CONTENUTO
Il “longus et unus annus” dei quattro imperatori. La fine della dinastia Giulio-Claudia
Il suicidio dell’imperatore Nerone, avvenuto l’8 giugno 68 d.C. nella villa suburbana del liberto Faonte, segna la fine della dinastia giulio-claudia che, iniziata con Ottaviano, vide in seguito succedersi al potere Tiberio, Caligola e, appunto, il figlio di Agrippina minore. Il sovrano, infatti, muore tragicamente all’età di trent’anni e sei mesi e, non lasciando eredi, costrinse la società romana a sperimentare una nuova modalità di successione al trono, come testimonia Tacito in Storie I, 4,2:
Finis Neronis ut laetus primo gaudentium impetu fuerat, ita varios motus animorum non modo in urbe apud patres aut populum aut urbanum militem, sed omnis legiones ducesque conciverat, evulgato imperii arcano posse principem alibi quam Romae fieri.
(La fine di Nerone, pur festeggiata nel primo impeto della pubblica esultanza, aveva però suscitato sentimenti diversi, non solo a Roma, nei senatori o nel popolo o nelle milizie cittadine, ma in tutte le legioni e in tutti i comandanti, poiché era stato reso pubblico un segreto del potere: potersi creare un imperatore fuori di Roma)
Le novità furono due: il principe può essere nominato fuori dall’Urbe e soprattutto all’esterno della famiglia regnate. Il senato, che fino ad allora non aveva goduto di nessun potere decisionale nella scelta dell’imperatore, divenne decisivo.
Galba
L’aristocrazia, riacquistato il proprio peso, proclamò imperatore Servio Sulpicio Galba, l’anziano governatore della Spagna Tarraconense con cui, durante la rivolta delle province occidentali contro Nerone, si erano schierati i governatori di tali zone e il prefetto del pretorio Nimfidio Sabino. Quest’ultimo, nella speranza di ottenere il potere, si era spacciato per il figlio illegittimo di Caligola e aveva corteggiato il senato cercando di ingraziarsi anche il favore della plebe attraverso la concessione di infierire contro i favoriti del giovane imperatore defunto.
Il governo di Galba ebbe, tuttavia, durata breve: i pretoriani, già scontenti di non aver ricevuto il donativo atteso, non gradirono la sua decisione di adottare Lucio Calpurnio Pisone. La scelta deluse soprattutto Marco Salvio Otone, governatore della Lusitania, che ordì un complotto ai suoi danni ponendo fine alla vita del sovrano settantunenne il 15 gennaio del 69 d.C. I dettagli dell’episodio ci sono noti grazie a quanto narra Plutarco in Galba 24, 2-25:
Ἐκείνῃ γὰρ ἕωθεν εὐθὺς ὁ μὲν Γάλβας ἔθυεν ἐν Παλατίῳ τῶν φίλων παρόντων, ὁ δὲ θύτης Ὀμβρίκιος ἅμα τῷ λαβεῖν εἰς τὰς χεῖρας τοῦ ἱερείου τὰ σπλάγχνα καὶ προσιδεῖν οὐ διʹαἰνιγμῶν, ἀλλʹἄντικρυς ἔφη σημεῖα μεγάλης ταραχῆς καὶ μετὰ δόλου κίνδυνον ἐκ κεφαλῆς ἐπικείμενον τῷ αὐτοκράτορι, μονονουχὶ τὸν Ὄθωνα τοῦ θεοῦ χειρὶ ληπτὸν παραδιδόντος. Παρῆν γὰρ ὄπισθεν τοῦ Γάλβα καὶ προσεῖχε τοῖς λεγομένοις καὶ δεικνυμένοις ὑπὸ τοῦ Ὀμβρικίου. Θορυβουμένῳ δʹαὐτῷ καὶ χρόας ἀμείβοντι παντοδαπὰς ὑπὸ δέους παραστὰς Ὀνόμαστος ἁπελεύθερος ἥκειν ἔφη καὶ περιμένειν αὐτὸν οἴκοι τοὺς ἀρχιτέκτονας.