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Genova, vivaio della democrazia repubblicana
Siete mai stati a Genova? Se vi avventurate “in quella vecchissima parte di che si arrampica e affastella sul fianco della collina al di sopra del porto”, passeggiando per “le viuzze cupe e senza sole” del centro storico (i caruggi), vi troverete indietro nel tempo, ad immaginare il via vai di carbonari ed insorgenti impegnati a preparare i moti risorgimentali. La città che con qualche ragione si sente “vivaio della democrazia repubblicana” e che tanta parte ebbe nell’unificazione dell’Italia ospita la casa che vide il giovane Giuseppe Mazzini permearsi delle idee rivoluzionarie e nazionalistiche che diedero carburante a tante insurrezioni popolari.
Ora è trasformata in Istituto di studi che porta il nome dell’“apostolo della democrazia”, ed accoglie un Museo del Risorgimento. Se accedete e chiedete di visionare documenti sui carabinieri, vi accoglieranno con cortesia e vi chiederanno con un sorriso: “sabaudi o genovesi?”, accompagnandovi a visitare una stanza museale dedicata a questi ultimi, dei quali vi narreranno le gesta. Eh già, pochi lo sanno, ma se i primi furono voluti nel 1814 da Vittorio Emanuele I per ripristinare ordine e sicurezza pubblica nel Regno riconsegnatogli dal Congresso di Vienna, i secondi – che, chiariamolo subito, nulla hanno a che fare con i più famosi – sono stati protagonisti di battaglie risorgimentali e dell’impresa più nota ed iconica, quella dei Mille.
A capeggiarli, un personaggio che già nell’aspetto dava l’impressione di leader carismatico e trascinatore, con la sua “barba interminabile alla quale non vuole rinunciare” come lo descrisse lo stesso Mazzini, che pare in altra circostanza aggiunse “non beve, non fuma, non bestemmia, ha il vizio di non avere nessun vizio”. Carattere riservato e temperamento imperturbabile, Antonio Mosto, apparentemente burbero fondatore dei Carabinieri Genovesi, quando in una circostanza si trovò al cospetto di re Vittorio Emanuele II, non mancò di commuoversi, balbettando quando il sovrano lo congedò:” è un gran magnetizzatore… ed un gran cuore”.
In tanti hanno arricchito il periodo risorgimentale, e talvolta richiamano la curiosità di un passante perché hanno intitolata una via, o una piazza. Dietro quella lastra di marmo che riporta il loro nome, vi è sempre una storia di coraggio e rinuncia, siano essi personalità ricordate nei libri di scuola o uomini e donne che hanno dato comunque il loro importante contributo all’unificazione guidata dai Savoia. Antonio Mosto è proprio uno di questi ultimi. Sacrificio, dedizione, una vita – come si diceva un tempo – consacrata alla causa. Fu costretto all’esilio ed incarcerato, perse un fratello nell’impresa dei Mille, lui stesso rimase gravemente ferito in battaglia e patì per le conseguenze dell’infermità, il cospicuo patrimonio della sua famiglia si dissolse per il perseguimento dello scopo più elevato.
Quando – a differenza di molti suoi compagni d’armi periti in battaglia – lasciò pacificamente il mondo terreno all’età di sessantasei anni per ricongiungersi a loro, Genova, la sua città di cui fu anche consigliere comunale, lo onorò con un corteo guidato dalla Giunta con cinquanta bandiere e tre bande musicali, l’esposizione di bandiere a mezz’asta, e quella dei Carabinieri Genovesi, che era stata donata da Garibaldi a Mosto a Caserta, che accompagnava il feretro. Il quotidiano Epoca esaltò in lui chi “tutto alla patria diede e che nato ricco, oggi muore in onorata povertà che non è l’ultimo dei suoi titoli di gloria”.
I fratelli Mosto, il “Tiro” genovese e la nascita dei Carabinieri
Pietro Antonio Giovanni Mosto nacque a Genova duecento anni orsono, il 12 luglio 1824, quarto di sette figli. Lo aveva preceduto Andrea e seguiti Carlo, di cui pure a breve parleremo. Agiata famiglia di commercianti impegnata nei traffici portuali di importazione ed esportazione, il giovane Antonio è di aiuto nelle attività e poco si dedica allo studio, piuttosto imbevendosi delle idee repubblicane che hanno in Genova – annessa al Regno di Sardegna – il loro crogiuolo e da cui nascono i primi moti carbonari, che vedono sin dal 1833 – quando Antonio è poco più di un bimbo – il sacrificio di Jacopo Ruffini, cospiratore mazziniano arrestato e condotto nella lugubre Torre Grimaldina del Palazzo Ducale, ove preferì togliersi la vita piuttosto che, sottoposto a tortura, tradire i propri compagni.
