CONTENUTO
di Giuseppe Gabutti
Secondo la tradizione, per i primi due secoli e mezzo, Roma è governata da sette re, al primo dei quali, Romolo, è attribuita la fondazione della città e il suo popolamento.
Più che di fondazione, gli storici preferiscono parlare di formazione di Roma, sorta gradatamente dall’unione di diversi villaggi abitati dai Latini, un popolo di agricoltori e di pastori da tempo stanziato nella pianura a sud del fiume Tevere, posta fra l’Appennino e il mare e chiamata Lazio; dal latino “latus” ossia “luogo spazioso” derivano i termini “Lazio” e “Latini”, il nome del popolo che nel “Lazio” risiede.
Il popolamento di Roma, invece, ha probabile origine dal “ver sacrum” ovvero “primavera sacra”, un’antica usanza dei Latini: quando la popolazione aumenta e i mezzi di sussistenza non sono sufficienti per tutti, si impone la dolorosa necessità dell’emigrazione volontaria: in primavera, i giovani nati in uno stesso anno abbandonano la terra d’origine e si stabiliscono altrove fondando nuovi villaggi.
Gruppi di Latini si insediano così sui colli che si trovano a ridosso del Tevere dove questo, a poca distanza dalla foce, forma una profonda ansa proprio nel punto in cui l’isola Tiberina costituisce un agevole guado per chiunque voglia attraversare il fiume.
Successive esigenze, dettate soprattutto da ragioni di difesa, accelerano i tempi per l’unificazione dei villaggi in una città, il cui nome è forse di origine etrusca: “rumon” significa “fiume” e Roma è la città del fiume, essendo sorta presso il Tevere.
A Romolo, che la tradizione colloca nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., si fa risalire il merito della fusione fra i Romani e i Sabini e di avere accolto all’interno della città un popolo che gli storici hanno dimostrato essere di origine latina: i Lùceri.
E’ importante sottolineare l’integrazione dei Sabini, in origine stanziati nel Lazio orientale; Roma necessita di rafforzarsi e la sua nascita deve essere stata più militare che economica: un avamposto dei Latini contro le mire espansionistiche degli Etruschi; questo spiegherebbe la formazione nei Romani, fin dai tempi più antichi, di una mentalità propensa all’organizzazione militare.
L’intera popolazione di Roma è suddivisa in tre tribù: Ramni, Tiziensi e Lùceri; in queste tribù alcuni storici hanno visto tre classi sociali distinte, rispettivamente di sacerdoti, di agricoltori e di guerrieri, mentre altri storici tre differenti gruppi etnici, rispettivamente Romani, Sabini e Lùceri; i Tiziensi sono i Sabini, così chiamati dal nome del loro re, Tito Tazio, che sembra abbia governato Roma per qualche anno assieme a Romolo, la cui moglie, a conferma dell’integrazione fra Romani e Sabini, è Ersilia, di origine sabina.
Altri storici, invece, non collegano le tre tribù all’origine etnica della popolazione di Roma, ma a tre entità territoriali facendo leva sul fatto che la parola “tribù” deriva da un antico termine dell’Italia centrale, “trifu” cioè “zona”: sul colle Palatino sono stanziati i Ramni, sul Quirinale i Sabini, mentre i Lùceri sono stanziati nei boschi circostanti Roma; Lùceri pare derivi da “lucus” che in latino significa “bosco”.
Ogni tribù è suddivisa in 10 curie, per un totale di 30 curie; ogni curia è suddivisa in 10 genti o casate, per un totale di 300 genti, ognuna delle quali è composta di un numero più o meno grande di famiglie.
La struttura portante della società romana si fonda sulla “gens”, formata da tutti quelli che discendono da un comune antenato, hanno in origine lo stesso luogo di abitazione, provvedono alla propria difesa e possiedono in comune terreni e pascoli; la “gens” è costituita da diverse famiglie e i legami interni alla “gens” sono molto forti. In questa fase più antica della storia di Roma l’appartenenza ad una “gens” è indispensabile per il godimento dei diritti politici.