Ἦν δὲ σύμβολον καιροῦ, πρὸς ὃν ἔδει ἀπαντῆσαι τὸν Ὄθωνα τοῖς στρατιώταις. Εἰπὼν οὖν ὅτι παλαιὰν ἐωνημένος οἰκίαν, βούλεται τὰ ὕποπτα δεῖξαι τοῖς πωληταῖς, ἀπῆλθε, καὶ διὰ τῆς Τιβερίου καλουμένης οἰκίας καταβὰς ἐβάδιζεν εἰς ἀγοράν, οὗ χρυσοῦς εἱστήκει κίων, εἰς ὃν αἱ τετμημέναι τῆς Ἰταλίας ὁδοὶ πᾶσαι τελευτῶσιν. Ἐνθαῦτα τοὺς πρώτους ἐκδεξαμένους αὐτὸν καὶ προσειπόντας αὐτοκράτορά φασι μὴ πλείους τριῶν καὶ εἴκοσι γενέσθαι. Διό, καίπερ οὐ κατὰ τὴν τοῦ σώματος μαλακίαν καὶ θηλύτητα τῇ ψυχῇ διατεθρυμμένος, ἀλλ’ ἰταμὸς ὢν πρὸς τὰ δεινὰ καὶ ἄτρεπτος, ἀπεδειλίασεν. Oἱ δὲ παρόντες οὐκ εἴων, ἀλλὰ γυμνοῖς τοῖς ξίφεσι περιϊόντες αὐτοῦ τὸ φορεῖον, ἐκέλευον αἴρεσθαι, παραφθεγγομένου πολλάκις ἀπολωλέναι καὶ τοὺς φορειαφόρους ἐπιταχύνοντος. Ἐξήκουον γὰρ ἔνιοι, θαυμάζοντες μᾶλλον ἢ ταραττόμενοι διὰ τὴν ὀλιγότητα τῶν ἀποτετολμημένων. Φερομένῳ δ’οὕτω δι᾽ἀγορᾶς ἀπήντησαν ἕτεροι τοσοῦτοι, καὶ πάλιν κατὰ τρεῖς καὶ τέτταρας ἄλλοι προσεπέλαζον.
(«Quel giorno, di buon mattino, Galba sacrificava sul Palatino alla presenza di amici e l’aruspice Umbricio, nel prendere in mano le viscere della vittima per esaminarla, non in modo oscuro ma chiaramente disse di vedere segni di un grande scompiglio ed un pericolo di tradimento incombente sul capo dell’imperatore, mentre la divinità quasi gli consegnava in mano Otone. Egli, infatti, era presente alle spalle di Galba e stava attento a quanto veniva detto e mostrato da Umbricio. Poiché era sconvolto e cambiava continuamente colore per la paura, gli si avvicinò il suo liberto Onomasto e gli disse che gli architetti erano arrivati e lo aspettavano a casa. Era questo il segnale del momento in cui Otone doveva andare incontro ai soldati. Dicendo dunque che aveva comprato una vecchia casa e voleva mostrare le parti sospette ai venditori, se ne andò e scendendo attraverso i cosiddetti palazzi tiberiani andò verso la piazza dove si innalza una colonna aurea, alla quale terminano tutte le strade costruite in Italia. Dicono che i primi ad accoglierlo qui e a salutarlo imperatore fossero non più di ventitré. Per questo, benché non fosse debole di animo così come era debole e molle fisicamente, e fosse invece audace e impassibile di fronte ai pericoli, si spaventò. I presenti non permisero che tornasse indietro, ma circondando la sua lettiga con le spade in pugno ordinarono che venisse portato via, mentre lui ripeteva sottovoce che era perduto e incitava i portantini ad affrettarsi. Alcuni sentirono e furono sorpresi più che turbati dalla esiguità del numero di coloro che avevano osato l’impresa. Mentre in questo modo lo portavano attraverso il foro, si presentarono altrettanti soldati e poi altri ancora si unirono in gruppi di tre o quattro»)
Una versione simile si legge anche in Storie 1, 27-41 di Tacito, il quale ci fornisce anche informazioni sullo stato d’animo con cui l’imperatore affronta i suoi ultimi istanti di vita:
Viso comminus armatorum agmine vexillarius comitatae Galbam cohortis (Atilium Vergilionem fuisse tradunt) dereptam Galbae imaginem solo adflixit: eo signo manifesta in Othonem omnium militum studia, desertum fuga populi forum, destricta adversus dubitantis tela. iuxta Curtii lacum trepidatione ferentium Galba proiectus e sella ac provolutus est. extremam eius vocem, ut cuique odium aut admiratio fuit, varie prodidere. alii suppliciter interrogasse quid mali meruisset, paucos dies exolvendo donativo deprecatum: plures obtulise ultro percussoribus iugulum: agerent ac ferirent, si ita [e] re publica videretur. non interfuit occidentium quid diceret. de percussore non satis constat: quidam Terentium evocatum, alii Laecanium; crebrior fama tradidit Camurium quintae decimae legionis militem impresso gladio iugulum eius hausisse. ceteri crura brachiaque (nam pectus tegebatur) foede laniavere; pleraque vulnera feritate et saevitia trunco iam corpori adiecta.