Guidato dalla spinta ideale di tali esemplari personalità, Antonio ed il fratello maggiore Andrea nel 1848 entrano nella Guardia nazionale istituita con lo Statuto albertino, una milizia civica concepita come forza civile e patriottica chiamata a svolgere un ruolo nella difesa dell’ordine e della sicurezza pubblica, e partecipano all’insurrezione milanese di quell’anno turbolento passata alla storia come “le Cinque Giornate”, arruolandosi in una compagnia intitolata a Mazzini, avendo come compagni d’armi i concittadini Goffredo Mameli e Nino Bixio.
I due fratelli partecipano all’assedio di Peschiera, rientrando nella propria città piuttosto scorati dall’esperienza, che ha insegnato loro che non si improvvisa un esercito di volontari efficiente, e che i Savoia (che dopo roboanti intendimenti avevano acceduto ad un armistizio), non paiono ancora così pronti e decisi a strappare il Lombardo-Veneto agli austriaci. Per il resto del biennio rivoluzionario 48-49 segnato dalle abortite Repubbliche di Roma e di Venezia, la documentazione storica su Mosto è curiosamente rarefatta, seppure lo ritroviamo nel Circolo italiano, un’organizzazione di tendenza mazziniana che vede tra i partecipanti l’inseparabile fratello maggiore, lo stesso Bixio e Luigi Lomellini, nella quale si afferma che “il popolo genovese vuole essere a qualunque costo italiano… Le Alpi devono essere il confine e Roma il cuore d’Italia”.
Intanto la propaganda mazziniana si diffonde a livello popolare attraverso le neo costituite associazioni operaie di mutuo soccorso, riunite dall’agosto 1853 in una Consociazione. Ed è in questo periodo preparatorio che Antonio dà vita alla sua “creatura”: intanto viene costituito a Genova il 30 marzo 1851 il “Tiro Nazionale” protagonisti tra gli altri Antonio Burlando, Nino Bixio, Francesco Bartolomeo Savi, fraterno amico di Mosto e segretario dell’ente. È il 24 marzo del 1852 quando l’assemblea generale dei soci riunitasi in casa Mosto, superate molte difficoltà, anche finanziarie, delibera la creazione effettiva del “Tiro” per il successivo 28.
È la data di nascita ufficiale dei Carabinieri Genovesi, volontari chiamati ad addestrarsi al tiro a segno in un poligono che viene individuato appena fuori dalle mura cittadine di allora, in quello che è attualmente conosciuto come quartiere Foce, ospitante il noto Salone Nautico. Il locale è lungo 200 metri e largo tra i 12 ed i 14 e viene sistemato per l’esigenza grazie alle donazioni di 300 sottoscrittori. Si trova nei pressi o forse è parte del lazzaretto costruito nel XV secolo nella piana sulla sponda sinistra del fiume Bisagno, edificato per l’isolamento e il ricovero dei malati contagiosi e dei passeggeri delle navi soggetti a quarantena in occasione di epidemie.
Lo scopo, a prima lettura, è più che lecito: addestrarsi al tiro con carabine del tipo “mod. 1851” fabbricate in Belgio, al fine di “preparare abili difensori alla patria”. Ma anche uno svogliato poliziotto del tempo intuisce la volontà di preordinare al combattimento volontari da portare in battaglia quando verrà il momento: formare il “soldato cittadino” in una mazziniana “nazione armata”. Sarà lo stesso municipio a sussidiare con la somma di 1.000 lire il “Tiro”: nel poligono si addestrano infatti anche i militi della Guardia Nazionale.
Lecito chiedersi se il nome del Corpo provenga in qualche maniera da quello sabaudo. Ebbene, così non è. Piuttosto l’ispirazione viene dai carabinieri svizzeri, che ebbero origine all’inizio di quel secolo in compagnie che i cantoni avevano preparato formandole con tiratori che presero il nome dalla carabina in dotazione, e che si ritrovavano nelle feste federali di tiro (la prima risale al 1824) con gare, conclusesi – naturalmente – con ricche mangiate. In questo i carabinieri genovesi non si discostano: partecipano alle feste del tiro in località anche distanti, e proprio nel 1852 ritroveremo due di loro concorrere (e vincere) in gare indette dal “Tiro Ticinese”.
Tornando al lazzaretto-poligono, i nostri, che hanno in proprio disponibilità economica per comprare l’arma e acquistare le munizioni, al fine di addestrare anche gli operai all’uso delle armi consentono durante il primo anno di attività ai lavoratori di intervenire gratuitamente nei giorni festivi alle esercitazioni di tiro, ed a concorrere ai premi al pari dei soci effettivi. Così il luogo diviene punto di ritrovo domenicale di artigiani ed operai, ed ogni mese coloro che lo frequentano si sfidano nelle gare di tiro, vincendo premi che comprendono ritratti di Mazzini e di Garibaldi. Lo stesso Antonio Mosto risulta essere tra i migliori tiratori. Non mancano le “passeggiate militari” fuori porta, nei comuni limitrofi, venate di patriottismo, durante le quali i partecipanti si esaltano ai discorsi inneggianti all’unità italiana.
