CONTENUTO
Lo scenario internazionale del 1947: i riflessi sull’Italia
Nel 1947 si assiste al netto e irreversibile peggioramento dei rapporti tra Mosca e Washington e alla definitiva spaccatura dell’alleanza antifascista che ha vinto la Seconda guerra mondiale. Quest’alleanza d’altronde è sempre stata precaria e una volta venuti meno i presupposti per i quali essa è nata, emergono i differenti interessi in gioco circa l’assetto del mondo post-bellico.
Nel campo occidentale si fa sempre più netta la leadership americana, a scapito delle residue velleità imperiali britanniche (e in parte francesi), soprattutto per quanto riguarda il contesto mediterraneo, tradizionale area di influenza di Londra e Parigi. Il Mediterraneo è anche all’epoca, un’area attraversata da profondissime tensioni, una vera e propria frontiera mobile fra le due sfere, quella occidentale e quella orientale.
Gli americani sono stati a lungo restii a impegnarsi più del dovuto fuori dal proprio continente, in linea con la cosiddetta “dottrina Monroe”, tuttavia al termine della seconda guerra mondiale, il manifestarsi delle mire espansionistiche sovietiche e l’incapacità dei britannici di ergersi a baluardo contro il bolscevismo, spingono Washington a rivedere le proprie posizioni in Europa e nel Mediterraneo.
In realtà, l’Unione sovietica, consapevole dell’inevitabile frattura con l’Occidente, è interessata più a costruirsi una larga “fascia di sicurezza” nell’Europa centro-orientale per prevenire future invasioni, seguendo una strategia preventiva e attendista piuttosto che espressamente espansionista. Una politica che tuttavia non tenderà mai ad escludere le storiche pulsioni russe verso i mari caldi, in particolare verso gli Stretti e l’Egeo.
Un esempio di come queste tensioni si manifestano concretamente è quello della Grecia, dal 1946 dilaniata da un sanguinoso conflitto civile tra la fazione monarchica, sostenuta dalla Gran Bretagna, e quella comunista, sostenuta invece dalla Jugoslavia e dall’Urss. Nel febbraio 1947, con la vittoria laburista e la grave crisi economica in atto, Londra decide però di ritirare il suo sostegno ai lealisti greci, non essendo più in grado di sostenere lo sforzo anticomunista. Privati dell’appoggio britannico, i monarchici sono ormai ormai avviati verso la sconfitta. Nel frattempo, la Turchia corre un rischio analogo, dettato dalle pressioni russe verso lo Stretto dei Dardanelli.
Sulla scia di questi eventi, il 12 marzo 1947, il presidente americano Harry Truman pronuncia davanti al Congresso un famoso discorso, con cui inaugura la politica del cosiddetto containment: gli Stati Uniti hanno deciso di opporsi con decisione all’Unione sovietica (e ai suoi alleati) ovunque manifesti l’intenzione di espandere la sua influenza e il suo dominio. Nella fattispecie, Truman ottiene dal Congresso uno stanziamento di 400 milioni di dollari per la Grecia e 100 milioni per la Turchia: «un investimento per la libertà e per la pace» (1) dirà in seguito il presidente.
La politica interventista di Truman diviene prioritaria, a scapito delle tradizionali posizioni isolazioniste che hanno da sempre caratterizzato la politica estera di Washington, fin dai tempi del presidente Monroe, portavoce autorevole della dottrina che porta il suo nome, esplicitata per la prima volta nel 1823. Sono le stesse pulsioni, quelle isolazioniste, che hanno portato gli americani a tenersi inizialmente fuori da entrambi i conflitti mondiali, salvo poi intervenite quando ad essere attaccati sono stati i loro interessi, e che hanno portato al fallimento della politica del presidente Woodrow Wilson nel 1919, quando al termine della Grande guerra questi decide di fondare la Società delle Nazioni, ma non trova il sostegno del Congresso.
Nel 1947, a differenza di quanto avvenuto nel primo dopoguerra, però, gli americani sono decisi a non abbandonare l’Europa e i loro alleati in balia dell’Urss. La dottrina Truman è dunque l’effetto della convinzione, da parte statunitense, di essere portatori di una missione storica di difesa della democrazia e della libertà, ovvero di un’economia globale, aperta e integrata con il modello americano, da opporre al modello chiuso e autoritario del comunismo sovietico (2).
È in questo contesto che gli Stati Uniti si scoprono come una nuova potenza mediterranea e iniziano a guardare, soprattutto al Dipartimento di Stato, alle vicende italiane con vivo e rinnovato interesse. L’Italia è geograficamente e politicamente centrale nel Mediterraneo, quasi come una portaerei naturale protesa in mare. Si tratta poi di un paese al confine con il blocco orientale, in cui si registra la presenza di un fortissimo partito comunista (il Pci), con solidi legami internazionali a Mosca e Belgrado.
