CONTENUTO
di Giuseppe Gabutti
Le gerarchie della società romana
La storia sociale e politica della repubblica romana può essere considerata una ripetizione di quella di Atene anche se in dimensioni decisamente maggiori. Fra l’”urbs” latina e la “polis” greca vi sono però alcune differenze fondamentali: la base agricola e non marittima di Roma, il radicamento in un territorio nazionale tipico della società romana, l’impossibilità strutturale di Roma di darsi un regime in qualche misura democratico come quello di Atene, la tendenza di Roma a estendere il diritto di cittadinanza, tendenza sconosciuta a tutte le “poleis” greche.
Nel III secolo a.C. i cittadini romani, cioè i maschi liberi di età superiore ai 17-18 anni, sono 270.000, in gran parte originari di Roma e del Lazio; nel II secolo a.C. essi sono già saliti a mezzo milione; nel I secolo a.C. i cittadini romani sono più di un milione, praticamente tutti gli abitanti dell’Italia.
Nel momento della caduta della monarchia, all’inizio del V secolo a. C., la struttura della società romana appare già definita: al vertice vi sono i grandi proprietari terrieri e gli allevatori di bestiame, a cui spettano tutti i diritti; essi soltanto possono accedere alle cariche politiche, militari, religiose, anche se hanno il dovere di pagare le tasse in proporzione alle proprietà e, all’occorrenza, di prestare il servizio militare.
Questi grandi proprietari costituiscono l’aristocrazia dei “patres” ovvero i “patrizi”, che sono alla testa delle “gentes”, i gruppi familiari più potenti economicamente e più illustri in quanto discendenti degli antichi fondatori di Roma; i loro esponenti fanno parte del Senato, la più importante istituzione della repubblica romana durante tutta la sua esistenza, dal V secolo a.C. al I secolo a.C.
Nonostante i suoi progressivi allargamenti, il Senato romano continua ad essere controllato da una ventina di grandi famiglie: alcune di queste ovvero le “gentes” Cornelia, Valeria, Emilia, Claudia e Fabia, conservano il diritto di esprimere i “principes” del Senato, una sorta di prestigioso e autorevole collegio di presidenza.
I “cavalieri” ovvero gli “equites” sono all’inizio un gruppo sociale comprendente cittadini ricchi in grado di mantenere cavalli e di combattere nella cavalleria come i patrizi; con il tempo i “cavalieri”, la cui ricchezza ha origini terriere al pari dei patrizi, si specializzano in quelle attività commerciali e bancarie, ritenute indegne dai “patres”. Dai loro ranghi provengono gli appaltatori incaricati di eseguire le grandi opere pubbliche come strade, acquedotti, fortificazioni, nonché i maggiori banchieri, gli importatori di grano e di beni preziosi.
Al di sotto di questo gruppo sociale vi sono i medi e i piccoli proprietari contadini, che costituiscono propriamente la “plebe”: sono obbligati all’imposizione fiscale e al servizio militare proprio in quanto proprietari. Fanno parte della “plebe” anche i “proletari” o “capite censi”, quegli individui che al censimento fiscale non hanno altro da dichiarare se non la propria prole o la propria persona e vengono quindi registrati per “teste”.
Ancora agli inizi del V secolo a.C. vige il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei. Le condizioni economiche dei plebei sono estremamente precarie, almeno per la maggioranza di loro. Tuttavia, lentamente si forma uno strato di plebei ricchi: coloro che hanno saputo approfittare delle guerre per estendere le loro proprietà terriere o che hanno fatto fortuna in attività commerciali e artigianali.
Questo strato della plebe preme per ottenere l’ammissione nei ranghi privilegiati dell’aristocrazia senatoria o almeno dei cavalieri. Sono i plebei ricchi ad avvantaggiarsi maggiormente delle conquiste ottenute dalla plebe nel suo insieme: in primo luogo l’abolizione del divieto di matrimonio fra patrizi e plebei, conquistata dopo la metà del V secolo a.C., e, soprattutto, l’accesso dei plebei alla massima magistratura politica e militare, il consolato, ottenuto verso la metà del IV secolo a. C.; poiché i consoli entrano di diritto a far parte del Senato una volta scaduti dalla carica e trasmettono questo loro diritto per via ereditaria, si forma con il tempo una nuova aristocrazia di origine plebea.
