CONTENUTO
Biografia e carriera lampo di Aldo Moro
Aldo Moro nasce il 23 settembre 1916 a Maglie, in provincia di Lecce. Dopo aver conseguito la maturità classica si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Bari. Incontra il gruppo della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, in un tempo di grande tragedia per l’Italia e il mondo: lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Diventa presidente del circolo di Bari e poi presidente nazionale di quella associazione che è stata una delle radici della futura classe dirigente repubblicana.
Fin da giovane Moro è un cattolico sociale, antifascista, attento alle tematiche della giustizia. Gli studi in legge, uniti alla sua iniziale partecipazione alla corrente dossettiana, sembrano farne un perfetto esempio della sinistra democristiana. Consegue la laurea con una tesi su «La capacità giuridica penale», che costituirà anche la sua prima pubblicazione, consentendogli di iniziare la carriera universitaria.
Il suo costante impegno nella formazione, anche politica, dei giovani gli vale l’elezione a membro dell’Assemblea costituente nel 1946, all’interno della quale parteciperà all’elaborazione e alla stesura degli articoli relativi ai diritti dell’uomo e del cittadino. Da quel momento in poi la sua vita di docente sarà affiancata da quella di uomo politico all’interno della Democrazia Cristiana (DC).
Nel 1953 viene rieletto alla Camera, dove ricopre la carica di presidente del gruppo parlamentare democristiano. Nel 1955 viene eletto Ministro di Grazia e Giustizia nel I governo Segni e l’anno dopo risulta tra i primi eletti nel consiglio nazionale del partito, durante il VI congresso nazionale della DC.
Da Ministro della Pubblica Istruzione, nei due anni successivi (governi Zoli e Fanfani), introduce lo studio dell’Educazione civica nelle scuole. Elabora un Piano decennale per l’istruzione atto a rendere effettivo il diritto alla scuola con nuovi edifici, borse di studio e assistenza. Inoltre è sua l’intuizione di sfruttare la neonata Rai per agevolare l’alfabetizzazione del paese dando l’avvio alla creazione di quella che, inizialmente chiamata Telescuola, diventerà la trasmissione “Non è mai troppo tardi” condotta dal maestro Alberto Manzi, il quale spiega nozioni di grammatica e sintassi a milioni di persone ancora analfabete.
L’anno di svolta è il 1959, quando gli viene affidata la carica di segretario di partito della DC. Dopo la parentesi del governo Tambroni (1960), appoggiato dai voti determinanti del Movimento Sociale Italiano, la convergente iniziativa di Moro alla segreteria e di Fanfani nuovamente al governo, guidano il successivo Congresso nazionale della DC — svoltosi a Napoli nel 1962 — ad approvare, con ampia maggioranza, una linea di collaborazione della DC con il Partito Socialista Italiano.
Aldo Moro e la nascita del Centro-Sinistra
L’esperienza delle maggioranze di centro-sinistra prende forma con il quarto governo Fanfani (1962) di coalizione DC-PSDI-PRI e con l’appoggio esterno del PSI. Pur nella sua breve vita, il governo Fanfani riesce a varare la riforma della scuola che istituisce l’istruzione media unificata ed eleva l’obbligo scolastico a 14 anni. Inoltre procede alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, nasce dunque l’ENEL, Ente Nazionale per l’Energia Elettrica.
Il 28 aprile 1963 si vota per le elezioni politiche. Nel dicembre 1963, Moro — all’età di 47 anni — viene eletto Presidente del Consiglio, formando per la prima volta dal 1947, un governo con la presenza di esponenti socialisti. Il segretario del PSI, Pietro Nenni, ne diventa vicepresidente. Moro successivamente guiderà altri governi, ricoprendo la carica fino al 1968. Egli, fino ad allora, è il più giovane presidente della storia repubblicana.
Aldo Moro «era un cattolico osservante e praticante e la sua fede in Dio si rispecchiava nella sua vita politica». Viene considerato un mediatore tenace e particolarmente abile nella gestione e nel coordinamento politico delle numerose “correnti” che agiscono e si suddividono il potere all’interno della Democrazia Cristiana. All’inizio degli anni Sessanta, Moro è un convinto assertore della necessità di un’alleanza tra il suo partito e il Partito Socialista Italiano, per la creazione di un governo di centro-sinistra.
Moro apre ai socialisti cercando di convincere gli americani che questi non sono pericolosi e guarda ai comunisti come soggetto politico da integrare nel sistema; ciò potrebbe portare a pensare che sia un uomo di sinistra. Sarebbe riduttivo giungere a tale sillogismo perché in realtà è un politico dalla visione straordinaria per modernità e prospettiva; capisce che non si può tenere fuori dalla politica nazionale circa un terzo dell’elettorato.
Un partito come la DC, variegato ed eterogeneo al suo interno, rischia fenomeni di erosione non solo del consenso ma della sua tenuta etica e morale. Egli comprende che la «solitudine del potere» non fa bene né alle istituzioni né a chi quel potere lo gestisce. Inoltre sa guardare ai cambiamenti del Paese ed è consapevole che i movimenti sociali, la politica sindacale e le manifestazioni ricoprono un’importanza fondamentale per la democrazia.