Il tentativo di Pisacane e l’insurrezione soppressa di Genova
Il pensiero mazziniano impera; egli stesso per meglio seguire i tentativi insurrezionali è nascostamente presente nella sua città, e nella circostanza i fratelli Mosto hanno occasione di conoscerlo. Il Comitato del Tiro invia un saluto pubblico in occasione di una sosta a Genova di Jessie White, attivista inglese a favore della causa nazionale italiana, che sarà considerata una “reporter del Risorgimento italiano”, stimata da Garibaldi e benvoluta da Mazzini, e che ritroveremo a Monterotondo anni dopo come infermiera di Mosto. La White raccoglierà e pubblicherà gli ultimi scritti di Carlo Pisacane.
Questi, ex ufficiale borbonico, spinto dalla sua fede nel radicalismo socialista ed in accordo con Mazzini, a dispetto del prevedibile insuccesso rimarcato dai fedeli mazziniani Saffi e Bertani, proprio da Genova predispone una insurrezione nel Cilento e nel Vallo di Diano, nel salernitano, nella speranza di fornire la scintilla per l’auspicato sollevamento del Meridione contro i Borboni. Nei propositi di Mazzini a tale impresa si devono accompagnare rivolte a Genova e Livorno.
Alla cruenta sconfitta di Pisacane si uniscono però i fallimenti dei moti mazziniani nei due capoluoghi. In quello ligure la soppressione – dovuta ad una delazione per la quale finirà ucciso l’anno successivo il presunto traditore – comporta centinaia di arresti. Antonio Mosto, che ha accompagnato al porto genovese la partenza di Pisacane e di una trentina dei suoi sul piroscafo Cagliari il 25 giugno 1857, riceve in tempo il contrordine ed evita di adempiere alla missione assegnatagli di impadronirsi della Darsena, ma altri cospiratori non avvisati procedono nel tentativo, che si risolve in un tafferuglio in cui rimane ucciso un soldato piemontese.
Il comportamento di Mosto è tale da non fornire prove della partecipazione, ma presto gli giunge notizia che verrà comunque arrestato: tra il 5 e il 6 luglio fugge a Londra a bordo di un piroscafo. Qui lavora come segretario di Mazzini, ma ad un certo punto deve anche svolgere una attività che sgravi la sua famiglia dal sostenerlo economicamente, e quindi si sposta a Manchester, dove inizia un commercio con l’Italia come rappresentante di prodotti alimentari. È lo stesso Mazzini a favorirlo con un suo conoscente: “Un italiano che ho proprio ora aiutato a stabilirsi a Manchester e raccomandato alle ditte greche come fornitore di prodotti italiani … è uno dei nostri, ottima persona, e che ha aiutato liberalmente la causa quando aveva denaro. Poi è andato a picco per varie cause”.
Nel frattempo, a Genova le indagini comprovano che Mosto con altri ha acquistato carabine e munizioni solo apparentemente destinate alle esercitazioni di tiro ma in realtà accantonate per l’insurrezione. Il processo si conclude con la condanna a morte sua e di Mazzini. Il suo fraterno amico Savi è punito con dieci anni di lavori forzati, nessuna prova, ma la sola colpa di dirigere l’“Italia del Popolo”, giornale dal quale aveva espresso parole di augurio per il tentativo di Pisacane.
Il Tiro riprende comunque la sua attività ed i Carabinieri Genovesi si preparano al battesimo del fuoco: quarantasei vanno ad ingrossare le fila dei “Cacciatori delle Alpi”, il Corpo di volontari posto sotto la direzione di Garibaldi e del suo Capo di Stato Maggiore Francesco Carrano, chiamato ad operare nella II Guerra di Indipendenza a fianco dell’esercito sabaudo e dell’alleato francese contro gli austriaci.
A guidarli il sottotenente Camillo Stallo, inquadrato nel battaglione formato da molti genovesi volontari, comandato da Nino Bixio, a sua volta sottoposto al colonnello Nicola Ardoino, da Diano Marina nell’imperiese, fedele mazziniano della prima ora nella Giovine Italia, tra i fondatori e in quel periodo “console” del “Tiro”, cui è affidato uno dei tre reggimenti, ciascuno di un migliaio di uomini, che costituiscono la mal equipaggiata brigata dei Cacciatori. A ben vedere – così come l’aveva pensata Cavour – una forza che rappresenta il sollevarsi della nazione.