Occorre precisare che questi nuovi aristocratici sono plebei solo in senso giuridico, non appartenendo per nascita al patriziato, e non in senso economico, perché nessun plebeo povero può in effetti sostenere le enormi spese necessarie per accedere al consolato e neppure al tribunato della plebe; gli interessi dei nuovi aristocratici di origine plebea non coincidono affatto con quelli della plebe che pure li sostiene elettoralmente, ma coincidono piuttosto con quelli dell’aristocrazia senatoria.
Vi è poi, nella società romana, un gruppo sociale che assume, gradatamente, maggiori dimensioni; è quello degli schiavi, il cui numero è in continuo aumento: nel 167 a.C. il console Lucio Emilio Paolo vende come schiavi 150.000 abitanti dell’Epiro conquistato, negli stessi anni, sul mercato di Delo, si vendono ogni giorno circa 10.000 schiavi in prevalenza diretti a Roma, mentre nel I secolo a.C. Giulio Cesare porta dalla Gallia circa un milione di schiavi. A Roma, rispetto al mondo greco, è alto anche il numero dei liberti o schiavi liberati dal proprio padrone.
La ragione dell’affrancamento è qualitativa: non pochi degli schiavi acquistati dai Romani hanno conoscenze culturali, sia tecnico-commerciali che linguistiche, perché provenienti dall’evoluto Oriente ellenistico o dalla stessa Grecia; è quindi più conveniente utilizzarli come impiegati, segretari, precettori: se necessario occorre anche liberarli perché diano il meglio di sé al servizio dello Stato o dei loro ex-proprietari privati; il liberto diventa a Roma non un meteco, cioè un forestiero, come nelle “poleis” greche, ma un cittadino di pieno diritto, anche se resta escluso dalle maggiori magistrature.
La società romana presenta un tipo di rapporto del tutto ignoto ai Greci, un rapporto che costituisce al tempo stesso un cemento della coesione sociale e una garanzia della stabilità del controllo delle grandi famiglie aristocratiche sull’insieme dei cittadini: la clientela. Questa costituisce un vincolo di dipendenza sociale, obbligatorio di fatto, se non di diritto, per cui i plebei, i cittadini poveri e indifesi davanti allo Stato, si legano ad una potente famiglia patrizia che diviene la loro “patrona”.
Questo patronato è necessario ai plebei perché li mette al riparo dalle violenze e dagli arbitri che gli aristocratici e gli stessi magistrati non esitano a commettere verso i poveri privi di protezione, assicura loro la difesa nei tribunali, li mette in condizione di ricevere favori. La giustizia, in particolare, è sempre amministrata dagli aristocratici: ci sono poche possibilità che un plebeo possa veder riconosciute le sue ragioni, soprattutto se a fargli torto è un aristocratico, senza l’appoggio di un autorevole “patrono”.
Se i patroni sono tenuti ad assistere i loro clienti in ogni circostanza difficile, i clienti, a loro volta, sono tenuti a scortare in pubblico il loro patrono dandogli tanto più prestigio quanto maggiore è il loro numero, a votare per lui alle elezioni e, all’occorrenza, a combattere per lui. In origine, tutti i plebei sono clienti dei patrizi; il vincolo viene gradatamente allentandosi perché i plebei arricchiti vi si sottraggono, ma la sua importanza rimane fondamentale durante tutta la storia della repubblica romana, costituendo una forma di dipendenza semi ufficiale che garantisce il potere delle grandi famiglie anche quando queste sono costrette a fare alla plebe concessioni in senso democratico.
L’ordinamento politico della repubblica
La carriera politica di un cittadino romano subisce nel corso dei secoli numerose e complesse modificazioni: è però possibile individuare alcuni passaggi fondamentali. Dopo aver compiuto il servizio militare, che può anche superare il decennio, e aver raggiunto il minimo di trent’anni, il cittadino romano può presentarsi candidato anzitutto alla questura; entro i dieci anni successivi può ambire all’edilità o al tribunato; a quarant’anni può ambire alla pretura e, dopo i quarantadue anni, al consolato. Fuori ordine, vi sono le cariche di censore e di dittatore. Colui che riesce eletto svolge le funzioni proprie della sua carica. I patrizi possono anticipare la loro candidatura di due anni per tutte le cariche.