I socialisti sono per Moro il modo per allargare la base sociale del governo, non tanto per spostare la DC a sinistra ma per evitare degli scontri sociali troppo duri e accesi. Tuttavia questi sono anni difficili: la società italiana alla fine degli anni Sessanta è in grande fermento. Il periodo è contraddistinto dalle contestazioni e dalle grandi manifestazioni studentesche del «Sessantotto» e dall’«autunno caldo» del 1969.
Siamo all’alba degli anni Settanta, passati alla storia come «gli anni di piombo», caratterizzati da un’ondata di terrorismo politico che insanguinerà il paese fino agli anni Ottanta. In quest’epoca la democrazia subisce l’attacco contemporaneo dell’estremismo di destra e di sinistra. I terroristi di destra, facenti parte del cosiddetto «terrorismo nero», si considerano gli eredi della Repubblica di Salò e vogliono riscattare la nazione tradita dal falso parlamentarismo; i terroristi di sinistra, che determinano «il terrorismo rosso», considerano che la resistenza sia stata tradita dalla Repubblica e dal PCI che ha rinunciato alla rivoluzione.
Moro si convince allora che sia necessaria un’altra svolta, questa volta più decisa: bisogna aprire un dialogo anche con i comunisti. È giunto il momento che il partito di maggioranza prenda in considerazione la partecipazione nella gestione del governo del secondo partito d’Italia per consensi, il Partito Comunista Italiano. Moro, durante il congresso regionale della DC, tenutosi a Bari il 15 giugno 1969, parla di «strategia dell’attenzione» utilizzata al fine di «rendere possibile, lasciando da parte ambiguità e comodità, il più ampio dialogo in vista di una nuova e qualificata maggioranza».
Strategia dell’attenzione, compromesso storico e convergenze parallele
Tali espressioni sono molto ricorrenti e spesso vengono utilizzate per identificare la proposta di integrazione e dialogo tra le frange opposte della politica italiana, al fine di creare una sinergia comune, in particolare tra DC e PCI.
Nello specifico la «Strategia dell’attenzione» viene enunciata, nel giugno del 1969, da Aldo Moro al Congresso della Democrazia Cristiana e nasce dal «bisogno di rendere possibile, lasciando da parte l’ambiguità e comodità, il più ampio dialogo in vista di una nuova e qualificata maggioranza». Tale strategia aprirà le porte alle trattative in direzione del «compromesso storico», elaborato tra il 1973 e il 1979, per cercare di formare un governo di maggioranza, il quale, legittimato da un ampio consenso di massa, sia capace di resistere ad ogni attacco.
Anche in questo caso Moro non diventa improvvisamente comunista, ma poiché la politica è mutevole e in constante movimento, egli comprende che sia necessario modificare gli atteggiamenti da assumere davanti alle diverse circostanze che si presentano continuamente.
L’obiettivo del «compromesso storico» è quello di risanare e rinnovare la società italiana insieme alle sue istituzioni. Basandosi sulla teoria delle «convergenze parallele», anche se la DC e il PCI sono diametralmente opposti, il fatto di convergere su alcuni punti essenziali rende possibile la loro adesione a un governo destinato a sbloccare l’assetto politico del paese.
Difronte all’inasprirsi delle tensioni, nel 1973, il neosegretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, propone una collaborazione ai democristiani, trovando un alleato in Moro e nella sua corrente, i «morotei», considerata la sinistra del partito. Assolutamente contrari sono invece i «dorotei», considerata la porzione tradizionalista della DC, che si colloca su posizioni rigidamente anticomuniste e sostenute da Giulio Andreotti.
Vari motivi tuttavia spingono la politica verso quello che è passato alla storia come «compromesso storico» tra PCI e DC: il timore di una deriva golpista, dopo il colpo di Stato in Cile del 1973 (Allende fu deposto dal generale Augusto Pinochet); la paura di perdere voti a causa della cosiddetta «strategia della tensione» del «terrorismo nero» iniziata nel 1969 con la strage di piazza Fontana a Milano considerata «la madre di tutte le stragi», proseguita poi nel 1974 con quella di piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus a Bologna; le agitazioni di piazza e le amministrative del ‘75, quando PCI (33%) e DC (35%) si trovarono a poca distanza.
Iniziano inoltre a delinearsi le caratteristiche della segreteria Berlinguer: da un lato il tentativo di collaborare con la Democrazia Cristiana nella prospettiva di realizzare riforme sociali ed economiche che il leader del PCI considera indispensabili, dall’altro la volontà di rappresentare un nuovo comunismo indipendente dall’URSS, che in seguito sarà chiamato «eurocomunismo» , intendendo con tale termine il rapporto che avrebbero avuto i partiti comunisti italiano, francese e spagnolo dal 1975 in poi, con l’obiettivo di distanziarsi dal sistema sovietico e rivendicare più autonomia da Mosca.
La scelta di Berlinguer, fondamentalmente legata alla politica di «eurocomunismo», viene accolta da Aldo Moro, anche perché il segretario di via delle Botteghe Oscure sta allontanando gradualmente il PCI dall’Unione Sovietica, favorendo l’aumento del consenso elettorale nei confronti dei comunisti, tuttavia non riscontrando i favori dell’area di sinistra del suo partito.