Le istituzioni politiche e militari introdotte da Romolo
La tradizione attribuisce a Romolo le più antiche istituzioni politiche e militari destinate a regolare la vita della nuova comunità. Capo dello Stato è il re, magistrato unico e non ereditario, eletto a vita dalle curie e scelto da una lista di candidati presentata dal Senato; il re è capo della religione, promulgatore delle leggi, arbitro della pace e della guerra, comandante delle forze armate e giudice supremo in ogni causa giudiziaria.
Organo preposto a fornire consigli al monarca è il Senato o “assemblea degli anziani”, dal latino “senex” cioè “anziano”, composto da 200 membri, 100 Romani e 100 Sabini; importante compito del Senato è quello di governare Roma nel periodo compreso fra la morte del re e l’elezione del sovrano successore; in quanto entrati a far parte della città per ultimi, i Lùceri sono esclusi dal Senato.
L’insieme dei cittadini riuniti per “curie”, da “co-viria” ovvero “riunione di uomini”, costituiscono i Comizi Curiati, che possono essere convocati per volontà del re ed esercitare funzioni soltanto consultive; in caso di votazione, ogni curia esprime un solo voto e il voto di ciascuna curia è determinato dal voto della maggioranza dei suoi componenti. Senato e Comizi Curiati sono istituzioni già attive dall’epoca “romulea”.
A partire dalla stessa epoca, secondo alcuni studiosi, è operante quella che è ritenuta la più antica delle assemblee romane: i Comizi Calati. Si basa sulla strutturazione delle 30 curie e la sua competenza si estende su tutte le questioni per le quali il sovrano chiede la collaborazione dei cittadini riuniti in assemblea: la parola latina “comitium” significa “adunanza di popolo”; successivamente, con la nascita di altre assemblee, è convocata solo per comunicare al popolo il calendario e per ratificare i testamenti.
Secondo altri studiosi, l’assemblea dei Comizi Calati, come assemblea singola, non è esistita; “calare”, in latino, significa “convocare”: i Comizi Curiati e in seguito i Comizi Centuriati vengono dapprima ufficialmente convocati per poi riunirsi e procedere alla discussione e al dibattito delle questioni da affrontare.
In caso di conflitto, ogni tribù, rispettivamente quella dei Ramni, dei Sabini e dei Lùceri, deve fornire 1.000 fanti e 100 cavalieri; l’esercito, chiamato “legione”, dal latino “legio” cioè “raccolgo, scelgo”, è così formato da 3.000 fanti e 300 cavalieri e affidato a tre tribuni militari, uno per ogni tribù.
Sull’esistenza reale dei sovrani di Roma gli storici si sono sempre interrogati, ma gli ordinamenti della monarchia appaiono ormai del tutto certi. Inoltre la costituzione politica e militare attribuita a Romolo è veramente la prima costituzione di Roma e le istituzioni accreditate al secondo re, Numa Pompilio, sono veramente le istituzioni religiose del popolo romano. E’ però evidente che tali ordinamenti devono essersi formati gradatamente, dopo prove e discussioni, e devono essere state frutto della comune esperienza.
Numa Pompilio istituisce il collegio dei Pontefici
Allo scopo di eliminare divisioni e tensioni all’interno della città, Numa Pompilio si propone di unificare i culti e le tradizioni delle tre tribù presenti in Roma. E’ merito di Numa Pompilio l’istituzione del collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduto dal Pontefice Massimo. Il termine “pontifex” deriva dall’espressione latina “pontem facere”, che significa “costruire il ponte”: e in effetti il compito dei Pontefici è quello di costruire un “ponte” fra l’umano e il divino.
I Pontefici sono cinque: vigilano sulla moralità pubblica e privata dei cittadini; indicano e suggeriscono alle autorità pubbliche e ai privati il modo più opportuno per adempiere agli obblighi religiosi in modo da salvaguardare la concordia fra gli uomini e le divinità. Fra i compiti del collegio dei Pontefici vi è quello di regolare il calendario e di registrare tutti gli eventi dell’anno sistemandoli in ordine cronologico. A capo del collegio dei pontefici vi è il Pontefice Massimo, designato per cooptazione all’interno del collegio dei pontefici: la sua carica è a vita.