Mazzini vede l’avventura come fumo negli occhi: “Il Regno Lombardo-Sardo diventerà moralmente una dipendenza francese. Per mezzo di altri acquisti già progettati nel sud, il Mediterraneo diventerà un lago francese”. Partecipa anche Carlo Mosto, fratello minore di Antonio. A conclusione dell’impegno, in un suo ordine del giorno, Carrano ha parole di apprezzamento per i Carabinieri Genovesi che “scoraggiarono il nemico con la precisione del loro tiro e col loro bel modo di contenersi sul campo di battaglia. Essi, inoltre, hanno per la prima volta pagato il loro tributo di sangue all’Italia in proporzione ben maggiore del resto della Brigata”.
L’impresa dei Mille ed il ruolo dei Carabinieri Genovesi
La pace di Villafranca voluta dalla Francia ed accettata dall’Austria e la conseguente acquisizione della Lombardia induce i sabaudi all’amnistia. Promulgata dal governo piemontese, consente a Mosto di rientrare nella sua città nel giugno di quell’anno e riprendere una intensa attività in vista della tanto auspicata impresa in Meridione. Quando il 4 aprile del 1860 a Palermo diciassette seguaci guidati dallo stagnino Francesco Riso – incoraggiato da un barone omonimo – al grido di “Viva l’Italia, Viva Vittorio Emanuele”, muovono dal loro quartier generale del convento della Gancia, i mazziniani genovesi intuendo la attesa scintilla insurrezionale, si riuniscono a casa Mosto per decidere di agire, se necessario anche senza Garibaldi.
L’azione di sostegno in loco di Rosolino Pilo (appositamente partito dal capoluogo ligure) fomenta le dimostrazioni dei palermitani e alimenta la sommossa sulle colline. Garibaldi giunge a Genova il 13 aprile, da Torino, ove si era recato in Parlamento per ostacolare la cessione della natìa Nizza alla Francia. Arrivato all’Albergo della Felicità, sito sul molo, nei pressi del Palazzo San Giorgio, chiede a Stefano Canzio (suo futuro genero), che lo accoglie: «Sono all’ordine, per andare in Sicilia, i Carabinieri Genovesi?». Il Generale si sposta poi a Villa Spinola, a Quarto, qualche miglio dal centro, ospite del veterano ed amico Augusto Vecchi. Lì si tengono riunioni e si attendono i necessari fucili, seppure si frappongono varie difficoltà. Intanto Cavour, di passaggio nel capoluogo ligure, segretamente a colloquio con un emissario di Garibaldi, sostiene “cominciare dal sud per rimontare verso il nord. Quando si tratta di queste imprese, per quanto audaci possano essere, il Conte di Cavour non sarà secondo a nessuno”.
Pur tra dubbi sulle possibilità di riuscita della spedizione e incertezze che fanno balenare la possibilità che l’impresa abortisca, infine Garibaldi prorompe in un “si andrà”. Grazie alla complicità di Giambattista Fauchè, agente della Società di navigazione Rubattino, nella tarda serata del 5 maggio Bixio ed i suoi si appropriano nel porto genovese dei vapori Piemonte e Lombardo, avvicinandosi alla costa di Quarto, ove un migliaio di volontari sono in attesa.
Tra di loro, al comando di Antonio Mosto che ha come vice il fido Bartolomeo Savi, spiccano trentacinque carabinieri genovesi (secondo Abba trentasette, secondo altri conteggi trentadue o quarantasei; si dovrà poi tener conto che molti passaggi di volontari avverranno tra i vari reparti; interessante notare che complessivamente i liguri saranno contati in 156). I carabinieri a differenza degli altri sono già armati delle carabine di loro proprietà, ed in divisa azzurro-grigia, tra quanti indossano invece abiti comuni e uno sparuto numero camicie rosse (solo a bordo furono assegnate le armi, ed a Palermo una cinquantina di camicie rosse, che pure saranno il simbolo della spedizione).
Garibaldi giunge abbigliato come le opere pittoriche lo rappresenteranno in seguito: pantaloni grigi a campana alla marinara, la camicia rossa stretta e raccolta alla cintola, arricchita da un taschino e da una catena da orologio, un fazzoletto di seta colorata annodato al collo, sulle spalle un poncio grigio ricordo delle imprese sudamericane, con calzato un feltro nero. Imbarcati sui due vapori, che attendono a largo, «quanti siamo in tutto?» domanda Garibaldi, «coi marinai siamo più di mille», gli rispondono, «eh! eh! quanta gente» sogghigna soddisfatto il Nizzardo. Al molo di Talamone – ove i vapori sostano per caricare le munizioni – viene letto il proclama di Garibaldi, che rinnova la parola d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele”, lasciando perplessi i mazziniani presenti, che avevano sperato che la spedizione piuttosto che quella sabauda portasse le insegne della cosiddetta “bandiera neutrale” auspicata da Mazzini.