Nell’autunno del 1973, Enrico Berlinguer, segretario del PCI dall’anno prima, propone il «compromesso storico» sulla rivista Rinascita, riflettendo sul colpo di stato in Cile. Si legge: «Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare […], questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento. Ecco perché noi parliamo non di una “alternativa di sinistra” ma di una “alternativa democratica”, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico. […] La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano».
Tale strategia, infatti, come si intuisce dalle parole di Berlinguer, si fonda sulla necessità della collaborazione e dell’accordo fra le forze popolari di ispirazione comunista e socialista con quelle di ispirazione cattolico-democratica, al fine di dar vita a uno schieramento politico capace di realizzare un programma di profondo risanamento e rinnovamento della società e dello Stato italiano, sulla base di un consenso di massa tanto ampio da poter resistere ai contraccolpi delle forze più conservatrici.
Il «compromesso storico» mira alla collaborazione di governo per superare la crisi democratica italiana. A tal fine è necessario sia contrastare la violenza del terrorismo e il pericolo di una possibile svolta autoritaria, sia fronteggiare la crisi economica che nel frattempo è maturata (elevata inflazione, aumento della disoccupazione, forte debito dello stato).
Essa troverà parziali applicazioni prima nell’astensione del PCI sul governo Andreotti nel 1976-77, quindi nell’esperienza dei governi di «solidarietà nazionale» (1978-79), ma il rapimento e il successivo omicidio di Aldo Moro — principale interlocutore del progetto di Berlinguer— avvenuto proprio all’inizio di tale esperienza, contribuirà fortemente al suo fallimento.
Il disegno politico tessuto da Moro e Berlinguer diventa una realtà scomoda per alcuni, sia a livello internazionale sia a livello nazionale. Già nel 1974, a Washington, l’allora segretario di stato americano Henry Kissinger, minaccia Aldo Moro di non farsi scudo dei nuovi movimenti di stampo altamente radicale e di far cadere la trattativa con il PCI. Infatti, Moro al suo ritorno rimane fuori la scena politica ufficialmente per malattia, ma tornerà in campo per guidare la DC verso il «compromesso storico».
La minaccia di Kissinger e alcuni scontri tra Berlinguer e i sovietici, dimostrano che il «compromesso storico» ha delle implicazioni complesse: se da un lato avrebbe sbloccato la situazione politica interna, dall’altro avrebbe lasciato un precedente a livello internazionale.
Porre fine al bipolarismo emanato dalla «Guerra fredda» per fare spazio a un compromesso fondato sull’interesse generale, avrebbe comportato un passo avanti rispetto alle tempistiche naturali della «Guerra fredda». Infatti si sarebbe assorbito il PCI dentro la maggioranza cacciandolo dall’orbita sovietica e allo stesso tempo questo allargamento avrebbe diminuito l’incidenza degli estremi e in particolare quella dei gruppi terroristici.
Gli americani non vedono di buon occhio Moro dal momento che sta per benedire il governo di unità nazionale tra la DC e il PCI e ricordiamo che in quel momento la tensione tra Stati Uniti e Russia è molto alta nel bipolarismo mondiale.
Appare dunque evidente anche l’esistenza di forze, in Italia, dentro l’alleanza atlantica e all’interno della DC, che avversano il piano di Moro. La destra democristiana, sia quella tradizionalista in capo a Giulio Andreotti, sia quella atlantica che vede in Francesco Cossiga il suo uomo di punta sono, per ragioni differenti, entrambe contrarie ad un’inclusione dei comunisti nell’area di governo.
Andreotti, seppur presiederà due governi di «solidarietà nazionale», pensa che l’accordo con il PCI avrebbe sottratto alla DC i voti e il sostegno di una parte di cattolicesimo e di Chiesa; Cossiga invece condivide la visione di Kissinger che ritiene i comunisti semplicemente come il nemico. Anche dentro il PCI vi sono delle divisioni e l’area più a sinistra non guarda con grande fervore un’eventuale accordo con la DC, gli avversari di sempre.
Aldo Moro, l’uomo del compromesso
Per tutta la vita Moro ha creduto nella democrazia, intesa come dialogo tra partiti, come unione delle diverse categorie in vista del bene comune generale. Sono anni difficili, quelli in cui Moro si trova ad operare: la «Guerra fredda» rende difficile l’affermazione degli ideali di democrazia e giustizia e la forte opposizione che contraddistingue la politica italiana è più forte che mai.
Eppure, egli sostiene la necessità di una politica di concerto, di comunicazione e collaborazione, di reciproco riconoscimento politico senza mai perdere definitivamente la propria identità. Per lui i partiti sono servitori del governo e non viceversa. Egli è un cattolico sociale e vede nell’individuo lo strumento della costruzione della società, motivo per cui gli apparirà incomprensibile la logica della «fermezza» nelle settimane del suo sequestro.
Moro è un uomo forte, con una fede religiosa intensa e la stessa politica che propone è stabile e lungimirante. Con un occhio Moro guarda all’Italia e alle problematiche interne e con l’altro si rivolge all’Europa, all’Oriente, agli Stati Uniti e alla Russia. Una politica, quella «morotea», fortemente meridionalista, ma intrinseca di quel meridionalismo positivo che mira ad una redistribuzione delle risorse in un’ottica di vera e sostanziale uguaglianza tra Nord e Sud. Moro, infatti, pensa prima alla persona che allo Stato.