(«Vistasi addosso quella schiera di armati, l’alfiere della coorte che scortava Galba-dicono che fosse Attilio Vergilione-, strappò dall’insegna l’immagine di Galba e la gettò a terra. A quel segnale, tutti i soldati si dichiararono per Otone; il popolo fuggì abbandonando il foro, gli incerti si videro le armi puntate addosso. Presso il lago Curzio, per il panico dei portatori, Galba venne sbalzato dalla lettiga e travolto. Le sue ultime parole variano in ragione dell’odio o dell’ammirazione di chi le ha riferite. Per alcuni avrebbe domandato con voce supplichevole che male aveva fatto, implorando pochi giorni per pagare il donativo; ma i più vogliono che abbia offerto lui stesso la gola ai suoi assassini, dicendo: «Su, colpite, se lo esige il bene dello stato». Parole cadute tra l’indifferenza dei suoi uccisori. L’identità dell’assassino è incerta: alcuni indicano Terenzio, un riservista, altri Lecanio; per la tradizione più corrente, sarebbe invece stato Camurio, un soldato della Quindicesima legione, a puntargli la spada alla gola e a trapassarlo. Gli altri gli dilaniarono orrendamente gambe e braccia -il petto era coperto dalla corazza-; molte ferite gli vennero inferte per disumana ferocia, quand’era ormai un corpo smembrato»)
Otone
Assassinato Galba, Otone raggiunse il suo scopo di farsi eleggere imperatore. Proveniente da una famiglia equestre, egli aveva già ricoperto in precedenza un ruolo importante dentro il palazzo del potere, essendo uno degli intimi di Nerone. Si racconta che aiutò quest’ultimo il giorno in cui decise di uccidere la madre Agrippina organizzando una cena intima per mettere a tacere le voci. Quando, tuttavia, Nerone si innamorò di sua moglie Poppea Sabina, il loro rapporto si deteriorò ed egli fu inviato in Lusitania come governatore, rimanendoci per dieci anni.
Il suo legame con l’ultimo esponente della dinastia giulio-claudia lo caratterizzò anche durante il periodo del suo impero: la plebe lo salutava chiamandolo Nerone Ottone ed egli, non dispiacendosi di questa identificazione, cercò di riabilitare la figura del suo amico colpito dalla damnatio memoriae reintegrando nelle loro cariche i procuratori e i liberti neroniani licenziati da Galba e stanziando 50 milioni di sesterzi per il completamento della Domus Aurea.
Vitellio
Se il popolo mostrò il suo consenso verso il nuovo sovrano, differente fu la reazione delle legioni sul Reno: esse, nominando imperatore Aulo Vitellio, anch’egli un fedele di Nerone, scesero in Italia sconfiggendo a Bedriaco, nei pressi di Cremona, Otone, il quale morì suicida il 16 aprile 69 d.C. Svetonio ci racconta così l’evento:
Fratrem igitur fratrisque filium et singulos amicorum cohortatus, ut sibi quisque pro facultate consuleret, ab amplexu et osculo suo dimisit omnis, secretoque capto binos codicillos exaravit, ad sororem consolatorios, et ad Messalinam Neronis, quam matrimonio destinarat, commendans reliquias suas et memoriam. Quicquid deinde epistularum erat, ne cui periculo aut noxae apud victorem forent, concremavit. Divisit et pecunias domesticis ex copia praesenti. Atque ita paratus intentusque iam morti, tumultu inter moras exorto, “Adiciamus” inquit “vitae et hanc noctem”, vetuitque vim cuiquam fieri; et in serum usque patente cubiculo, si quis adire vellet, potestatem sui praebuit. Post hoc, sedata siti gelidae aquae potione, arripuit duos pugiones et explorata utriusque acie, cum alterum pulvino subdidisset, foribus adopertis artissimo somno quievit. Et circa lucem demum expergefactus, uno se traiecit ictu infra laevam papillam, irrumpentibusque ad primum gemitum modo celans modo detegens plagam, exanimatus est et celeriter nam ita praeceperat funeratus, tricensimo et octavo aetatis anno et nonagensimo et quinto imperii die.
