata Albertone, il cui sfacelo si consuma tra le ore 6 e le 11 di quel nefasto 1 marzo 1896 e, nel tardo pomeriggio, cadono anche gli altri reparti tra cui il battaglione Arimondi e quello indigeno di Galliano, schiacciati dalla superiorità organizzativa dell’avversario; la sera i pochi superstiti della brigata Dabormida riescono, dopo la morte in battaglia del generale Vittorio Dabormida, ad effettuare la ritirata sotto la guida del colonnello Ragni.
La battaglia vede l’esercito africano avere la meglio “sul numero, sulla tattica e sugli armamenti moderni del Corpo di spedizione agli ordini di Baratieri”[18. L’esperienza del combattimento di quel fatidico giorno è terribile e scioccante per molti soldati italiani sopravvissuti:
Diversi si suicidarono in quel momento, fra cui il tenente Pastore, altri, affranti, si fecero massacrare senza opporre più alcuna resistenza. Parte, infine, seguendo l’esempio dei primi, si sbarazzarono anche essi di tutto quello che poteva riuscire d’impaccio, per potersi mettere in salvo più facilmente[19].
Il bilancio finale dello scontro è gravissimo sia per gli italiani (“289 ufficiali, 4.600 soldati nazionali e circa 1.000 ascari morti, 1.500 feriti e 2.700 prigionieri”[20]), che per gli abissini (oltre 10 mila caduti e quasi 20 mila feriti). Come ha ricordato lo storico Denis Mack Smith, “in quell’unico giorno gli italiani perdettero quasi altrettante vite umane che in tutte le guerre del Risorgimento messe insieme”[21].
E’ questo il primo, vano, tentativo italiano di conquista dell’Etiopia. Le truppe vengono ritirate, agli abissini è pagata una pesante indennità per la quale vengono addirittura fuse le monete d’argento con l’effige di re Umberto I di Savoia, che sono entrate da poco in circolazione.
Conseguenze in Italia della sconfitta di Adua
Attacco scioani impetuoso avvolgente da destra e sinistra obbligò truppe ritirata che si trasformò in un rovescio[22].
Questo primo messaggio, relativo allo scontro di Adua giunge a Roma, come un fulmine a ciel sereno, la sera del 2 marzo e, da quel momento, altri dispacci si susseguono a ritmo incalzante, dando mano a mano un primo quadro della sconfitta. La notizia è un colpo durissimo per il Paese e causa delle gravi ripercussioni interne. Dopo aver preso tutte le misure di ordine pubblico ritenute necessarie il governo, nella notte, decide di diramare la nefasta notizia.

Nonostante le precauzioni adottate dalle autorità le forze dell’ordine riescono a fatica a contenere la furia dell’insurrezione popolare che coinvolge tutte le più grandi città della penisola; nei disordini di Milano del 3 rimane ucciso un operaio diciannovenne, si tratta di Carlo Osnaghi, abbattuto da un colpo di baionetta partito inavvertitamente.
Anche l’opposizione anticoloniale coglie la drammatica situazione per rialzare la testa e far sentire forte la propria voce. La situazione è talmente incandescente che nei giorni successivi alcuni temono addirittura una crisi istituzionale: il sovrano Umberto I di Savoia, affranto per la drammatica situazione in cui versa la nazione in quelle ore, inizia a pensare ad una possibile abdicazione.
Alla fine la crisi politica si risolve il 5 marzo quando, mentre una folla tumultuosa si raduna a Montecitorio, Crispi è costretto a rassegnare le dimissioni che vengono accolte con un sospiro di sollievo dalla Camera con il grido liberatorio di “Viva il Re”.
Con Adua, che rappresenta la più pesante sconfitta di un paese europeo in epoca imperialista, l’Italia esce battuta non soltanto dallo scontro con l’Etiopia, ma anche annientata nelle sue velleità di grande potenza. Il fallimento politico e militare, sembra a quel punto essere totale. Tuttavia, tale catastrofe paradossalmente consegue un effetto benefico: l’elaborazione di una coscienza coloniale, sino a quel momento completamente assente nel paese.