L’idea politica «morotea» è una filosofia innovativa che non manca di ricevere numerose critiche, soprattutto interne al PCI, tanto che in poco tempo si giunge alla prima crisi, mostratasi nelle elezioni del 1968. Moro resta comunque in politica e dal 1970 al 1974 assume l’incarico di Ministro degli Esteri. Solo in seguito ritorna alla presidenza del Consiglio, sino al gennaio 1976, mentre nel luglio di quello stesso anno viene eletto Presidente del Consiglio nazionale della DC.
Proprio durante gli anni nei quali ricopre la carica di Ministro degli Esteri, si fa promotore di una politica anzitempo europeista, nell’ottica di una convergenza di forze, risorse politiche ed economiche di tutti i Paesi europei, superando le lacerazioni imposte dalla «Guerra fredda» e con un’apertura verso i Paesi arabi che stavano affacciandosi al mondo occidentale.
Una frase, scritta da Aldo Moro alla fine degli anni Sessanta, colpisce ancora oggi per la sua attualità risuonando quasi profetica: «Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo».
16 marzo 1978: l’attacco allo Stato
Le Brigate Rosse sono un’organizzazione formatasi nel 1970. Essa viene inizialmente sottovalutata dall’opinione pubblica e dallo Stato, ma con il rapimento e successivamente con l’uccisione di Aldo Moro, farà paura. L’attività delle Brigate Rosse ha come obiettivo principale quello di assumere l’egemonia dell’antagonismo di sinistra in Italia.
Puntando in alto, con le armi in pugno, spiazzando i gruppi “concorrenti”, creando un clima che impedisse lo sviluppo dei movimenti, ottenendo il riconoscimento ufficiale dallo Stato (questo alla fine è l’obiettivo, oltre all’attacco al «compromesso storico», del rapimento), i brigatisti mirano a monopolizzare l’opposizione di sinistra, volendo ottenere una legittimazione ufficiosa di «interlocutore» delle istituzioni.
Il 16 marzo del 1978 le BR decidono di sfidare lo Stato e di colpirlo al cuore, anche se tale atto segnerà l’inizio della loro fine. Quella mattina alle 8.55, l’onorevole Aldo Moro esce di casa e sale nella sua Fiat 500 blu che lo dovrà portare prima in chiesa e poi a Montecitorio dove è atteso per il voto di fiducia al nuovo governo Andreotti, appoggiato esternamente del PCI.
Alla guida dell’auto c’è l’appuntato Domenico Ricci, accanto a lui il maresciallo Oreste Leonardi. Nell’Alfetta bianca che li segue siedono il vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Francesco Zizzi e gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Il corteo imbocca rapidamente via Trionfale poi svolta su via Fani che percorre fino all’incrocio con via Stresa ed è lì allo stop che una Fiat 128 bianca con la targa, Corpo Diplomatico, guidata dal brigatista Mario Moretti, frena all’improvviso costringendo il corteo a fermarsi. A quel punto l’onorevole Moro e la sua scorta sono in trappola.
L’attacco comincia da sinistra, i brigatisti sbucano dalle siepi di un bar e cominciano a sparare con i mitra. In pochi secondi vengono sparati molti colpi, qualche arma si inceppa ma le pallottole sono sufficienti a ferire mortalmente Ricci, Leonardi, Zizzi e Rivera. Solamente l’agente Iozzino riesce a scendere dalla macchina e a sparare due colpi, poi cade a terra senza vita anche lui.
In stato di shock Moro viene fatto scendere dalla sua auto, trasferito su un’altra automobile dei brigatisti in attesa, sdraiato sul sedile e portato via insieme alle sue borse contenenti documenti e tesi universitarie. In pochi istanti il commando si dilegua, a terra rimangono 93 bossoli e intorno lo sgomento delle persone che iniziano ad affacciarsi alle finestre. Va ricordato che le automobili su cui viaggia Moro e la sua scorta non sono blindate e questo sicuramente ha reso più facile compiere la strage ai brigatisti.
La notizia esplosiva arriva alla Camera creando il massimo scompiglio, ma non blocca la formazione del IV governo Andreotti, anzi ne accelera le procedure, con una rapida votazione a schiacciante maggioranza (545 voti favorevoli, 30 contrari e 3 astenuti; e al Senato, successivamente, la fiducia viene accordata con 267 voti favorevoli e 5 contrari).
Nei palazzi del potere, in una città spaurita, sotto assedio, che teme di tutto, dal colpo di stato alla guerra civile, aleggia un’aria pesante piena di veleni che accompagnano la formazione del governo. Il nuovo governo sarà sempre monocolore e sempre a trazione Democrazia Cristiana, vedrà Arnaldo Forlani come Ministro degli Esteri, Francesco Cossiga Ministro dell’Interno, e Franco Evangelisti come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio seduto alla destra dell’onnipresente Giulio Andreotti come Presidente del Consiglio. In quel momento Aldo Moro è il presidente della DC e Benigno Zaccagnini il segretario. Tutti esponenti di quel partito che sarà identificato da Giampaolo Pansa con l’espressione «Balena Bianca».
Poco dopo le 10 all’ANSA arriva la telefonata – che, come sapremo successivamente, viene fatta da Valerio Morucci – che rivendica il rapimento con queste parole: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della democrazia Cristiana Aldo Moro ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato».
