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Attacco a Pearl Harbor: il Giappone bombarda gli Stati Uniti

All'alba del 7 dicembre 1941 le forze aeronavali giapponesi attaccano la flotta americana stanziata a Pearl Harbor, nelle isole Hawaii.

di Valerio Spositi
7 Dicembre 2020
TEMPO DI LETTURA: 5 MIN
Attacco Pearl Harbor

La USS Arizona colpita dall'aviazione giapponese, 7 dicembre 1941

CONTENUTO

  • Antefatti: l’espansionismo giapponese
  • Le sanzioni americane
  • L’attacco giapponese a Pearl Harbor
  • Gli Stati Uniti sapevano dell’attacco a Pearl Harbor?
  • Le conseguenze dell’attacco a Pearl Harbor

All’alba del 7 dicembre 1941 l’aviazione giapponese attacca la flotta americana stanziata a Pearl Harbor, nelle isole Hawaii. Gli Stati Uniti vengono così trascinati all’interno del secondo conflitto mondiale, trasformandolo definitivamente da conflitto prettamente europeo ad uno di scala globale.

Antefatti: l’espansionismo giapponese

La decisione giapponese di sferrare un attacco contro gli Stati Uniti arriva alla fine di un percorso di preparazione militare e politica e segna la più grande sfida che l’imperialismo del paese del Sol Levante può lanciare al loro maggior avversario nell’area dell’Oceano Pacifico.

Pearl Harbor rappresenta sicuramente il culmine di una progressione imperialistica del Giappone, apertamente manifestatasi con la conquista della Manciuria agli inizi del 1932; un elemento che aveva destato già a quel tempo le preoccupazioni degli Stati Uniti.
Sin dagli anni ’20 all’interno dell’establishment giapponese si contrappongono diverse linee di politica estera: una ritiene che il paese debba guardare con favore alla Società delle Nazioni e allo status quo – una posizione che a metà degli anni ’30 diventa minoritaria; un’altra, più apertamente imperialistica, si divide fra chi ritenga l’Unione Sovietica il nemico principale e chi, invece, ritiene che l’indebolimento delle potenze occidentali si traduca in un allentamento del loro controllo sulle colonie in Asia. E’ proprio verso quest’ultima che il Giappone sembra iniziare a spostarsi.

Fin dall’autunno del 1940, i giapponesi impongono al governo francese di Vichy lo stanziamento dei loro militari nell’Indocina, allora controllata dalla Francia. Nel giro di qualche mese, il controllo francese diviene solo di facciata mentre l’Indocina è de facto occupata interamente dai giapponesi. Lo scopo di questa iniziativa è bloccare tutti i traffici che, attraverso l’Indocina, continuano ad alimentare la resistenza cinese contro il Giappone. Mano a mano che l’espansionismo giapponese si allarga nel Sud del continente asiatico, la posizione degli anti-sovietici inizia ad indebolirsi, tanto che nella primavera del 1941 il ministro degli esteri giapponese Matsuoka firma con Stalin un patto di non aggressione.

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Le sanzioni americane

Da parte statunitense, l’espansionismo giapponese in Indocina non resta inosservato. Man mano che il Giappone avanza nella sua progressione egemonica sull’Asia meridionale, gli Stati Uniti iniziano ad attuare delle contro-misure. La prima è un embargo contro l’esportazione di minerali ferrosi dagli Stati Uniti alla quale segue la chiusura del Canale di Panama alle navi giapponesi. L’economia giapponese subisce un colpo durissimo in quanto non è ancora in grado di produrre materie prime e pertanto è costretta a dipendere dalle importazioni; chiudere ai giapponesi il Canale di Panama significa obbligarli a circumnavigare il continente americano mentre l’embargo sui minerali ferrosi si ripercuote pesantemente sul complesso industriale giapponese.

Nonostante i danni prodotti dalle contro-misure americane, il Giappone non intende ritirarsi dall’Indocina francese. Così, gli Stati Uniti decidono di congelare le proprietà giapponesi sul territorio americano e attuare un embargo anche sull’esportazione di petrolio. Il Giappone, infatti, ne importa circa l’80% dagli Stati Uniti i quali sperano che questa linea dura possa condurre i giapponesi a negoziare e ad interrompere le operazioni militari in Indocina. I negoziati, però, sembrano andare verso un vicolo cieco: il Giappone intende continuare la sua politica imperiale sino ad occupare tutta l’Asia sud-orientale. Il perseguimento di questa fermezza ideologica rientra nell’obiettivo giapponese di formare la grande sfera di co-prosperità asiatica, dove il paese del Sol Levante, ergendosi a paladino dei popoli oppressi, pone fine al dominio coloniale europeo e riscatta il continente asiatico. Nonostante questa nobile narrazione, il dominio giapponese nei territori occupati non si mostra però migliore di quello europeo ma, in alcuni casi, persino più violento ed autoritario.

La fermezza mostrata dai giapponesi nel perseguire il loro disegno imperialistico li porta a pensare, qualora il negoziato con gli americani si concluda in un nulla di fatto, di attaccare l’unica potenza navale rimasta nell’Oceano Pacifico: proprio gli Stati Uniti.