Mosto e gli altri decidono di proseguire, pochi fedelissimi preferiscono dileguarsi e non continuare, amareggiando il Generale. La forza viene organizzata con ordine del giorno. Al Corpo di spedizione viene dato il nome di Cacciatori delle Alpi, a ricordo delle gesta compiute da molti dei volontari appartenuti nel 1859 a quella brigata: capo di Stato Maggiore è Sirtori, le compagnie sono in totale 8: Bixio, Orsini, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini, Cairoli, più quella dei Carabinieri Genovesi, comandante il capitano Mosto; questi ultimi si raccolgono a bordo del Lombardo, comandato da Bixio, “il secondo dei Mille”. Sbarcati l’11 a Marsala, aiutati dalla fortuna di trovare in porto due neutrali vascelli inglesi la cui presenza forse indusse quelli napoletani – pure nei pressi – a ritardare il cannoneggiamento per evitare uno scontro più rischioso, gli altri garibaldini si asserragliano in città, mentre i Carabinieri Genovesi sono lasciati a guardia del porto per impedire ai borbonici di sbarcare.
Giunti a Salemi, altri mille picciotti, armati di fucili all’ acciarino e tromboni, ingrossano le fila dell’impresa. È l’ora dello scontro con le truppe napoletane guidate dal generale Landi: intonando l’inno scritto da Mameli e musicato da Novaro, i garibaldini si mettono in marcia verso Calatafimi, incontrando in località Pianto Romano le truppe borboniche dell’8° Battaglione Cacciatori in esplorazione, al comando del maggiore Michele Sforza, che ordina l’attacco. Garibaldi, che inizialmente aveva intenzione di mantenersi sulla difensiva, è trascinato dalla foga dei Carabinieri Genovesi, e lancia le truppe all’assalto, arrivando a far quasi esclusivamente assegnamento sull’arma bianca.
I garibaldini sono in difficoltà, tanto che nel pieno della battaglia si vuole che il Generale – rifiutando l’ipotesi di indietreggiare – esclami a ragione: “qui si fa l’Italia o si muore!”, sino a quando non riescono a respingere le truppe napoletane, cui il Generale riconoscerà essersi battute con coraggio: “certamente non ho avuto in Italia combattimento così accanito né avversari così prodi”. I carabinieri contano nella battaglia cinque morti e dieci feriti. I garibaldini proseguono la loro marcia verso la capitale siciliana, quando il 25 maggio in località Parco nei pressi di Monreale, i Carabinieri Genovesi devono sostenere un assalto degli avversari per proteggere i “picciotti” volontari siciliani, ma presto la soverchiante forza nemica ha la meglio.
Nello scontro perde la vita Carlo Mosto, il fratello minore di Antonio, ventiquattrenne neolaureato in legge all’università di Siena, seppure le prime notizie lo diano catturato assieme ad un altro carabiniere che manca all’appello. Sarà questi, una volta liberato conquistata Palermo, a testimoniare sulla vicenda, indicando il luogo ove Carlo era stato ucciso a colpi di baionetta e dove il fratello Antonio, otto giorni più tardi, ne ritroverà il corpo per dargli degna sepoltura.
Giunti il 27 maggio alle porte di Palermo per via sud-est, dopo una manovra diversiva che aveva attirato verso l’interno le preponderanti forze borboniche – complessivamente difesero la città 20.000 soldati -, i garibaldini (ora ridotti a 750 volontari, cui si assommano le così dette squadre dei circa tremila insorgenti ma inesperti picciotti, raccolti lungo il cammino dal siciliano La Masa), entrano in città da Ponte dell’Ammiraglio dove vengono accolti da una scarica di fucileria. I Carabinieri Genovesi e due compagnie di Bixio, sollecitati da Garibaldi, superano la resistenza ed il fiume Oreto, ma nei pressi della Porta Termini il cannoneggiamento ed il tiro dei borbonici sbanda i picciotti.
Resosi conto dell’imperizia nel tiro avversario, il ventenne carabiniere genovese Francesco Carbone, per rincuorare i timorosi siciliani, si fa beffe dell’incapacità dell’avversario, piazzandosi su una sedia su cui sventola il tricolore, in mezzo allo stradone che conduce alla porta, fra il sibilare dei fortunatamente mal diretti proiettili. I nostri si distinguono nello scontro presso il Convento dei Benedettini: Antonio Mosto si piazza sul campanile del Monastero operando con la sua carabina come un “tiratore scelto” e costringendo gli artiglieri avversari a cessare il fuoco, mentre il giovane Carbone ed altri sono feriti. Per il fatto del Convento il reparto dei Carabinieri Genovesi sarà dichiarato meritevole di onorevolissima menzione. Manca una lista delle perdite subite dai due schieramenti nelle tre giornate di combattimenti dal 27 al 30 maggio. I borbonici contano 800 feriti e più di 200 morti. I vincitori molte centinaia di caduti, comprese le vittime del bombardamento sulla città operato dalle navi napoletane.