Alla notizia del rapimento in tutto il paese si registrano manifestazioni dei lavoratori promosse spontaneamente. Alle 10.30 i sindacati CGIL, CISL e UIL proclamano lo sciopero generale fino alla mezzanotte, tutte le attività vengono sospese, gran parte dei negozi delle principali città chiudono i battenti, le lezioni nelle scuole vengono sospese nel giro di pochissimo, fiumi di lavoratori e lavoratrici, studenti e cittadini riempiono fino all’ultimo metro le principali piazze “storiche” delle manifestazioni italiane.
Nel frattempo i brigatisti conducono Moro in un appartamento di Roma. Il presidente della DC rimane chiuso per tutti i 55 giorni di prigionia controllato dai suoi quattro carcerieri: Mario Moretti, Prospero Gallinari, Laura Braghetti, Germano Maccari.
Nella capitale si avvia faticosamente una reazione delle forze dell’ordine che si riveleranno completamente impreparate ad affrontare un evento di tal genere, basti pensare che all’epoca era ancora in vigore un piano per la difesa dell’ordine pubblico risalente agli anni Cinquanta. Il Ministro degli Interni Cossiga costituisce un comitato incaricato di coordinare le indagini. Quando saranno rinvenuti gli elenchi aderenti alla loggia massonica della P2 si scoprirà che sette dei dodici membri del comitato facevano parte di questa loggia segreta che si proponeva obiettivi antidemocratici.
Linea della fermezza e linea della trattativa
Nella stessa mattinata del rapimento la DC esclude fin da subito qualsiasi possibilità di trattativa con le Brigate Rosse, dichiarandosi indisponibile a scambiare la libertà del proprio presidente con quella di terroristi in carcere. Analogamente assume la stessa posizione il PCI. Si delinea il fronte di quella che sarà definita «linea della fermezza». PCI e DC, anche se poi all’interno vi sono anime differenti che vogliono prendere strade diverse, formalmente rappresentano appunto la «linea della fermezza» decidendo di non trattare con i terroristi.
Risulta complessa invece la spiegazione del comportamento del PCI, la cui assoluta intransigenza è, rispetto al comportamento «possibilista» di buona parte della DC, ciò che blocca senza scampo ogni ipotesi di trattativa che possa salvare la vita a Moro. È evidente che il PCI sa benissimo quale ruolo cruciale e insostituibile ha, e avrebbe continuato ad avere, la figura di Moro nella prospettiva strategica perseguita da cinque anni dal PCI berlingueriano.
Moro e i morotei, a differenza e persino in conflitto con buona parte della DC, a partire da Andreotti, ritengono di poter ripetere nei confronti del PCI – e per questo avevano assecondato il progetto berlingueriano – quanto la DC era già riuscita a fare anni prima con il PSI, procedendo cioè ad un assorbimento progressivo e in maniera meno traumatica possibile, del PCI nella gestione piena del capitalismo italiano nel quadro dell’Alleanza Atlantica e della Nato, ovvero nel campo internazionale a conduzione statunitense.
Moro ha bisogno soprattutto di tempo per unificare su questa linea tutta la DC (impossibile gestire un rapporto del genere con la DC divisa e molto eterogenea), per convincere gli Stati Uniti ad accettare tale processo e per neutralizzare possibili reazioni del governo sovietico, per niente entusiasta di perdere il suo agente storico in Italia. Oltretutto Moro è il candidato più accreditato per la presidenza della Repubblica nelle elezioni che si sarebbero tenute di lì a pochi mesi: carica che gli avrebbe consentito di sponsorizzare con ancora maggior forza l’alleanza DC-PCI.
Il gruppo dirigente del PCI ha fin dall’inizio le idee chiare su cosa sta succedendo. Si colpisce Moro, il principale interlocutore del PCI e il garante del «compromesso storico», per far saltare tale strategia, perseguita dalla coppia Berlinguer- Moro da cinque anni. Tale scoperto tentativo non è solo una opzione brigatista ma nasconde dietro grandi poteri nazionali e internazionali (si può immaginare che i dirigenti berlingueriani pensino alla parte statunitense, che comunque non si fida di Moro, e all’Urss).
Ma, invece di cercare di tirar fuori dalla trappola Moro, il maggior garante possibile della continuità dell’alleanza auspicata, fin dal primo giorno il gruppo dirigente PCI esalta la linea della «fermezza intransigente», quella che non lascerà alcun varco a concessioni, quanto più possibile mascherate, alle Brigate Rosse, che permettano di salvare la vita a Moro. Sono giorni assai concitati, pieni di scontri e disaccordi all’interno del governo: ma è soprattutto il PCI a tenere la barra dritta sulla «fermezza», sul rifiuto di qualsiasi apertura alle BR, supportato da Cossiga in tandem con Pecchioli, a differenza di altri leader DC che sono ben più possibilisti.
Da fonti certe sappiamo che, ad esempio, l’onorevole Fanfani si spende molto per cercare di giungere ad una trattativa, provando a giocare un’altra carta, per cui i brigatisti avevano dato il loro consenso. Una domenica Fanfani avrebbe dovuto tenere un comizio durante il quale avrebbe detto di dover ascoltare «solo le cose ragionevoli che i brigatisti chiedevano», come ad esempio le prigioni speciali, ma non prenderà parola nel giorno prefissato.