Nel 180 a.C. il tribuno della plebe Lucio Villio fa approvare una legge che regola l’avvicendamento nelle magistrature, precisando che fra l’una e l’altra ci debba essere un intervallo di due anni; viene inoltre stabilito l’ “ordo magistratuum”, cioè l’obbligo di seguire una carriera predeterminata: cinque anni di servizio militare prima di essere “tribunus militum” ossia “ufficiale dell’esercito”, dieci anni complessivi di servizio militare prima di iniziare il “cursus honorum” con obbligo di essere “questori” prima di essere “edili”, poi “pretori” e quindi “consoli”. Non è possibile ricoprire due cariche contemporaneamente, come già a suo tempo stabilito dalla “Lex Genucia”, proposta nel 342 a.C dal tribuno della plebe Lucio Genucio.
I questori amministrano il tesoro pubblico (erario), controllano le spese dello Stato e accompagnano i consoli e i pretori in guerra con ufficio di tesorieri; custodiscono le chiavi del tempio di Saturno, ove è depositato il tesoro dello Stato. La carica di “questore” è considerata il grado più basso di tutte le cariche politiche romane. All’età di trentasei anni gli ex-questori possono candidarsi per l’elezione di edile. La carica di edile, dal termine latino “aedes” ovvero “tempio”, “casa”, costituisce un altro dei primi gradini della carriera politica ossia del “cursus honorum”. Gli edili presiedono all’edilizia e alla polizia della città, sorvegliano i mercati e i pubblici spettacoli, provvedono alla costruzione e alla manutenzione delle opere pubbliche.
I tribuni della plebe, dapprima due, poi cinque, infine dieci, godono dell’inviolabilità della propria persona e hanno il diritto di veto circa l’approvazione di qualsiasi legge o iniziativa ritenuta contraria agli interessi della plebe; forti di queste prerogative, con il tempo i tribuni della plebe si trasformano da semplici strumenti dell’opposizione in veri e propri magistrati capaci di avere una diretta ingerenza negli affari di governo; i tribuni della plebe possono porre sotto accusa i magistrati al termine del loro mandato e proporre leggi; non possono, però, lasciare Roma per più di un giorno e la porta della loro casa deve restare sempre aperta, in modo da accogliere il plebeo che intende ricorrere al loro aiuto: anche la protezione fisica di un plebeo fa parte dei loro doveri.
La carica di tribuno della plebe non fa parte del cursus honorum; i tribuni sono infatti eletti dal “Concilium plebis” e non dall’intero popolo di Roma, che comprende anche i patrizi; il “Concilium plebis” è un’assemblea popolare che si riunisce al di fuori delle mura di Roma, della quale fanno parte, ovviamente, soltanto i plebei.
I pretori sono ministri di giustizia, addetti, in seguito, anche al governo di speciali territori con supremo potere civile e militare. Il loro nome letteralmente significa “quelli che vanno avanti”, da “prae-ire”; i pretori costituiscono la magistratura più antica: sono i pretori che marciano alla testa dell’esercito in guerra; accanto ai pretori sono poi posti due assistenti, i “consules”: con l’aumento dell’importanza dell’esercito, i “consoli” accrescono la loro autorevolezza e divengono superiori ai pretori, confinati a funzioni giudiziarie. Il numero dei pretori cresce nel corso del tempo in relazione dell’ampliamento dello Stato romano.
I consoli, oltre al governo civile della città, hanno il comando dell’esercito e la responsabilità della guerra e pertanto possono arruolare truppe, nominare ufficiali, imporre contributi per le necessità militari; possono inoltre convocare il Senato per chiedere pareri sui più gravi problemi e riunire i Comizi per discutere ed eventualmente fare approvare proposte di legge.
Inizialmente solo i patrizi possono divenire consoli; con le leggi Licinie-Sestie del 367 a.C., i plebei ottengono il diritto di eleggerne uno. Secondo Tito Livio, il termine “console” deriva dal dio Conso, una divinità della mitologia romana in origine legata alla terra e alla fertilità, dispensatrice di consigli come, in effetti, devono fare i due massimi magistrati della repubblica romana.