Fondamentale in questo processo di avvicinamento tra Italia e Stati Uniti, sono la designazione di James Dunn come nuovo ambasciatore a Roma e il viaggio che De Gasperi, allora presidente del Consiglio, compie a Washington nel gennaio del 1947. La nomina di Dunn, che è un anticomunista molto attento agli ambienti cattolici, costituisce un chiaro segnale politico volto a sottolineare la grande attenzione che gli Stati Uniti rivolgono ora all’Italia e alla sua delicata situazione interna (3).
La visita ufficiale di De Gasperi in America rappresenta poi un’importante apertura di credito, seppur ancora debole, verso alcune istanze italiane ed è per il politico trentino una svolta decisiva. Egli infatti, capisce che la firma del trattato di pace con gli Alleati, questione assai dibattuta e controversa dei mesi precedenti, non può più essere rimandata in vista di possibili, per quanto incerte, revisioni in favore dell’Italia, ma soprattutto per ottenere quanti più aiuti possibile dal governo americano.
Il viaggio americano, da cui De Gasperi torna con un prestito di 100 milioni di dollari, contribuisce a fare chiarezza su quali siano gli orientamenti dell’amministrazione statunitense in merito alla situazione italiana. Da parte sua il presidente del Consiglio, prima del viaggio, ha sempre ribadito la sua fermezza nell’impedire che il Pci ottenga il potere e trascini l’Italia nella sfera di influenza sovietica, ma è ancora restio a porre chiaramente fine all’esperienza di cooperazione antifascista e ai governi di unità nazionali eredi del Comitato di Liberazione Nazionale.
Una volta tornato dall’America, però, si convince che sia ormai necessario adattarsi alle mutate condizioni internazionali ed escludere i comunisti e i socialisti dal governo. Anche le pressioni interne alla Dc verso questa soluzione sono fortissime. Per molti esponenti dello scudocrociato infatti, «andare alle elezioni politiche con un governo comprendente il Pci sarebbe […] un suicidio» (4), pertanto De Gasperi deve solo attendere il momento più opportuno.
Mancando un qualsivoglia documento che attesti l’effettiva pressione americana in tal senso, è possibile ipotizzare che l’esclusione delle sinistre dal governo, avvenuta contestualmente anche in Francia, sia stato un tentativo da parte di De Gasperi di accreditarsi a Washington come interlocutore affidabile e solido. Tale mossa, inoltre, viene letta come un tentativo di sbloccare l’anomalia di un governo formato da forze troppo diverse tra loro per poter convivere e offrire una guida efficace al Paese.
Una questione in particolare, fra le tante, divide la Dc dalle sinistre: se e come utilizzare gli aiuti americani che si prospettano all’orizzonte. L’esclusione del Pci e del Psi dal governo, avviene quindi sfruttando la convergenza tra la situazione internazionale e quella interna del Paese. Vi sono alcuni tentennamenti all’interno della Dc, con alcuni dirigenti che nutrivano
«il timore, non ingiustificato, di dover fronteggiare non tanto un colpo di Stato [comunista] quanto un’ondata di disordini che avrebbe paralizzato il paese costringendo la Dc a tornare al tripartito [cioè al governo con Pci e Psi] infliggendole una sconfitta politica […] disastrosa»(5).
Nonostante ciò, nel maggio del 1947, si giunge alla svolta decisiva. In seguito alla crisi di governo, opportunamente innescata, De Gasperi viene incaricato di formare un nuovo esecutivo “monocolore”, ovvero con soli esponenti della Democrazia cristiana, chiuso a qualsiasi collaborazione con le sinistre. L’incastro quasi perfetto con la congiuntura internazionale è rappresentato dalle congratulazioni che il segretario di Stato americano, il generale Marshall esprime per la soluzione della crisi, auspicando una collaborazione del Psli di Saragat, appena scisso dal Partito socialista, al nuovo governo (6).
Lo stesso Marshall, nel giugno del 1947, a pochi giorni dall’entrata in carica del governo De Gasperi, lancia l’European Recovery Plan (Erp) comunemente noto come “piano Marshall”, dal nome del suo ideatore, il segretario di Stato. Il piano di aiuti alle economie dei principali paesi europei, non è altro che la manifestazione concreta del containment e contribuisce in maniera determinante al compattare su posizioni avverse i due blocchi. Basti pensare che gli aiuti americani vengono offerti anche ai paesi sottoposti all’influenza e all’occupazione sovietica. Sotto pressione da Mosca, questi ovviamente rifiutano.