Interviene invece un suo collaboratore, le cui parole appaiono molto confuse. Infatti solo alcuni ne avrebbero compreso il senso. Per i brigatisti però voleva dire che la DC non avrebbe mantenuto le promesse o non era in grado di mantenerle. Anche se ci sono alcune proposte di trattativa, tra cui una di carattere politico da parte del Partito Socialista Italiano che si mostra possibilista in una seconda parte del sequestro, nessuna di essa si dimostrerà né valida né percorribile.
A Torino, il 29 marzo, si apre il congresso del Partito Socialista Italiano e in questa sede si afferma l’ipotesi di una trattativa con i brigatisti che consenta di garantire la libertà a Moro e di conseguenza di essere salvato. Il neo segretario del PSI Bettino Craxi si spende molto per questo, delineando la «linea della trattativa». Craxi, infatti, sarà l’unico politico ad essere invitato ai funerali privati di Moro voluti dalla famiglia, che sarà fortemente critica con lo Stato e la DC. Ma a prevalere sarà la linea della fermezza.
Il periodo di prigionia di Aldo Moro. Lettere e comunicati
Il 18 marzo, mentre si svolgono i funerali dei cinque uomini della scorta di Moro, le Brigate Rosse inviano il primo dei nove comunicati insieme ad una foto di Moro in camicia con dietro una bandiera delle BR.
Il 23 marzo le Brigate Rosse fanno ritrovare le prime tre lettere scritte da Moro in quella che viene definita la “prigione del popolo”. Secondo lo storico Miguel Gotor, che ha analizzato dettagliatamente le lettere di Moro, esse sicuramente vengono gestite dai rapitori e svolgono un ruolo decisivo per tutta la vicenda. Basti pensare che su 97 missive redatte da Moro in quei 55 giorni, solamente 8 vengono rese pubbliche nel corso del sequestro e solo 5 sono diffuse per esplicita volontà dei terroristi che allegano ai loro comunicati o le affidano direttamente a giornali e agenzia di stampa con l’obiettivo di ottenere la massima risonanza mediatica possibile.
Il 29 marzo le BR fanno ritrovare una busta contenente un loro comunicato e due lettere di Moro: una indirizzata alla moglie e l’altra al Ministro degli Interni Cossiga. Proprio nella lettera indirizzata a Cossiga si legge chiaramente l’ipotesi di uno scambio di prigionieri. In questo modo non passa inosservata la scelta delle BR di delegare a Moro la responsabilità della trattativa riguardante tale scambio.
Il giorno successivo la DC ribadisce la scelta della «fermezza», ma si dichiarerà disponibile al pagamento di un riscatto. Nei giorni a seguire, il dibattito tra i partiti diventa sempre più acceso: si forma un vasto fronte «umanitario» favorevole alla trattativa o almeno ad un gesto che porti alla liberazione di Moro. I fautori di tale posizioni sono i radicali, i socialisti, la sinistra extraparlamentare e alcune frange di partiti laici. Assolutamente intransigenti, sia pur con motivazioni differenti, restano invece il PCI e il MSI.
Nel frattempo dalla «prigione del popolo», nell’appartamento in cui è stato trasferito Moro dopo il sequestro, si pensa in via Montalcini, i brigatisti continuano il loro «processo popolare». Moro viene sottoposto a lunghi interrogatori da Mario Moretti, all’epoca leader del gruppo. Per il resto lo statista trascorre le sue giornate a scrivere a pregare o disteso sul suo lettino. Moro chiede che gli venga concesso di ascoltare la Messa, i brigatisti ne registrano alcune ed esaudiscono tale richiesta.
Quando cominciano ad essere pubblicate le lettere di Moro, durante il sequestro, la tendenza dello Stato è quella di lasciar intendere che il prigioniero non è più in sé e sta scrivendo sotto dettatura, di conseguenza non è nel pieno delle proprie facoltà. A rileggerle dopo molti anni questa tendenza non c’è più. Le lettere ai familiari, infatti, verranno ritrovate nel 1990 a forma di manoscritto.
La figura di Moro, in questo momento appare stretta in mezzo a due forze estreme: da una parte lo Stato dall’altra le Brigate Rosse. I sequestratori lasciano intuire che Moro sta parlando e che sta rivelando segreti fondamentali. È inevitabile che dall’altra parte lo Stato, le istituzioni e l’antiterrorismo facciano di tutto per abbassare il valore dell’ostaggio cioè per attivare meccanismi di controguerriglia psicologica di disinformazione e delegittimazione.
Il 15 aprile un comunicato delle BR annuncia la conclusione del processo: Moro è condannato a morte. Il 18 seguente un comunicato afferma che il cadavere di Moro si trova nel Lago della Duchessa, ai confini tra Lazio e Abruzzo. Le autorità della polizia dubitano subito dell’autenticità di tale volantino ma predispongono accertamenti. Il comunicato è falso. Molti anni dopo si scoprirà che è stato realizzato da Toni Chicchiarelli, un falsario legato agli ambienti della malavita organizzata romana, dell’estremismo di destra e confidente dei servizi segreti. Ancora oggi ci si chiede: perché egli attua questa provocazione? Chi lo ha sollecitato? La vicenda non è mai stata chiarita. A infittire tale mistero giunge nel 1984 l’assassinio di Chicchiarelli. Si ignorano però le motivazioni di tale assassinio.