A questi magistrati, tutti di nomina annuale, se ne aggiungono altri, la cui permanenza in carica può durare più o meno di un anno: è il caso dei censori e del dittatore; i censori, eletti ogni cinque anni, sono i soli a restare in carica diciotto mesi a causa della complessità delle loro funzioni: essi infatti procedono all’accertamento delle ricchezze dei cittadini (censo), scelgono, fra gli ex-magistrati, i nuovi membri del Senato, vigilano sulla moralità dei costumi e allontanano dai pubblici uffici quanti se ne sono mostrati indegni; il dittatore, invece, nominato dai consoli per incarico del Senato nei momenti di grave pericolo per la repubblica, ha pieni poteri e pertanto un’autorità assoluta, priva di qualsiasi controllo: per questo motivo non può restare in carica più di sei mesi.
Il “mestiere di elettore” e “il mestiere di candidato”
Le varie riforme che si succedono nel corso del tempo aumentano la frequenza e l’importanza delle consultazioni elettorali: non solo quelle per l’elezione dei consoli e dei tribuni della plebe, che spettano rispettivamente ai Comizi Centuriati e ai Comizi Tributi, ma anche quelle per le magistrature minori, come censori, questori, edili, attraverso le quali deve passare chiunque, aristocratico o ricco plebeo, desideri intraprendere la carriera politica, il “cursus honorum”.
Si profila così un vero e proprio “mestiere di elettore”: nel 225 a.C. i cittadini che hanno diritto di voto sono 300.000, verso la fine del I secolo a.C. sono 1.700.000; quelli che tuttavia lo esercitano effettivamente sono in numero assai minore e comprendono soprattutto gli aristocratici e i loro clienti, i ricchi abitanti delle città italiche e la plebe urbana di Roma.
Nella Roma antica non esistono i partiti politici come oggi sono intesi. I candidati sono scelti per la reputazione personale e per quella della famiglia (gens). I candidati che provengono dalle famiglie più antiche o illustri sono favoriti poiché possono usare il “ricordo” dei loro antenati per la propria propaganda elettorale. I candidati non risparmiano alcun mezzo per ottenere il favore degli elettori; il nome stesso, “candidatus”, esprime l’antica consuetudine di presentarsi in pubblico con una toga di colore bianco per richiamare l’attenzione; così “ambizione” deriva da “ambitio”, il giro elettorale nei quartieri di Roma che i candidati compiono prima delle elezioni.
In vista delle elezioni i candidati mobilitano amici e clienti; per esibire il proprio prestigio, usano girare per la città accompagnati da un folto corteo di sostenitori. Prende sempre più piede la pratica di elargire somme di denaro e di distribuire consistenti quantità di viveri agli elettori più poveri; al momento del voto, i seguaci di questo o di quel candidato ricorrono non di rado alla minaccia e alla violenza per ottenere i suffragi necessari all’elezione. Il diritto al voto segreto è ottenuto dalla plebe solo nel 139 a.C.: è considerata una misura quasi rivoluzionaria perché diminuisce il controllo del voto rendendolo relativamente più libero.
Se il “mestiere di elettore” diventa sempre più redditizio per la plebe romana, grazie alla massiccia corruzione messa in opera dai candidati, è facile capire che nessuno può intraprendere la carriera politica se non dispone delle grandi ricchezze necessarie per organizzare le campagne elettorali e per ottenere il prestigio sufficiente a prevalere sui rivali; il più fruttuoso investimento degli aristocratici e dei ricchi Romani è proprio quello politico: la conquista di un’importante magistratura può infatti ampiamente ripagare delle spese sostenute per ottenerla.
Il candidato deve accrescere la sua autorità ostentando il fasto e il lusso della “casata” cui appartiene; per quanto oggi possa apparire sorprendente, i ricchi cittadini romani tendono talvolta a dichiarare al censimento un reddito superiore a quello che effettivamente possiedono: questo eleva l’importo delle tasse da pagare, ma permette loro l’iscrizione alle classi censitarie più importanti e soprattutto garantisce quel prestigio senza il quale la carriera politica è impossibile.
Anche il prestito di denaro ad alti interessi serve ad aumentare la ricchezza della casata allo scopo di favorire l’ascesa politica dei suoi appartenenti; alcuni senatori romani non cessano di prestare ad usura il denaro di cui dispongono in eccesso: nel I secolo a.C. Marco Giunio Bruto, passato alla storia come uno degli assassini di Giulio Cesare, chiede a coloro a cui presta denaro interessi fino al 48%.