Attacco Pearl Harbor
La USS Arizona colpita dall’aviazione giapponese, 7 dicembre 1941

L’attacco giapponese a Pearl Harbor

In questo contesto di fomento ideologico e spirito militaresco, il Giappone, dopo aver attentamente pianificato l’operazione, il 26 novembre autorizza la partenza della propria flotta verso Pearl Harbor, a circa 5000 miglia di distanza dal proprio territorio. All’alba del 7 dicembre 1941, le forze aeronavali giapponesi attaccano la base americana di Pearl Harbor, cogliendola di sorpresa e distruggendola quasi completamente.

Inizialmente, i primi attacchi giapponesi avvengono con dei sommergibili ma senza grande successo; infatti, verranno tutti distrutti. Poco prima delle 8, però, l’aviazione giapponese, composta da bombardieri, portaerei e aerosiluranti e comandata dai capitani Fuchida e Shimazaki, inizia i pesantissimi bombardamenti contro la flotta americana. I danni sono pesantissimi. Tutta la flotta americana viene distrutta salvo due portaerei che sono fuori per un’esercitazione. Nemmeno le forze aeree della USAAF (United States Army Air Force) riescono a garantire una difesa adeguata in quanto, proprio a causa dell’effetto sorpresa dell’operazione, non riescono a decollare in tempo da contrastare efficacemente l’aviazione giapponese.

Gli Stati Uniti sapevano dell’attacco a Pearl Harbor?

Nel corso degli anni sono nati diversi interrogativi sul fatto se gli Stati Uniti si aspettassero o meno un attacco e se lo aspettassero proprio a Pearl Harbor. Ma cosa sapevano realmente gli americani?

I servizi segreti americani nel 1941 non sono ancora un apparato così efficiente e non hanno una struttura centralizzata che filtri e codifichi le informazioni e le comunichi a Washington. Nonostante queste carenze, i servizi americani riescono ad entrare in possesso di un cifrario con il quale il Giappone trasmette i telegrammi alle diverse ambasciate. Da questo momento gli americani sanno che i giapponesi potrebbero star preparando un attacco contro di loro ma non hanno la certezza del luogo esatto. In base alle informazioni in loro possesso, gli americani si aspettano un attacco nelle Filippine, un loro protettorato sin dalla fine della guerra del 1899-1902.

Oltre al fattore intelligence, gli americani sono influenzati anche dal pregiudizio razziale. Infatti, pensano che i giapponesi non siano in grado di condurre un’operazione così sofisticata e peraltro senza che loro possano scoprirlo.

Ma allora cosa c’è scritto nel codice intercettato dai servizi americani?

La sera del 6 dicembre, l’ambasciata giapponese a Washington riceve un lungo telegramma, prontamente intercettato dai servizi di intelligence statunitensi. Decriptare il messaggio non è assolutamente un lavoro facile e, a primo impatto, sembra una dichiarazione di guerra sebbene i termini siano abbastanza ambigui. Il lavoro degli agenti dura diverse ore ma, una volta terminato e decifrato il messaggio, l’attacco a Pearl Harbor è già iniziato.

Nel documento decifrato, comunque, non si trova nessuna indicazione sul dove e quando avverrà l’attacco. Il contenuto si sofferma sull’insostenibilità delle pressioni americane da parte dei giapponesi, i quali intendono reagire interrompendo le relazioni diplomatiche e iniziando a prendere in considerazione l’opzione militare.

Le conseguenze dell’attacco a Pearl Harbor

Il bombardamento di Pearl Harbor viene immediatamente condannato da Franklin Delano Roosevelt come il Giorno dell’Infamia. A 24 ore dall’evento, l’8 dicembre 1941, il presidente degli Stati Uniti chiede ed ottiene dal Congresso, senza alcuna difficoltà, la votazione di una dichiarazione di guerra contro il Giappone. Poco dopo, in ottemperanza agli impegni assunti nel Patto Tripartito, Germania e Italia dichiarano guerra agli Stati Uniti.

Se fino ad allora gli Stati Uniti erano riusciti a rimanere fuori dal conflitto, con l’attacco giapponese alla base di Pearl Harbor il conflitto bellico, che fino ad allora era concentrato in larga maggioranza sul continente europeo, si estende su scala mondiale. La guerra, dopo Pearl Harbor, diviene veramente un’altra guerra mondiale.

Tags: Battaglie Seconda Guerra Mondiale
Valerio Spositi

Valerio Spositi

Ph.D. in Storia degli Stati Uniti presso l'Università degli Studi di Roma Tre. Nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Relazioni internazionali ad indirizzo storico presso l'Università degli Studi di Roma Tre con tesi di laurea in Storia degli Stati Uniti dal titolo: "There is a power in a band of workingmen". Ascesa e declino degli Industrial Workers of the World, 1905-1918. Ha conseguito diversi corsi di specializzazione post-laurea in Storia, Politica e Società degli Stati Uniti d'America presso il Center for American Studies e in Storia Contemporanea presso il CISPEA (Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euro-Americana). Ha ottenuto due pubblicazioni sulla rivista European Affairs Magazine. Caporedattore di Fatti per la Storia, cura i rapporti con le Università. Fa parte del Comitato-Scientifico.

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