L’avvio del piano di aiuti americano rinforza in De Gasperi la convinzione di aver seguito la strada giusta nell’escludere le sinistre dall’area di governo e nell’aver scelto per una soluzione centrista, con ministri della Dc e l’appoggio dei partiti minori di centro.
Nel maggio-giugno 1947, dunque, si consuma una svolta decisiva in cui alla rottura dell’alleanza antifascista internazionale tra Stati Uniti e Urss corrisponde un’analoga frattura interna alla politica italiana, frattura che però non dipende solo dalle mutate condizioni internazionali, ma che soprattutto non riguarda lo sforzo comune dei partiti antifascisti verso la realizzazione della Costituzione, che verrà definitivamente approvata nel dicembre 1947(7).
Nonostante l’apparente stabilizzazione politica, con l’approssimarsi del ritiro delle truppe d’occupazione alleate dal suolo italiano, previsto per dicembre, e con le elezioni politiche sempre più vicine, la situazione in Italia rimane tesissima. L’esclusione del Pci e del Psi dal governo rischia di fornire un pretesto alle spinte eversive che nei partiti di sinistra spingono per una decisa azione violenta. Si risveglia il “Vento del Nord”, come amava definirlo Pietro Nenni, leader del Partito socialista. In molti, compresi alcuni funzionari dell’amministrazione americana, temono che le fragili istituzioni italiano non reggeranno l’urto.
Il Partito comunista deve infatti fare i conti al suo interno con due anime: quella improntata sulla ricerca di una posizione all’interno di un sistema democratico e pluralista, ispirata dal leader del partito Palmiro Togliatti, il quale vuole a tutti i costi evitare l’isolamento e la sua esclusione dalle istituzioni, e quella “militarista”, sostenuta da ex-partigiani in attesa di scatenare l’insurrezione armata e quindi instaurare la dittatura del proletariato sul modello sovietico. Principale punto di riferimento di quest’ala più estrema è il capo partigiano Pietro Secchia, terzo nella gerarchia del partito, ma a capo delle organizzazioni armate sommerse e parallele (8).
Il massimo della tensione si raggiunge in autunno: il Paese è attraversato da scioperi e scontri e un gruppo di comunisti armati giunge ad occupare – con scarsi risultati – la prefettura di Milano. Le istituzioni e il governo, nonostante le difficoltà, reggono tuttavia la tensione e non si lasciano andare a reazioni antidemocratiche e violente, come l’ipotesi, ventilata da molti, di dichiarare illegale il Pci e di arrestare i suoi dirigenti. Contestualmente, non essendo né il governo né la Dc caduti nella provocazione, fallisce anche la linea del partito “parallelo” comunista.
Ettore Troilo e l’insurrezione milanese del novembre 1947
Nel novembre 1947, specie nel nord Italia, la situazione è sempre più tesa. Il 12 novembre, Nenni, leader del Psi, scrive sul suo diario: «una ventata di terrorismo si è abbattuta sull’Alta Italia e particolarmente su Milano. Si è cominciato con le bombe alla sedi comuniste cui sono seguite misure di rappresaglia che a loro volta hanno provocato altri attentati. Un cerchio infernale. Ieri a Mediglia un agrario ha sparato su degli operai uccidendone uno ed è stato linciato. Stamattina una bomba è stata lanciata contro una sede comunista a Milano. Ne è seguito uno sciopero generale con devastazioni di giornali e di sedi del Msi [e] dei qualunquisti […]» (9).
Il 13 novembre continua: «L’ondata di violenza dilaga […] il ministro [degli Interni] Scelba ha risposto oggi a ben undici interrogazioni. Non supponevo in lui tanto cinismo e una così scarsa sensibilità politica» (10). Il 14 novembre, poi, affida alle sue memorie una considerazione interessante: «Nel Paese la situazione è sempre molto tesa e si temono gravi incidenti […] Insomma l’atmosfera del ‘21 [ovvero del biennio rosso], con la differenza che siamo più forti di allora» (11).
Nenni teme in sostanza una svolta reazionaria, simile a quella che nel 1922 ha portato Mussolini al potere. Avversario principale delle sinistre è Scelba, ministro degli Interni, al quale si imputano le dure reazioni da parte delle forze dell’ordine alle manifestazioni e agli scioperi. Il ministro in effetti, deve affrontare una situazione infuocata, con la Polizia di Stato in fase di profonda ristrutturazione e ancora infiltrata sia da elementi fascisti che da ex-partigiani. Le minacce sono sia reali, come gli scioperi in piazza e le occupazioni delle fabbriche, ma sussistono anche minacce potenziali, più difficili da dimostrare e ostacolare.