Per poter accedere alle magistrature occorre seguire alcune precise regole: colui che aspira ad una carica è tenuto in primo luogo a fare una pubblica dichiarazione delle sue intenzioni e dei suoi programmi; in seguito, se gli sono riconosciuti i requisiti necessari, veste, come si è detto, la “toga candida” e inizia il giro per la propaganda elettorale, che, oltre ad essere fatta oralmente dallo stesso candidato e dai suoi sostenitori, è realizzata mediante iscrizioni sui muri delle costruzioni situate nei pressi di piazze e di strade molto frequentate: solitamente si tratta di muri di locali pubblici che in tale circostanza si trasformano in veri e propri “albi di affissione”.
Le iscrizioni risultano costituite da un riquadro bianco creato per l’occasione con alcune pennellate di calce, sul quale i propagandisti trascrivono a grandi lettere maiuscole, in colore rosso o in nero, il nome del candidato e la carica alla quale aspira, seguita dalla seguente formula fissa: O. V. F. ossia “oro vos faciatis” cioè “vi prego di eleggere”; naturalmente tali sollecitazioni agli elettori possono essere arricchite anche da altre affermazioni, destinate a porre in rilievo ogni altra qualità dell’aspirante.
Le donne, non ammesse al voto e ovviamente escluse dalle cariche politiche, non rinunciano a fare la loro propaganda elettorale: la conferma viene da un manifesto elettorale pompeiano nel quale una donna di nome Siccia chiede espressamente agli elettori di eleggere come edili i candidati Trebio e Gaio. E’ poi notificato al popolo il giorno dell’adunanza dei Comizi, dietro indicazione dei consoli in carica; tale giorno non può cadere prima che sia trascorso un certo periodo di tempo, solitamente 24 giorni: il fine è quello di permettere lo svolgimento della propaganda da parte dei vari candidati o, nel caso di votazioni di leggi, visto che il procedimento è del tutto simile, per rendere possibili le discussioni sui progetti legislativi.
Una volta convocati i Comizi, all’alba, entro appositi recinti, ha inizio la votazione. Questa, all’inizio fatta oralmente e quindi pubblicamente davanti ai “rogatores” ovvero ai raccoglitori di voti preposti a segnarne i risultati su tavole di cera dette “tabellae”, diviene segreta nella seconda metà del II secolo a.C. in seguito all’approvazione delle Leggi Tabellarie, che prevedono la trascrizione del voto su una tavoletta cerata da depositarsi in un’urna: e ciò allo scopo di porre un freno a brogli elettorali, a intrighi, a raggiri, che con la votazione orale è piuttosto facile realizzare.
A proposito di elezioni occorre osservare che, a differenza dell’Ecclesìa, l’assemblea popolare di Atene, nella quale i voti sono contati per “testa”, nei Comizi romani i voti sono contati per gruppo ovvero per sezione elettorale; a Roma infatti l’unità elettorale non è il singolo cittadino e quindi il suo voto, ma la sezione elettorale, di cui il cittadino fa parte e che comprende più cittadini: ora, siccome ogni sezione elettorale dispone di un solo voto, che esprime l’opinione della maggioranza interna alla sezione, risulta accolta quella legge o eletto quel candidato che ha ricevuto i voti del maggior numero di sezioni.
E’ evidente che tale maggioranza può non corrispondere numericamente alla maggioranza reale dei votanti: le singole sezioni infatti non risultano costituite da uno stesso numero di persone e può quindi capitare che risulti eletto un candidato che ha sì ottenuto il voto del maggior numero di sezioni elettorali, ma, rispetto al totale dei votanti, un numero di voti inferiore a quelli conseguiti dal candidato perdente; è facile comprendere quali effetti antidemocratici finisca per avere un simile sistema, specie se opportunamente manovrato.
A votazione ultimata, i “diribitores” o scrutatori procedono allo spoglio; una volta terminato lo spoglio, che deve essere completato prima del tramonto, pena la nullità delle intere operazioni, gli araldi, per ordine dei consoli in carica, proclamano gli eletti; questi diventano “magistrati-designati” in attesa di assumere le loro funzioni; nel giorno iniziale dell’anno amministrativo, che nel 154 a.C. viene fissato al 1° gennaio, mentre per i questori e i tribuni della plebe è anticipato rispettivamente al 5 e al 10 dicembre, il nuovo magistrato può finalmente entrare in possesso di tutte le attribuzioni proprie della sua carica.