La campagna prosegue. I borbonici dopo una tregua abbandonano la città mentre affluiscono i rinforzi (la “Brigata Medici”) e munizioni per i garibaldini. Questa parte di forza muove, guidata da Garibaldi e con i carabinieri, verso Milazzo, dove il 20 luglio si scontra con i “regi” del colonnello Bosco, già noto per le sue intemperanze nel periodo di tregua palermitana. È una ulteriore tappa fondamentale per la riuscita dell’Impresa, una battaglia che passerà alla storia per il rischio che corse lo stesso Garibaldi, salvato dal capo delle Guide Giuseppe Missori e protetto dai Carabinieri Genovesi e che costa a questi ultimi l’elevato numero di 12 morti e 20 feriti. Lo stesso Mosto è ferito ad una gamba, non gravemente.
La marcia prosegue, mentre il Corpo ingrossa le proprie fila, giungendo a 180 militi. Il battaglione (Mosto è stato promosso al grado di maggiore) risale la Calabria, giungendo infine a Napoli e quindi il 19 partecipa allo sfortunato scontro di Caiazzo, allorquando il maggiore Cattabeni oltrepassa il Volturno con una colonna di circa ottocento uomini, per venire respinto dalle truppe borboniche. Tre carabinieri rimangono feriti. Lo stesso Garibaldi scriverà:” l’operazione di Caiazzo fu, più che un’imprudenza, una mancanza di tatto militare da parte di chi la comandava”.
Siamo ormai a cavallo di settembre e l’inizio di ottobre quando si combatte la battaglia finale per la presa del Regno delle Due Sicilie: quella del Volturno, nei pressi di Caserta, che ricaccia i 30.000 soldati del Generale Ricucci schierati da Francesco II, impedendogli il tentativo di riconquistare Napoli. Il 6 novembre, Garibaldi aduna nella piazza principale di Caserta le truppe, per dargli il suo addio e liberarle, essendo conclusa in sei mesi la missione di quello che nel frattempo è divenuto “Esercito Meridionale”.
Garibaldi consegna ai volontari di Mosto – giunti al numero di poco meno di cinquecento, divisi in due compagnie – una bandiera finemente lavorata, opera di donne napoletane, rievocante nei ricami le imprese maggiori della liberazione del Mezzogiorno. Mosto si impegna nel suo ordine del giorno a:” custodire questa bandiera con religiosa venerazione, finché il Generale del popolo non ci chiami un’altra volta a spiegarla a Venezia e a Roma”.
Egli si trattiene ancora nel napoletano per accompagnare Mazzini, lì presente, come scopriremo in una lettera richiestagli decenni più tardi da una donna che vuole comprovare che il 20 novembre Mazzini è stato ospite a Vasto nella casa del proprio padre. Mosto conferma alla donna che “venne ospitato il sommo apostolo dell’unità e libertà … assieme all’umile sottoscritto che ebbe in quell’ epoca la ventura e l’onore di essere compagno di viaggio da Napoli a Genova a quel grande ed impareggiabile patriota”.
Sono 165 i Carabinieri Genovesi che rientrano nella loro città il 15 dicembre. Agli originari 1089 componenti la spedizione (i “Mille di Marsala”), così come censiti successivamente, compresi Antonio e Carlo Mosto, sarà conferita la medaglia commemorativa voluta dal Consiglio Civico della città di Palermo, ed al primo assegnata una pensione vitalizia. Il 20 dicembre 1861 Garibaldi invia da Caprera una lettera alla Società dei Carabinieri Genovesi, ringraziandoli dell’opera svolta e dell’onore di averlo eletto presidente della Società stessa.
Alla costituzione del Regno d’Italia, Vittorio Emanuele II con regio decreto n. 2174 del 4 marzo 1865 istituisce la medaglia commemorativa delle Guerre combattute nel 1848, 1849, 1859, 1860 e 1861 per l’indipendenza e l’unità d’Italia e la concede a tutti coloro che avevano combattuto nella prima guerra di indipendenza del 1848-49, nella seconda guerra di indipendenza del 1859 e nella spedizione dei Mille, definita “campagna per l’Italia Meridionale” del 1860-61.
Nel suo ordine del giorno Mosto aveva evidenziato l’argomento che preme ai patrioti: mancano ancora Venezia e Roma perché si possa parlare di unità compiuta. L’esperienza dei Carabinieri Genovesi e del loro addestramento diventa di esempio per i Comitati garibaldini che nascono nel resto del Regno: viene fatto conoscere che al Generale “sta molto a cuore che si tenga esercitata alle armi la gioventù” e viene inviata copia dello Statuto della Società del Tiro Nazionale in Genova “perché cotesto Comitato promuova costà l’imitazione di una società di Tiro sulle stesse basi”. Ciò evidentemente con il tacito consenso del governo avviene anche Milano, ove si forma nel 1862 una Associazione di tiro a segno che dà vita ai Carabinieri Milanesi, per addestrare i volontari all’uso delle armi e che in effetti ritroveremo, affiancati a nostri, seppure con altro nome, quattro anni dopo nella III Guerra d’Indipendenza.