Numa Pompilio è ricordato come istitutore di importanti collegi sacerdotali; fra questi, il collegio dei Feziali, ricopre un ruolo considerevole, come testimonia il significato della lontana origine del suo nome: “codice di legge”. Scelti fra i patrizi, in numero di 20, sono incaricati di custodire e tutelare il diritto bellico di Roma; in contatto con il re, il Senato e le altre assemblee, intervengono nelle ambascerie, nella stipula di patti internazionali o nella dichiarazione di guerra ad altri popoli.
Il collegio, presieduto da un “magister fetialum”, eletto dagli altri feziali e in carica un anno, ha il dovere di difendere la dignità e l’orgoglio di Roma e il severo compito di punire i soldati disertori. Il peso di questo collegio nella vicenda storica di Roma è testimoniato dalla sua lunga vita: esaurisce le sue prerogative solo all’inizio dell’età imperiale.
Patrizi e plebei
I primi quattro re della tradizione sono alternativamente romani e sabini: Romolo e Tullo Ostilio romani, Numa Pompilio e Anco Marzio sabini; questo dimostra che per un certo periodo la supremazia in Roma è tenuta dalle tribù romana e sabina, mentre la terza, quella dei Lùceri, rimane per un certo tempo subordinata. In questo stesso periodo è da ritenersi la formazione, oltre al patriziato, del gruppo sociale dei plebei. I patrizi appartengono alle più antiche famiglie proprietarie di terre, sono i soli a far parte del Senato e dei Comizi Curiati e a collaborare con il re nel governo dello Stato; i patrizi, inoltre, monopolizzano le cariche sacerdotali.
Plutarco, nell’opera “Vite parallele”, scrive che i consiglieri del re sono chiamati “patrizi” non solo perché “padri di prole legittima” e perché “in grado di dimostrare chi è il loro padre”, ma anche perché “in grado di esercitare il patrocinio” ovvero la protezione degli individui appartenenti a classi sociali meno fortunate; Plutarco aggiunge che Romolo chiama i suoi consiglieri “patrizi” perché “convinto che sia dovere dei cittadini più potenti proteggere con cura e sollecitudine paterne i cittadini non ricchi e non importanti allo scopo di insegnare a quest’ultimi a non temere i grandi né a invidiare i loro onori, ma a ricorrere a loro con fiducia stimandoli e invocandoli come padri”.
Plutarco spiega così l’origine a Roma dei “clienti”, individui di modesta origine sociale che si mettono sotto la protezione di un patrizio: non per nulla “cliens”, in latino, significa “soggetto ad un potente”; tuttavia occorre precisare che il vincolo clientelare, nella fase più antica della storia di Roma, pur presente, non è diffuso come nelle epoche successive.
Tutti coloro che a Roma non appartengono alle “gentes” e sono pertanto privi di diritti costituiscono il gruppo sociale dei “plebei”: immigrati forzatamente o volontariamente, coloni ingaggiati nei lavori agricoli, addetti al piccolo commercio e all’artigianato; il termine “plebe”, di origine latina, ha il significato di “moltitudine”: i plebei, benché maggioranza della popolazione, sono esclusi da ogni attività politica.
L’influenza etrusca su Roma
A partire dall’VIII secolo a.C. la maggiore organizzazione politica nell’Italia centro-settentrionale è quella degli Etruschi, abili nel trarre utili profitti dalle ricche pianure agricole e nello sfruttare sapientemente, nell’attuale regione Toscana, gli abbondanti giacimenti di metalli.
Le città etrusche, rette da una potente aristocrazia in gran parte di origine commerciale e unite da un’alleanza di tipo religioso, si sono rapidamente espanse dal loro centro originario, la Toscana, sia verso nord, sia verso sud, in direzione del Lazio.
Gli Etruschi confinano dunque a settentrione con il territorio latino attorno a Roma: è inevitabile, per la loro superiorità politico-militare, economica e culturale, che Roma cada sotto la loro influenza, come infatti succede alla fine del VII secolo a.C.; inizia così per Roma il periodo della monarchia etrusca.