Caratteristiche della magistratura repubblicana
Le caratteristiche della magistratura repubblicana, oltre alla completa gratuità, poiché chi è chiamato a ricoprire le singole cariche non riceve alcuna retribuzione, e oltre alla responsabilità, in quanto il magistrato romano una volta in carica è pienamente responsabile di tutto ciò che compie, sono l’annualità e la collegialità. L’annualità comporta per tutti i magistrati, esclusi i censori, la permanenza in carica per un anno; una volta conferita, la magistratura non può essere revocata sino alla scadenza del mandato neppure dal popolo, che pure l’ha assegnata; il fine principale dell’annualità è quello di porre un freno all’arbitrio di chi esercita funzioni pubbliche.
L’annualità comporta però il grave inconveniente di spezzare l’unità delle direttive politiche e soprattutto del comando dell’esercito, quando le operazioni si protraggono oltre il limite di un anno. In questo caso, passando la direzione da un console ad un altro, possono facilmente sorgere incertezze e discontinuità nella formulazione dei piani e nell’emissione degli ordini a discapito dell’efficienza combattiva.
Per ovviare a questo inconveniente, con il tempo si rivela appropriato il compromesso della “pro-magistratura”: ad esempio, i consoli, terminata la carica, continuano a comandare l’esercito con il titolo di “proconsoli”, in qualità, però, di semplici cittadini investiti di particolari funzioni; questo diritto di proroga spetta al Senato, che può così creare magistrati di fatto senza che lo siano di diritto, sottraendone la nomina ai Comizi e legandoli in questo modo alle proprie direttive.
La collegialità si basa sul principio del controllo reciproco, tendente a evitare ogni possibile abuso; in caso di dissenso, infatti, il magistrato può opporsi all’iniziativa di un collega tramite il “diritto di veto”, che blocca immediatamente la situazione. Per evidenti ragioni di sicurezza, questo diritto non è ammesso in caso di guerra.
Consoli, Senato e assemblee nella Roma repubblicana
I consoli sono i capi dello Stato ed esercitano il potere esecutivo, sorvegliando tutti i settori della pubblica amministrazione; grazie all’eponimia, i consoli hanno il diritto di dare il proprio nome all’anno. Presiedono il Senato e i Comizi e ne eseguono le decisioni; propongono le leggi ed esercitano il potere civile un mese per uno e il comando militare a giorni alterni.
Il Senato è invece il massimo organo consultivo dello Stato: controlla, assieme ai consoli, tutto l’apparato statale, decreta il trionfo per i comandanti vincitori, esprime pareri sulla pace, sulla guerra e sull’opportunità di chiamare tutti i cittadini alle armi; riceve ufficialmente i rappresentanti degli Stati esteri, conduce le trattative diplomatiche e nomina i governatori delle province, fissando le direttive della loro amministrazione; presiede inoltre alla stipulazione dei contratti di appalto di imprese pubbliche e alla riscossione delle imposte; giudica l’operato dei magistrati allo scadere della carica e prende provvedimenti nei loro riguardi nel caso si siano resi colpevoli di cattiva amministrazione.
Il Senato, pertanto, è per secoli l’organo più autorevole dello Stato: ogni suo parere, detto “senatoconsulto”, pur non essendo giuridicamente vincolante per il magistrato che lo richiede, finisce per essere tale. I senatori si riuniscono nell’edificio della Curia in prossimità del Foro; in caso di votazione, il conteggio viene eseguito dal “presidente”, che solitamente è uno dei due consoli in carica, il quale ha anche la facoltà di elevare multe a carico dei senatori assenti non giustificati: naturalmente prevale l’opinione con il più alto numero di voti da parte dei senatori.
L’influenza del Senato nella vita politica di Roma antica, già consistente nei primi periodi della repubblica, aumenta con il tempo al punto che nessun magistrato osa allontanarsi dalle direttive indicate dal Senato stesso: tutto questo assume un particolare significato politico, se si tiene presente che del Senato fanno parte da molto tempo solo i rappresentanti delle famiglie più illustri ed economicamente più ricche, alle quali sono solitamente assegnate tutte le più importanti cariche civili e militari dello Stato.