Ma non è solo lo Stato italiano che si muove per la liberazione di Moro. Papa Paolo VI, legato a Moro anche da un rapporto di amicizia, segue la vicenda con grande trepidazione fin dal primo giorno del rapimento. Il 22 aprile lancia un accorato appello alle BR affinché restituiscano l’onorevole Moro alla sua famiglia senza contropartite. Indirizzando una famosa lettera a coloro i quali definisce uomini delle Brigate Rosse «Io mi rivolgo a voi […] ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente, e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni […] lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità».
Il 24 Aprile si è in una situazione di stallo. Viene ritrovato il comunicato numero 8 delle BR in cui i brigatisti chiedono in cambio della vita di Moro la liberazione di 13 terroristi. Tutte le forze politiche respingono tale proposta. Il fronte umanitario e soprattutto il PSI continua a sostenere l’opportunità di un gesto dello stato per la liberazione di Moro.
Si propone di concedere la grazia ad una terrorista, iscritta tra le fila delle BR, ma che non ha compiuto omicidi. Tuttavia la DC e le altre forze schierate sulla «linea della fermezza» non accettano tale ipotesi, temendo le conseguenze di un gesto che di fatto avrebbe rappresentato un riconoscimento politico delle BR e che non vogliono concedere.
Il 5 maggio viene ritrovato il comunicato numero 9 delle BR: «Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza cui Aldo Moro è stato condannato». Lo Stato è immobile e per le Brigate Rosse significa l’esecuzione materiale, già annunciata più volte nei comunicati, anche se non tutti i membri sono molto convinti che Moro debba essere ucciso.
Intanto continuano a pervenire lettere del prigioniero. Delle 97 lettere scritte nel corso della prigionia solo 35 vengono effettivamente recapitate. Le lettere appaiono sempre più severe rivolte a uomini politici e a uomini delle istituzioni: Presidente della Repubblica, Presidenti di Camera e Senato, due lettere al Papa Paolo VI.
Strazianti e disperate invece appaiono le lettere indirizzate alla moglie e alla famiglia: «Muoio se così desidera il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli. […] ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini (segretario della DC), né per Andreotti né per la DC, né per il paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità. Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e a pregare per me. Se tutto questo è deciso sia fatta la volontà di Dio. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l’adempimento di un presunto dovere. Le cose saranno chiare, saranno chiare presto».
La fine di Aldo Moro e non solo
Il 9 maggio 1978 il professor Franco Tritto, assistente universitario e amico di Aldo Moro, riceve una telefonata da parte Valerio Morucci, leader delle Brigate Rosse, in cui viene annunciata la morte di Aldo Moro.
Tra le volontà del presidente democristiano prima di essere ucciso c’è una particolare richiesta: che la notizia della sua uccisione venisse comunicata prima all’amico Francesco Tritto, il quale avrebbe poi avvisato di persona la famiglia. La telefonata ha una vera e propria rilevanza storica, inoltre essendo registrata diverrà di dominio pubblico.
Dopo una lunghissima agonia pubblica, quel fatidico 9 maggio 1978, il corpo senza vita di Aldo Moro viene fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault 4 rossa in via Caetani. Una strada centrale, situata ai margini del ghetto ebraico ed equidistante dalla sede del Partito Comunista, via delle Botteghe Oscure, e da quella della Democrazia Cristiana in Piazza del Gesù. In questo modo i brigatisti hanno voluto sottolineare la duplice responsabilità dei partiti di maggioranza che nulla hanno fatto per salvare la vita di Aldo Moro. Finisce in questo modo violento e cruento la vita di un grande uomo, mite e riflessivo, visionario e realista allo stesso tempo.
Il Ministro degli Interni Cossiga annuncia immediatamente le sue dimissioni. La famiglia dello statista alle 17.30 diffonde il seguente comunicato: «La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Che vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso, nessun lutto nazionale né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la Storia».
Il 10 maggio 1978 a Roma vengono celebrati privatamente i funerali di Aldo Moro. La moglie e i figli rifiutano fermamente i funerali di Stato. Il corpo del presidente della DC viene sepolto, come viene richiesto dallo stesso, con una cerimonia strettamente privata nel cimitero di Torrita Tiberina.
Lo Stato però vuole celebrare ugualmente una cerimonia solenne. A Roma il 13 maggio 1978 — nella basilica di San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma — si svolge, presieduto dal Papa, il solenne rito funebre in suffragio di Aldo Moro. Vi hanno partecipato 27 delegazioni ufficiali straniere, le più alte cariche dello Stato, rappresentanti dei partiti democratico cristiani di tutto il mondo, alcuni familiari di Moro (la sorella e il fratello). La bara di fronte all’altare era vuota. Sul sagrato della basilica e nei giardini di Porta S. Giovanni (la piazza è stata tenuta sgombra) si raccolgono fin dal primo pomeriggio migliaia di persone con centinaia di bandiere fra le quali facevano spicco quelle della DC e del PCI.