L’impegno nella III Guerra d’indipendenza con i Bersaglieri Genovesi
A Genova, intanto, nonostante si proclami tra le fazioni uno spirito collaborativo, di fatto mazziniani e garibaldini rimangono divisi: si giunge alla costituzione di Carabinieri Mobili, che prendono le distanze dagli originali Genovesi. Mosto è naturalmente con i mazziniani della Associazione Unitaria, ma tentando la conciliazione non manca di dare la propria adesione a Garibaldi presente a Genova il 9 marzo 1862 per partecipare all’assemblea di formazione della Associazione emancipatrice italiana. Non solo Roma capitale d’Italia, anche uguaglianza dei diritti politici per tutte le classi. Ma la situazione non è evidentemente così pacifica, poiché la sera del 12 marzo un reparto dei Carabinieri Mobili assale alcuni Carabinieri Genovesi percuotendoli con pugni e bastoni.
Il successivo tentativo di Garibaldi di conquistare Roma, fermato dall’esercito sabaudo sull’Aspromonte, induce Mazzini a dare vita ad una nuova organizzazione, apertamente repubblicana, la Falange Sacra, che si vuole iniziatrice e propulsore della lotta per l’unità, a fianco di quanti desiderano combattere con “bandiera neutra”. Mosto è sempre attivo: egli oltre che organizzatore militare e cassiere (vi è forte necessità di fondi per alimentare i vari progetti insurrezionali e lo stesso patrimonio familiare va esaurendosi nel finanziamento del movimento), mantiene frequenti contatti con Mazzini.
Siamo nel maggio 1864 quando questi designa Mosto come suo rappresentante per un colloquio con Vittorio Emanuele, il quale, fattolo giungere a corte, prima gli fa leggere una lettera nella quale espone i propri concetti in esito ad un auspicato moto in Galizia, affidato dai sabaudi al generale ungherese Klapka, e sulla spedizione garibaldina fermata sull’Aspromonte; solo dopo lo riceve personalmente complimentandosi per la sua perizia nel tiro, invitandolo in una futura circostanza a caccia con lui. La reazione di Mosto è emozionata e commossa, come abbiamo raccontato in apertura.
Nel 1866, nel frattempo diviso tra la cura degli affari e l’onere patriottico, è in vista anche per Mosto l’impegno per la guerra contro l’Impero asburgico a fianco del neo-alleato prussiano (la III d’Indipendenza). Mazzini autorizza a spendere i fondi della Falange Sacra per i volontari, ma il Governo inizialmente è contrario all’invio di volontari e dei Carabinieri Genovesi, noti per le loro gesta nella conquista del Mezzogiorno.
Si arriva al compromesso di formare un battaglione di Bersaglieri Genovesi (e di Bersaglieri Milanesi), forse anche per evitare fraintendimenti con i reali carabinieri italiani, pure partecipanti. Gran parte dei genovesi reduci dei Mille, guidati da Mosto, formano il I Battaglione. La 1^ e la 3^ compagnia inquadrate nel Reggimento del Colonnello Corte del “Corpo Volontari” di Garibaldi (che consta nel complesso di ben 40.000 arruolati) combattono nella breve campagna risorgimentale nell’attacco di Montesuello nella notte del 2-3 luglio 1866, riportando gravi perdite, ed a Bezzecca.
L’impresa nell’agro romano
La pace di Vienna del 3 ottobre 1866 contempla la cessione del Veneto al Regno d’Italia, ma Mosto ed i mazziniani non sono soddisfatti dell’esito del conflitto con riguardo alla compiuta auspicata Unità, tanto che egli si reca a Lugano presso Mazzini per ricevere istruzioni per l’organizzazione dell’Alleanza Repubblicana Universale, una visionaria internazionale democratica imperniata sul protagonismo di Stati Uniti ed Europa. Vi è in seguito anche un momento di scoramento (il 30 giugno 1867 muore Francesco, fratello maggiore di Antonio, ed egli deve evidentemente occuparsi degli affari di famiglia) se Mazzini scrive:” mi duole che Mosto creda doversi ritirare …”.
Ma quando, nell’autunno, Garibaldi ritenta l’impresa romana, Mosto ed un centinaio di Carabinieri Genovesi sono al suo fianco unitamente ai circa 8.000 volontari accorsi. Il 25 ottobre Mosto (che ha acquisito il grado di tenente colonnello) partecipa al comando di una “colonna” (anche questa denominata di “bersaglieri”) alla battaglia di Monterotondo.