In età repubblicana, precisamente nel I secolo a.C., il numero dei senatori passa dai 300 membri del periodo tardo-monarchico ai 600 membri con Silla e ai 900 membri con Giulio Cesare; è riportato a 600 membri da Augusto, all’inizio dell’età imperiale.
I cittadini, radunati nei Comizi, votano le leggi ed eleggono i magistrati; hanno inoltre il diritto di giudicare in via definitiva i condannati a morte, che richiedono di appellarsi al popolo: in questo caso si può parlare di triplice competenza dei Comizi: legislativa, elettorale e giudiziaria. I Comizi sono assemblee popolari e si dividono in Curiati, Centuriati e Tributi. I Comizi Curiati, sorti sin dall’età più antica e costituiti soltanto dai patrizi, dopo aver avuto un certo peso durante l’età monarchica, perdono ogni importanza nell’età repubblicana, limitandosi a convalidare nomine e decisioni prese da altri Comizi.
I Comizi Centuriati sono formati invece da tutti i cittadini, patrizi e plebei, e organizzati in sei classi sulla base del censo; sorti in età monarchica per volontà di re Servio Tullio, durante l’età repubblicana assumono sempre più importanza in campo sia legislativo che elettorale al punto da sostituirsi ai Comizi Curiati e a godere della più ampia libertà di decisione e di iniziativa su ogni questione di ordine politico e militare.
Il criterio del censo non è però il solo criterio su cui si basa questa assemblea, all’interno della quale conta anche l’anzianità dei suoi componenti: i “seniores”, gli anziani a partire dai 45 anni in avanti, hanno maggiore dignità politica e maggiore influenza rispetto a coloro che sono ritenuti “iuvenes” ovvero i giovani di età compresa fra i 18 e i 45 anni. I Comizi Centuriati eleggono i magistrati maggiori come consoli, pretori e censori, prendono decisioni in merito alla pace o alla guerra e giudicano nelle cause che comportano la condanna a morte di un cittadino romano.
Quella dei Comizi Tributi è invece un’assemblea popolare che subisce nel corso dei secoli profonde modificazioni. Diversamente dai Comizi Centuriati, organizzati secondo il censo e quindi secondo le capacità economiche di ciascun cittadino, i Comizi Tributi sono un’assemblea popolare costituita sulla base delle “tribù” ovvero dei “distretti territoriali” nei quali risulta suddiviso lo Stato romano; le tribù, il cui nome deriva dall’antico termine italico “trifu” ossia “territorio” e all’interno delle quali convivono patrizi e plebei, si distinguono in “urbane” e “rustiche”: quelle “urbane” sono legate al territorio della sola città di Roma, quelle “rustiche” sono legate a tutta la restante parte dello Stato romano.
Il numero delle tribù rustiche, costituite essenzialmente da plebei, è superiore a quello delle tribù urbane: è chiaro che, nell’ambito di questa assemblea popolare, ove ogni tribù ha diritto ad un solo voto, il voto degli elettori plebei finisca per prevalere su quello dei patrizi. I Comizi Tributi, che si riuniscono nel Foro Romano, eleggono i magistrati “minori”: edili e questori.
La parificazione fra patrizi e plebei può ritenersi completa solo quando questa assemblea della plebe, che dal 471 a.C. è riconosciuta come corpo giuridico proprio con il nome di Comizi Tributi, può emanare le proprie deliberazioni in forma obbligatoria non solo per i plebei, ma anche per i patrizi: ciò avviene nel 339 a.C., quando, per iniziativa di Publio Filone e Quinto Ortensio, le deliberazioni dei Comizi Tributi sono riconosciute valide per tutto il popolo romano alla stessa maniera delle leggi approvate dai Comizi Centuriati.
Osservazioni sugli ordinamenti della repubblica romana
La repubblica romana non è mai stata una democrazia, neppure nel senso in cui si può parlare di democrazia ateniese; ad impedirlo non c’è soltanto la volontà dell’aristocrazia senatoria, tenacemente impegnata a mantenere il controllo dello Stato. Ci sono anche ragioni obiettive: l’estensione del territorio e il numero sempre crescente dei cittadini. Poiché tutte la attività politiche hanno luogo a Roma, è praticamente impossibile per coloro che abitano lontano da Roma e per gli abitanti delle città italiche che non siano assai ricchi, partecipare ai Comizi e alle elezioni in cui si decide la politica romana.