E’ recente parere degli storici che non si tratti di una vera e propria occupazione del territorio romano da parte degli Etruschi, ma di un’infiltrazione di alcuni capi militari etruschi con al seguito proprie truppe; questi capi militari non agiscono singolarmente, ma sono legati a qualche città dell’Etruria interessata ad assicurarsi il controllo di una zona ritenuta importante per le comunicazioni con il meridione d’Italia.
Figlio di Demarato, un greco di Corinto immigrato in Etruria, Lucomon è probabilmente un capo militare proveniente dalla città etrusca di Tarquinia; la moglie di Lucomon è l’intelligente e ambiziosa Tanaquil. I Romani ricorderanno Lucomon come quinto re di Roma con il nome di Tarquinio Prisco, cioè “il re che per primo ha regnato con il nome di Tarquinio”, e la moglie con il nome di Tanaquilla: entrambi governeranno Roma per quasi quarant’anni.
La monarchia etrusca segna un vigoroso impulso alla costruzione delle opere pubbliche e all’organizzazione politica di Roma: Tarquinio Prisco riforma il Senato chiamando i Lùceri a farne parte in numero di 100, crea la figura del “magister populi”, un particolare collaboratore del re con il compito di organizzare i cittadini in guerra, e introduce un fasto e un cerimoniale insoliti per i Latini.
Indiscussa è infatti l’origine etrusca dei segni esteriori del potere, di cui saranno soliti fregiarsi i magistrati romani, quali la tunica con strisce di porpora, lo scettro d’avorio sormontato dall’aquila, il mantello color porpora dei comandanti, la “sella curule” ovvero la sedia pieghevole a forma di “X”, simbolo del potere giudiziario, e i fasci littori, un fascio di bastoni legati con strisce di cuoio attorno ad una scure, simbolo di autorità, ma anche di unione e di forza.
I Romani e i Latini del Lazio acquisiscono l’alfabeto dagli Etruschi, che lo hanno, a loro volta, derivato da quello greco; da allora i Latini hanno a disposizione uno strumento di comunicazione che sfida il tempo, consentendo loro di lasciare preziose testimonianze e di dar vita ad una delle più importanti letterature dell’antichità.
Servio Tullio istituisce le classi sociali e i Comizi centuriati
Il successore di Tarquinio Prisco è Servio Tullio, ricordato come sesto re di Roma; deve il trono all’intelligenza politica della suocera Tanaquil e alle truppe sotto il comando dei fratelli Caile e Aule Vipinas, due condottieri etruschi provenienti dalla città di Vulci.
Servio Tullio è storicamente conosciuto anche con il nome etrusco di Mastarna, ma tale nome si pensa sia un appellativo militare, tradotto in latino con il termine di “magister” con significato di “comandante”; il suffisso “na” del termine “Mastarna” sta ad indicare “appartenenza”: è probabile che Servio Tullio, in origine, sia un capo militare alle dipendenze di Caile e Aule Vipinas.
Una volta stabilmente sul trono, Servio Tullio si sbarazza dei due fratelli, divenuti ora troppo ingombranti; Caile muore anzitempo: in suo ricordo prende il nome un colle di Roma, il colle Celio, dove lo stesso Caile ha acquartierato le truppe di cui è al comando; Aule è invece assassinato dai sicari inviati da Servio Tullio: come macabro monito per eventuali nemici, la testa mozzata di Aulo è lasciata su un colle che prenderà il nome di “Capitolino”, dal latino “caput – Auli”.
A Servio Tullio, il cui regno è collocato nella prima metà del VI secolo a.C., la tradizione attribuisce il merito di un’importante riforma istituzionale, in base alla quale tutti i cittadini devono prendere parte alla vita politica dello Stato, ma in diversa misura: questa diversità non dipende dalla nascita, ma dal censo ovvero dal patrimonio di ciascun cittadino.
Indetto un censimento, cioè un conteggio dei cittadini con relativa nota del patrimonio di ciascuno, stabilito che questa operazione debba ripetersi ogni cinque anni, Servio Tullio distribuisce i cittadini in sei classi, distinte in un diverso numero di centurie, così chiamate in quanto ciascuna di queste raggruppa in origine cento uomini. Stabilisce poi che le riunioni e le votazioni nei nuovi Comizi, detti appunto Centuriati, si tengano per centurie e che ogni centuria disponga di un solo voto.