Egli è incaricato di conquistare la porta Ducale, sul lato meridionale. Il combattimento volge però a favore dei papalini, i quali utilizzano un cannone rigato uscendo dalla porta per sparare e rientrando per ricaricarlo. Mosto è gravemente ferito alla gamba destra. Il suo reparto conta gravi perdite. Egli è assistito dal dottor Pastore e da Jessie Mario, ma la gravità della ferita suggerisce il suo rientro a Genova, mentre i carabinieri combatteranno sino al 5 novembre 1867, data di scioglimento del Corpo volontari. In molti lo attendono alla stazione ed aiutano a poggiarlo su una portantina. Per i successivi tre mesi sarà costretto a letto per poi sorreggersi sulle stampelle e soffrirà per il resto dei suoi giorni per i dolori. Mazzini si rincresce di quanto accaduto: “dite ad Antonio che la sua guarigione sarà una delle mie più grandi gioie”.
È comunque per quanto gli è possibile attivo nella Associazione Reduci, per la quale – similmente a quanto fatto con i Carabinieri Genovesi – cura la parte militare, destando preoccupazioni nella polizia, che lo controlla con una certa apprensione, ed entrando in disaccordo con Stefano Canzio, nel frattempo divenuto genero di Garibaldi e che fu carabiniere alle sue dipendenze nell’Impresa dei Mille. Entrambi sono arrestati, insieme ad altri, per una lettera pubblicata su un giornale, sottoscritta dalla Direzione dei Reduci e giudicata “cospirazione contro lo Stato”. Viene così rinchiuso nel forte Bormida in Alessandria, per essere successivamente trasferito in custodia a Genova, sino a quando lui e gli altri imputati non vengono rilasciati per “non luogo a procedere”.
La conclusione di una vita dedicata all’Unità
Oltre al consueto impegno politico-insurrezionale ed addestrativo nel “Tiro”, deve intanto anche curare la propria instabile situazione finanziaria, motivo per cui nel 1869 aveva accettato di divenire direttore della locale Banca Popolare, succedendo al fratello Andrea. Si tratta di una avventura che gli procurerà amarezza per delle irregolarità che saranno riscontrate nella contabilità, mentre la morte di Mazzini gli provoca un colpo tale da indurlo ad abbandonare ogni attività pubblica, ivi compresa l’attività presso il “Tiro”.
L’ unica soddisfazione gli viene dal tardivo matrimonio (peraltro avversato dai familiari) con una donna spagnola, Pasqualina Yrarzabal, il 30 dicembre 1871. Nondimeno i Carabinieri Genovesi sono ancora con Garibaldi, questa volta nella campagna in supporto dello Stato repubblicano nato in Francia dopo la sconfitta di Sedan. Nel gennaio 1871 una compagnia agli ordini del capitano Razeto (che era stato tra i Mille) è nella Quinta brigata dell’Armata dei Vosgi, insieme ai Cacciatori di Marsala. Si tratta dell’ultimo schieramento di questo originale Corpo tratto da volontari di una città.
Dal 1875 l’attività politica di Mosto termina, mentre gli affari continuano a non andare per il verso giusto e la salute peggiora. Sino alla morte, il 30 giugno 1890, è membro del Circolo Mazzini, del Circolo Pensiero e Azione e dei Reduci. Le onoranze tributategli ripagano il sacrificio dei fratelli Mosto e di chi lo ha sostenuto.
Quella di Antonio Mosto è una figura che spicca tra i tanti italiani (e stranieri simpatizzanti) che il felice e sofferto periodo del Risorgimento italiano ci ha regalato. Capace organizzatore del “Tiro” e dei Carabinieri Genovesi, fedele a Mazzini di cui seguì il pensiero ma pronto a combattere a fianco di Garibaldi, seppe superare i talora inconciliabili contrasti tra le due principali scuole di pensiero unitario, tanto da evidenziarsi come integra personalità di mazziniano-garibaldino.
I Carabinieri Genovesi vengono riconosciuti dagli storici militari capaci di interventi determinanti nelle guerre e nelle spedizioni del 1859, del 1860, del 1866. In un contesto di truppe volontarie mal organizzate, l’addestramento, la disciplina, l’inquadramento, la possibilità di avere un proprio armamento, ne fecero un Corpo d’élite, che per tali motivi venne impiegato nei compiti e nei momenti più delicati. Grande merito di ciò va attribuito ad uno dei co-fondatori e comandanti sul campo, quell’Antonio Mosto a sua volta protagonista del Risorgimento.
Bibliografia:
- Bianca Montale, Antonio Mosto battaglie e cospirazioni mazziniane (1848-1870), Nistri-Lischi, 1966.
- Francesco Sclavo, L ’origine dei Carabinieri Genovesi e la parte avuta nelle guerre del 1859-60, in Rivista Ligure di Scienze, Lettere ed Arti, 1910.
- George Macaulay Trevelyan, Garibaldi e i mille, Zanichelli, 1909.