Essi non possono permettersi di abbandonare il lavoro né di compiere un lungo viaggio a Roma; qui, a differenza di Atene, non è mai stata introdotta un’indennità pubblica atta a permettere ai lavoratori poveri di partecipare alla vita politica di Roma. Le assemblee sono quindi di regola controllate dagli aristocratici e dai ricchi di Roma nonché dalla plebe che vive nella capitale; questa è a sua volta particolarmente sensibile all’influenza dell’aristocrazia di Roma, cui è legata da vincoli clientelari, e dalla cui generosità spesso dipende per la propria sopravvivenza.
Per gli antichi Romani l’uguaglianza è di natura più giuridica che pratica in quanto, oltre a non riguardare le donne, gli schiavi e gli stranieri, è limitata dal fatto che alla vita politica possono dedicarsi soltanto gli esponenti delle famiglie più ricche, non essendo ammesso a Roma alcun compenso per le cariche pubbliche. Il concetto di democrazia, intesa come “governo di popolo”, si restringe ulteriormente quando si affronta la questione del funzionamento dei Comizi Centuriati.
Questa assemblea popolare è costituita dalla totalità dei cittadini, distribuiti in sei classi in base al censo ossia al patrimonio di ciascuno; le sei classi sono a loro volta suddivise in un diverso numero di centurie, dette così in quanto ciascuna di queste raggruppava originariamente cento uomini. Tuttavia il voto, in questi Comizi, non è individuale, ma per centuria: ogni centuria esprime un voto, sebbene il numero dei loro membri sia assai diseguale.
I Comizi Centuriati sono anche un’organizzazione di cittadini-soldati pronti per la guerra: ciascun cittadino conosce il posto che deve occupare nelle centurie di cui si compone l’esercito e ha pronto il suo armamento; proprio per questo i Comizi Centuriati si riuniscono nel Campo Marzio, l’area consacrata al dio Marte, il dio della guerra, essendo i Comizi Centuriati l’assemblea del popolo in armi.
In età repubblicana la composizione dei Comizi Centuriati risulta essere la seguente: nella prima classe, suddivisa in 18 centurie di cavalieri e 80 centurie di fanteria pesante ossia adeguatamente armate a livello difensivo e offensivo, sono iscritti i cittadini con un reddito superiore ai 10.000 “denarii”, nella seconda e nella terza classe, entrambe suddivise in 20 centurie di fanteria pesante, sono iscritti i cittadini con un reddito rispettivamente superiore ai 7.500 “denarii” e ai 5.000 “denarii”, nella quarta classe, suddivisa in 20 centurie di fanteria leggera con armi offensive ridotte al solo giavellotto, sono iscritti i cittadini con un reddito superiore ai 2.500 “denarii”, nella quinta classe, suddivisa in 30 centurie di arcieri e frombolieri, sono iscritti i cittadini con un reddito superiore ai 1.250 “denarii”; la sesta classe è suddivisa in 5 centurie, di cui 4 centurie di artigiani, falegnami e fabbri o comunque di cittadini con un basso reddito e 1 centuria di proletari: i cittadini facenti parte della sesta classe, sono, in caso di guerra, trombettieri o suonatori di corno.
La suddivisione in base al reddito contabilizzato in “denarii” trova giustificazione nel fatto che il “denarius”, moneta d’argento, è la più diffusa fra le monete romane dell’età repubblicana. In totale le centurie sono 193; le 5 centurie della sesta classe hanno un numero molto elevato di componenti; tuttavia le centurie della prima classe, nella quale sono presenti gli esponenti dei gruppi sociali più ricchi, raggiungendo insieme il numero di 98 voti, sono sufficienti a formare la maggioranza dei voti: i Comizi Centuriati sono senza dubbio espressione delle classi agiate; i loro esponenti possono permettersi di vivere a Roma, sede della vita politica, e prendere parte alle assemblee, influenzandone le decisioni con la propria presenza e con il proprio voto, con l’intervento di amici e di sostenitori e persino con l’uso di mezzi illegali come minacce o violenze: in questo modo poche centinaia di famiglie ricche e influenti, dominano di fatto la vita politica dell’antica Roma.
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- Giovanni Ramilli, Istituzioni pubbliche dei Romani, Tip.Antoniana, Padova, 1978
- Andrew William Lintott, The constitution of the Roman Repubblic, Oxford University, 1999
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