Servio Tullio, inoltre, regola i tributi che i cittadini devono pagare allo Stato, secondo la propria ricchezza, e disciplina il servizio militare che gli stessi cittadini devono prestare con le diverse specie di armi, di cui è fatto obbligo provvedersi. Pertanto, chi ha maggiori ricchezze e quindi maggior numero di voti nei Comizi Centuriati, ha anche i più gravi oneri da assolvere nell’ambito della vita militare dello Stato.
Nella prima classe sono collocati i cittadini con patrimonio superiore ai 100.000 assi, intendendosi per asse la moneta romana il cui peso, in origine, è di 327 grammi di bronzo; nella seconda classe sono collocati i cittadini con patrimonio superiore ai 75.000 assi, nella terza classe vi sono i cittadini con patrimonio superiore ai 50.000 assi, nella quarta i cittadini con patrimonio superiore ai 25.000 assi, mentre alla quinta classe appartengono i cittadini con patrimonio superiore agli 11.000 assi; la sesta e ultima classe è formata da quei cittadini che hanno un patrimonio inferiore ai precedenti o sono nullatenenti.
La prima classe da sola conta 98 centurie, 18 di cavalleria e 80 di fanteria adeguatamente armate a livello difensivo e offensivo, la seconda e la terza classe contano insieme 40 centurie di fanteria adeguatamente armate a livello difensivo e offensivo, la quarta classe conta 20 centurie di fanteria leggera, i cui soldati sono privi di elmo e hanno come arma offensiva soltanto il giavellotto, mentre la quinta classe è formata da 30 centurie, i cui soldati non hanno alcuna arma difensiva e le armi offensive sono archi con frecce o fionde con pietre; gli appartenenti alla sesta classe, formata da sole 5 centurie, sono esclusi dalla milizia.
In totale le centurie sono 193, ma il peso delle centurie dei ceti più ricchi è consistente: è sufficiente che le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della prima classe siano d’accordo su una determinata questione perché ottengano la maggioranza con 98 voti contro i 95 voti di tutte le altre classi messe insieme. Inoltre, capita spesso che, quando le centurie dei cittadini più ricchi sono solidali su una determinata questione, le altre centurie non vengano neppure chiamate a votare: non ci sono dubbi sul carattere schiettamente oligarchico dei Comizi Centuriati.
Infine, quale peso può avere la sesta classe, suddivisa in sole cinque centurie, all’interno della quale vi sono gli artigiani, i proletari, coloro che hanno un basso reddito o non hanno alcun reddito? Gli appartenenti a questa classe sono esclusi dalla milizia militare non solo perché impossibilitati a provvedere al proprio armamento, ma anche perché ritenuti indegni di portare le armi in difesa dello Stato.
Si tratta di un ordinamento che, in teoria, riconosce a tutti la possibilità di migliorare le proprie condizioni economiche e di essere ammessi alla classe superiore, non esclusa la prima: non è un caso se ogni cinque anni si procede alla valutazione del censo. Ma la possibilità è il più delle volte solamente teorica: le classi popolari risentono maggiormente di eventuali conflitti, carestie, crisi economiche, mentre le classi abbienti hanno sovente i mezzi per assorbire le conseguenze di tali eventi. Pertanto, la maggioranza dei voti resta un monopolio delle prime classi e cioè dei più ricchi, i quali, pur costituendo una minoranza, sono in possesso del potere effettivo dello Stato.
Da tempo gli storici ritengono che la riforma centuriata non sia del tutto opera di Servio Tullio nel VI secolo a.C.; pensano invece che l’ordinamento centuriato abbia conosciuto una prima elaborazione alla fine del V secolo a.C. e, dopo graduali trasformazioni, una successiva applicazione qualche decennio successivo.