Note:
[1] Giancarlo Giordano, Cilindri e feluche: la politica estera dell’Italia dopo l’Unità, Aracne, Roma, 2008, p. 311.
[2] Ibidem p. 312.
[3] Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 73.
[4] Trattato di amicizia e commercio fra Etiopia e Italia, che prende il nome dal villaggio di Wechale, dove viene sottoscritto il 2 maggio 1889, tra il conte Pietro Antonelli, plenipotenziario italiano, e Menelik, negus dello Scioà. Composto di 20 articoli, redatto in lingua italiana e amarica.
[5] Labanca, op. cit. p. 75.
[6] Achille Bizzoni, L’Eritrea nel passato e nel presente, 1897, p. 272 in Del Boca, op. cit. p. 489.
[7] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. Dall’unità alla marcia su Roma, Mondadori, Milano, 2001, p. 491.
[8] Oreste Baratieri, Memorie d’Africa, 1892-1896, Bocca, Torino, 1898, p. 20.
[9] Labanca, op. cit. p. 76.
[10] Sull’atteggiamento dell’opinione pubblica riguardo al colonialismo si veda, Guido Pescosolido, Il dibattito coloniale sulla stampa italiana e la battaglia di Adua, in “Storia Contemporanea”, n.4, 1973.
[11] Dichiarazione del deputato socialista Andrea Costa alla Camera dei Deputati dopo la sconfitta di Dogali, 3 febbraio 1887, in Atti Parlamentari, Discussioni della Camera, 3 febbraio 1887. Da “Il colonialismo italiano” La prima guerra d’Africa. La condanna radicale di Costa rimane isolata: una dozzina di voti su più di 300.
[12] Baratieri, op. cit. p. 175.
[13] Del Boca, op. cit. p. 553.
[14] Baratieri, op. cit. p. 183.
[15] Op. cit. p. 126, in Del Boca, op. cit. p. 582.
[16] La maggioranza dei reparti italiani è composta da militari di leva, sorteggiati dai loro reggimenti per prestare servizio in Africa. Poiché composti di uomini di varia provenienza essi mancano di spirito di corpo o di esperienza bellica, oltre che di un addestramento adeguato all’ambiente in cui sono stati inviati a operare. L’equipaggiamento è di bassa qualità, soprattutto per quanto riguardava le scarpe, mentre per esigenze di uniformità di munizionamento fra reparti italiani e indigeni sono riequipaggiati con un fucile antiquato, in luogo del Carcano mod. 91, con il quale quelli provenienti dall’Italia sono stati addestrati.
[17] Labanca, op. cit. p. 81.
[18] Labanca, op. cit. p. 82.
[19] G. Tedone, Angerà, Giordano, Milano, 1964, p. 20.
[20] Del Boca, op. cit. p. 691.
[21] Denis Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Laterza, Bari-Roma, 1987, p. 277.
[22] Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Roma, 1993, p. 53.
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- Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano. Documenti, Loescher, Torino, 1973.
- J. L. Miege, L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 1976.
- Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. Dall’unità alla marcia su Roma, Mondadori, Milano, 2001.
- Francesco Surdich (a cura di), L’esplorazione italiana dell’Africa, Il Saggiatore, Milano, 1982.
- Giampiero Carocci, L’età dell’imperialismo, Il Mulino, Bologna, 1979.
- Eric Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, Laterza, Roma-Bari, 1987.
- Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2017.
- Giancarlo Giordano, Cilindri e feluche: la politica estera dell’Italia dopo l’Unità, Aracne, Roma, 2008.
- Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993.
- Del Boca (a cura di), Adua. Le ragioni di una sconfitta, Laterza, Bari-Roma, 1998.