(«Dunque, dopo aver esortato a uno a uno il fratello, il figlio di lui e gli altri amici a provvedere a se stessi come meglio potevano, li congedò tutti abbracciandoli e baciandoli. Poi, isolatosi, vergò due biglietti consolatori, uno per la sorella, l’altro per Messalina, vedova di Nerone, che egli aveva pensato di far sua sposa, a loro affidando i suoi resti mortali e la sua memoria. Quindi bruciò ogni altra sua lettera perché, in mano al vincitore, non fosse di danno o di pericolo per nessuno. Infine divise tra i domestici il denaro di cui in quel momento poteva disporre. Mentre era così pronto e deliberato a morire, si levò in quel frattempo uno scompiglio: seppe che venivano arrestati e messi in ceppi quanti avevano preso ad allontanarsi e ad andarsene dal campo. Allora disse – proprio con queste precise parole: «Aggiungiamo ancora questa notte alla mia vita» e ordinò che a nessuno fosse fatta violenza. Poi permise a chiunque volesse vederlo di conferire con lui, fino a tardi, lasciando aperta la porta della sua camera. Quindi, calmata l’arsura della sete con un bicchiere d’acqua fredda, staccò due pugnali, ne provò il filo, ne nascose uno sotto il cuscino, chiuse la porta e si abbandonò a un sonno profondo. Destatosi, infine, sul far del giorno, si trafisse il petto d’un colpo solo, a sinistra. Spirò così, ora celando e ora scoprendo la ferita; mentre i servi accorrevano al primo suo gemito. Come aveva disposto, fu immediatamente cremato. Aveva trentotto anni ed era stato imperatore per novantacinque giorni»)
Nonostante l’elezione di Vitellio, tuttavia, le manovre militari continuarono: le legioni orientali, infatti, nel luglio del 69 d.C. proclamarono imperatore Tito Flavio Vespasiano che in quel periodo si trovava in Giudea, dove era stato inviato da Nerone per sedare una rivolta popolare, e ben presto anche le truppe di stanza nelle regioni danubiane decisero di appoggiarlo. In autunno si ebbe, così, l’ennesimo scontro per il potere: Bedriaco fu per la seconda volta campo di battaglia vedendo la sconfitta dei vitelliani che ebbero la peggio anche a Saxa Rubra. Rimasto nell’Urbe, Vitellio cercò di organizzare la resistenza uccidendo Flavio Sabino, fratello di Vespasiano e prefetto urbano, che si era asserragliato sul Campidoglio. La collina fu data alle fiamme e durante l’incendio bruciarono sia il tempio di Giove Ottimo Massimo sia il Tabularium. Il suo tentativo fu, però, vano e il 22 dicembre del medesimo anno i sostenitori di Vespasiano conquistarono Roma, come è possibile leggere in Storie III, 85:
Vitellium infestis mucronibus coactum modo erigere os et offerre contumeliis, nunc cadentis statuas suas, plerumque rostra aut Galbae occisi locum contueri, postremo ad Gemonias, ubi corpus Flavii Sabini iacuerat, propulere. una vox non degeneris animi excepta, cum tribuno insultanti se tamen imperatorem eius fuisse respondit; ac deinde ingestis vulneribus concidit. et vulgus eadem pravitate insectabatur interfectum qua foverat viventem
(«Puntandogli addosso le spade, costrinsero Vitellio a sollevare la testa, offrendosi agli oltraggi, a vedere abbattere le sue statue – soprattutto i rostri – e il luogo dove era stato ucciso Galba, poi lo spinsero a Gemonia, dove avevano gettato il corpo di Flavio Sabino2 . Una sola parola non ignobile si sentì dalla sua bocca, quando al tribuno che lo insultava rispose che era pur stato il suo imperatore, poi cadde per i colpi ricevuti. Morto, la folla lo oltraggiava con la stessa bassezza con cui da vivo l’aveva adulato»)
Della tragicità dell’episodio se ne ha testimonianza anche in Vita di Vitellio, 17 di Svetonio:
Irruperant iam agminis antecessores ac nemine obvio rimabantur, ut fit, singula. Ab is extractus e latebra, sciscitantes quis esset (nam ignorabatur) et ubi esset Vitellium sciret, mendacio elusit; deinde agnitus rogare non destitit, quasi quaedam de salute Vespasiani dicturus, ut custodiretur interim vel in carcere, donec religatis post terga manibus, iniecto cervicibus laqueo, veste discissa seminudus in forum tractus est inter magna rerum verborumque ludibria per totum viae Sacrae spatium, reducto coma capite, ceu noxii solent, atque etiam mento mucrone gladii subrecto, ut visendam praeberet faciem neve summitteret; quibusdam stercore et caeno incessentibus, aliis incendiarium et patinarium vociferantibus, parte vulgi etiam corporis vitia exprobrante; erat enim in eo enormis proceritas, facies rubida plerumque ex vinulentia, venter obesus, alterum ferum subdebile impulsu olim quadrigae, cum auriganti Gaio ministratore exhiberet. Tandem apud Gemonias minutissimis ictibus excarnificatus atque confectus et inde unco tractus in Tiberim.