Cosa si perde con Aldo Moro? Fin quando è in vita tramite il suo disegno politico ha dato all’Italia una visione di lungo temine e gli italiani sono consapevoli di continuare a percorrere una strada che la democrazia italiana sta smarrendo. Il «caso Moro» è il simbolo di questo sviluppo della democrazia che viene interrotto, smorzato, da una violenza senza precedenti.
Si perde inoltre un probabile Presidente della Repubblica. L’Italia con la morte di Moro ha perso un uomo di grande capacità di mediazione. Moro intende la politica come il tentativo di abbracciare una grande società nazionale facendo sì che quella evoluzione naturale della società non straripasse né verso destra né verso sinistra, ma andasse dove è nata senza oppressioni e senza violenze.
Si ha la sensazione che con Moro si chiude una stagione in cui il cambiamento politico di massa avrebbe potuto essere praticabile e realizzabile. Da quel momento in poi ognuno farà le proprie scelte, poggiandosi su un forte individualismo o cercando di muoversi secondo i propri interessi e per tornaconto personale, segnando così la fine della politica.
Il Presidente Aldo Moro avrebbe voluto portare il Paese in una fase differente di pacificazione sociale, che si basasse non sulle forme autoritarie neofasciste ma su un consenso più ampio che è per lui spazio indispensabile di un’azione pedagogica oltre che politica. Nel complesso meccanismo di accordi e veti incrociati che si oppongono a quella trasformazione sociale arrivano le pallottole delle Brigate Rosse risultando fatali, ma forse non le uniche. Proprio le BR rapiscono e uccidono l’onorevole Moro mentre una parte del sistema politico italiano, nel corso dei famosi 55 giorni vacilla tra la paura e il sollievo di non dover sottostare alla linea politica che Moro avrebbe imposto definitivamente.
Il 20 marzo 1978 prende vita dunque un esecutivo di «compromesso» guidato da Giulio Andreotti e appoggiato dal PCI. Gli anni che seguono saranno politicamente e socialmente complicati. L’esecutivo finisce dopo un anno, nel gennaio 1979, e con esso ogni forma di collaborazione tra democristiani e comunisti. Il «compromesso storico» naufraga dopo la tragica morte del suo artefice. Il PCI chiede di partecipare pienamente al governo con i suoi ministri, ma la DC non accoglie la richiesta comunista.
La «solidarietà nazionale» termina senza raggiungere l’obiettivo di Moro: trasformare l’Italia in una democrazia pienamente occidentale nella quale due schieramenti, uno moderato e l’altro di sinistra, potessero liberamente alternarsi al governo. Moro è consapevole che per realizzare veramente la democrazia bisogna rendere possibile l’alternanza alla guida del governo: bisogna cioè consentire al cittadino di cambiare, se lo desidera, la classe dirigente. Nella sua visione quindi la collaborazione con il PCI si configura come un’eccezione, un passaggio necessario per affrontare le gravi emergenze che travagliano la vita dell’Italia e per rendere matura la sua democrazia. La «solidarietà nazionale» invece termina senza sbloccare la democrazia italiana.
L’assassinio di Moro rappresenta il punto più alto dell’attacco terroristico alla democrazia. Nel 1979 e nel 1980 il numero degli attentati aumenterà ancora e si registreranno altri atti terroristici. Tuttavia il merito più grande della lotta al terrorismo si deve al popolo italiano che non concederà il suo appoggio al terrorismo. In questo modo i terroristi restano isolati dal popolo e dai proletari, da coloro in nome dei quali dicevano di combattere.
Si potrebbe dire, attraverso lo storico Paul Ginsborg, che Moro non muore invano: «l’assassinio di Aldo Moro e tutti gli altri compiuti per mano dei terroristi se non rifondarono la Repubblica certo non avvennero invano». Gli «anni di piombo», infatti, producono un mutamento profondo nell’atteggiamento di un’intera generazione verso la violenza. Ma con il susseguirsi degli omicidi i fautori della violenza rivoluzionaria rimangono isolati tra gli stessi giovani. Infatti alla fine del decennio i problemi più grandi e più gravi della Repubblica non sono risolti ma si abbandona l’idea di risolverli con la forza.
Negli anni successivi ci saranno indagini, processi, libri, inchieste e film oltre alle testimonianze di alcuni brigatisti pentiti e dissociati che aggiungeranno tasselli su tasselli ad una verità molto difficile da raggiugere. Dice Antonio Ferrari nel suo libro Il Segreto: «quando ci sono forze che vanno al di là di una semplice questione nazionale o di politica nazionale, ma ci sono forze esterne, queste forze esterne saranno sempre in grado di silenziare qualsiasi tentativo di arrivare alla verità».
Dopo cinque processi e tre commissioni di inchiesta, il «caso Moro» è ancora oggi uno dei più controversi della nostra storia recente e secondo alcuni studiosi il mistero della sua fine non ha permesso di capire fino in fondo la sua figura storica.
I libri consigliati da Fatti per la Storia per approfondire la figura di Aldo Moro!
- Aldo Moro, Il memoriale di Aldo Moro (1978). Edizione critica, De Luca Editori d’Arte, 2019.
- Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Einaudi, 2021.
- Miguel Gotor, Io ci sarò ancora. Il delitto Moro e la crisi della Repubblica, PaperFIRST, 2019.
- Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi, 2020.
- Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi, 1994.