Gli storici oggi osservano che la definizione di censo, fatta sulla base degli assi, non può risalire al tempo di Servio Tullio: in quel periodo i Romani non possiedono ancora alcuna moneta e i pagamenti sono effettuati soprattutto con il bestiame; in fondo, dal termine “pecus”, ossia “bestiame”, deriva la parola “pecunia” ovvero “moneta”. Solo in seguito si impone un’altra forma di pagamento costituita da un pezzo di bronzo non lavorato detto “aes rude” e destinato ad essere pesato e non contato; successivamente compare una mattonella di bronzo chiamata “aes signatum”, di cui lo Stato garantisce peso e lega mediante un apposito contrassegno.
E’ quindi più probabile ritenere che l’ordinamento centuriato sia frutto di una trasformazione di un organismo preesistente sorto all’epoca di Servio Tullio; in questo organismo si riflette l’influenza delle riforme realizzate quasi contemporaneamente in Atene per volontà di Solone. Con l’avvento dell’ordinamento centuriato, l’antica assemblea dei Comizi Curiati perde la sua importanza riducendosi a organismo atto a convalidare le votazioni dei Comizi Centuriati.
A Roma la sede del Senato è la Curia Hostilia, fatta costruire da re Tullo Ostilio; l’assemblea dei Comizi Curiati si riunisce nel Foro, centro politico della città, mentre l’assemblea dei Comizi Centuriati si riunisce nel Campo Marzio, l’area consacrata al dio della guerra Marte, essendo i Comizi Centuriati l’assemblea dei cittadini in armi; alcuni studiosi ritengono che l’attuale palazzo di Montecitorio, oggi sede della Camera dei Deputati del Parlamento italiano, deve il suo nome al verbo latino “citare”, ossia “convocare”, visto che nelle vicinanze vi era il luogo in cui si riunivano i cittadini romani divisi in centurie.
La fine dell’età monarchica di Roma
Secondo la tradizione, nel 509 a.C., a Roma si verifica un fatto di grande importanza: termina la monarchia etrusca e inizia la Repubblica. Non è una novità nel mondo mediterraneo del tempo: sul finire del VI secolo a. C. si assiste al passaggio di potere dai re alle aristocrazie locali; è un fenomeno comune anche a Greci ed Etruschi.
Per quanto riguarda Roma, fra la fine del VI secolo a.C. e l’inizio del V secolo a.C., si verifica il crollo della potenza degli Etruschi nel Lazio. L’ultimo re, Tarquinio il Superbo, è espulso da Roma e, poco dopo, l’armata etrusca è sconfitta nelle acque di Cuma dai Greci.
La fine della monarchia etrusca a Roma non è dovuta solo a motivi “esterni”; gli storici mettono in evidenza anche motivi interni: i re etruschi hanno tenuto a Roma un atteggiamento di favore nei confronti dei gruppi sociali legati alle attività commerciali sostenendoli contro le pretese dell’aristocrazia terriera allo scopo di rendere più stabile il potere monarchico. La stessa riforma voluta da Servio Tullio, che ha come cardini i Comizi Centuriati, ha di fatto messo da parte i Comizi Curiati, appannaggio dell’aristocrazia terriera.
La rivolta delle famiglie patrizie, minacciate nei loro interessi, non si è quindi fatta attendere, rivolta facilitata dal fatto che si rivolge contro una dinastia straniera e pertanto può coinvolgere l’elemento latino presente a Roma. La tradizione insiste sui motivi “interni” della ribellione: l’arroganza di re Tarquinio il Superbo, la perfidia del figlio del re che oltraggia la virtuosa Lucrezia appartenente ad una famiglia del patriziato, la reazione indignata del popolo romano che porta alla cacciata del sovrano.
Ma più che di rivoluzione antimonarchica sarebbe meglio parlare di graduale evoluzione che porta alla sostituzione del governo regio con un governo repubblicano in cui i ceti più abbienti sono la classe dirigente. I re, trovandosi nell’impossibilità di provvedere da soli alle crescenti necessità civili e militari di un territorio sempre più esteso, sono costretti a servirsi di collaboratori scelti fra i cittadini più benestanti; alla fine, l’aumento della potenza e dell’influenza di questi cittadini facoltosi porta alla progressiva trasformazione del sistema di governo.
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