(«Le avanguardie nemiche avevano già fatto irruzione nel Palatino e, non trovando nessuno, si diedero a perquisire ogni cosa, come succede normalmente. Così essi lo tirarono fuori dal suo nascondiglio e, non conoscendolo, gli domandarono chi fosse e se sapeva dove si trovasse Vitellio; in un primo tempo si salvò con la menzogna, ma poi, riconosciuto, non la smise di pregare, con il pretesto che aveva da fare rivelazioni che riguardavano la vita di Vespasiano, di salvarlo provvisoriamente, magari anche in prigione; alla fine gli furono legate le mani dietro la schiena, gli fu messa una corda al collo, gli furono strappate le vesti e, seminudo, venne trascinato nel foro, in mezzo ad oltraggi e maltrattamenti di ogni genere, che si ripetevano per tutto il percorso della Via Sacra; la testa gli fu rovesciata indietro, prendendolo per i capelli, come si fa con i criminali e per di più con la punta di una spada gli si tenne sollevato il mento, perchè facesse vedere la faccia e non potesse abbassare la testa: c’era chi gli gettava sterco e fango e chi gli gridava incendiario e crapulone. La plebaglia gli rinfacciava anche i difetti fisici: e in realtà aveva una statura spropositata, una faccia rubizza da avvinazzato, il ventre obeso, una gamba malconcia per via di una botta che si era presa una volta nell’urto con la quadriga guidata da Caligola, mentre lui gli faceva da aiutante. Fu finito presso le Gemonie, dopo esser stato scarnificato da mille piccoli tagli; e da lì con un uncino fu trascinato nel Tevere»)
Vespasiano e l’inizio della dinastia Flavia
A seguito di tali eventi, il senato emanò un decreto con il quale riconosceva il generale flavio, ancora residente in Oriente, come nuovo imperatore. L’atto pose fine alla guerra civile che aveva martoriato l’Urbe in quel periodo che Tacito definisce «longus et unus annus»(lungo e insolito anno). Figlio di un repubblicano e originario di Rieti in Sabina, Vespasiano, non appartenendo all’aristocrazia senatoria, ebbe bisogno di legittimare la posizione raggiunta. Tale necessità fu soddisfatta dall’emanazione della Lex de imperio Vespasiani, un provvedimento che indicava con precisione gli ambiti di competenza del nuovo imperatore.
Il testo della legge, tramandatoci da un documento epigrafico inciso su bronzo e conservato nei Musei Capitolini, prevede che il sovrano possa concludere trattati con controparti internazionali da lui stesso designate, convocare sedute legittime del senato, intervenire nell’elezione dei magistrati esplicitando la propria raccomandazione nei confronti di un candidato, allargare la cinta del pomerio, godere di un’amplissima libertà di iniziativa essendo svincolato dal rispetto di leggi e plebisciti. Pur trattandosi di un documento importante all’interno della storia romana, le fonti letterarie, tuttavia, non contengono alcun accenno ad essa.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Cosme- G. Traina, L’anno dei quattro imperatori, 21 Editore, Palermo, 2015.
- Cresci Marrone- F. Rohr Vio- L. Calvelli, Roma antica. Storia e documenti, Il Mulino, Bologna, 2014.
- Francesco Lamendola, Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C., Lalli Editore, Poggibonsi, 1984.
- Gwyn Morgan, 69 d. C. L’anno dei quattro imperatori, LEG Edizioni, Gorizia, 2019.
- Romeo di Colloredo, L. Cristini, Roma contro Roma. L’anno dei quattro imperatori e le due battaglie di Brendiaco, Luca Cristini Editore, 2017.