Sebbene Togliatti non ha alcuna intenzione di scatenare un’insurrezione, in effetti, il partito “parallelo” e il suo braccio armato spingono verso una soluzione che rischia di trasformare l’Italia «se non in una Polonia o in una Cecoslovacchia [ovvero in un regime comunista], almeno in una Grecia» (12). I piani ci sono, sono pronti. Gli ex-partigiani hanno nascosto mitra, pistole, fucili, munizioni di ogni tipo, in attesa che scatti la tanto attesa “ora X”. Basterebbe la minima provocazione e l’Italia verrebbe trascinata in una tremenda escalation, persino in una guerra civile.
Tale rischio, sebbene reale e documentato dai servizi americani, viene però sminuito dall’ambasciatore americano Dunn, il quale sostiene che i comunisti non ricorreranno a «metodi violenti finché penseranno di poter ottenere il controllo del governo attraverso mezzi legali» (13). L’ambasciatore in sostanza crede che l’obiettivo di Togliatti e di Nenni sia quello di creare più imbarazzo e difficoltà possibili per il governo democristiano, preparandosi al contempo a prendere il potere attraverso le elezioni e quindi legalmente.
A settembre inoltre, in seguito a un sondaggio su un eventuale colpo di mano comunista nel nord Italia, lo stesso De Gasperi, attraverso l’ambasciatore a Washington Tarchiani, ha rassicurato l’amministrazione americana. Il presidente del Consiglio in particolare «non crede che i comunisti avrebbero successo nel far cadere il governo con la violenza fin quando il governo [sarà] in grado mantenere i rifornimenti essenziali, principalmente farina e carbone» (14).
L’amministrazione americana si impegna quindi a fornire altri aiuti alimentari e energetici all’Italia in attesa dell’entrata in vigore del Piano Marshall, attraverso i fondi d’emergenza dell’Interim Aid, approvati dal Congresso a metà dicembre. In tale scenario, gli eventi che infiammano Milano sul finire di novembre, si prestano a una duplice lettura. Se da una parte rendono manifesta l’esistenza di un apparato sovversivo comunista e la sua effettiva forza, dall’altra il fallimento dell’occupazione della Prefettura del capoluogo lombardo e della successiva manifestazione partigiana tenutasi a Roma nei giorni successivi, dimostrano come in realtà manca in buona parte della dirigenza comunista l’effettiva volontà di passare all’azione e di scegliere la via all’insurrezione armata.
Piuttosto, il partito sommerso, armato fino ai denti, deve fungere da deterrente nel caso in cui il governo e la Dc decidano di mettere fuori legge il Pci. L’episodio di Milano dunque, più che una prova generale della rivoluzione, è un atto di forza, per esercitare pressione sul governo. In balia degli eventi e di protagonisti più grandi di lui, il prefetto di Milano, Ettore Troilo si trova nella situazione più scomoda.
Ettore Troilo (1898-1974), militante del Partito d’Azione, è stato durante la guerra fra i principali promotori e comandanti della Brigata Maiella, una delle più importanti formazioni partigiane della Resistenza (15). Nel gennaio del 1946 viene chiamato a sostituire il socialista Riccardo Lombardi come prefetto di Milano, nonostante il governo De Gasperi, di cui Lombardi sta per divenire ministro dei Trasporti, stia portando avanti la linea di “normalizzazione” istituzionale, ovvero la sostituzione dei prefetti politici di nomina resistenziale con prefetti ordinari, linea peraltro già seguita dai precedenti governi Bonomi e Parri (16).
«Troilo, piccolo, garbato, […] non [ha] né la stoffa del prefetto né quella del politico. [Sono] stati gli eventi a portarlo nel palazzo di corso Monforte» (17) non di certo la sua competenza in materia di ordine pubblico e come si è visto, la situazione a Milano e in tutta la Lombardia è quasi fuori controllo. Gregari di simpatie fasciste sparano sui manifestanti, gli attentati reciproci alle varie sedi di partito vanno moltiplicandosi e la celebre Volante Rossa, un gruppo armato partigiano, continua a compiere esecuzioni e rapimenti di reali e presunti esponenti o collaboratori del passato regime.
È ormai palese che il prefetto non è adatto a un ruolo così gravoso e delicato. In molti iniziano a chiedere che venga sostituito, in particolare gli ambienti più moderati, spaventati dal dilagare della violenza nelle piazze e nelle campagne. Essendo però Troilo l’ultimo prefetto di nomina resistenziale, la sua eventuale rimozione diventa un affare molto spinoso, dal momento che comunisti e socialisti, in particolare gli ambienti più legati alla Resistenza, fanno della permanenza del prefetto partigiano a Milano una questione di identità e rappresentanza molto forte.
Sulla decisione del governo di sostituire Troilo esistono diverse versioni. Scelba e il governo infatti, sostengono che sia stato lo stesso Troilo a chiedere a De Gasperi, in una lettera del 18 ottobre 1947, di trovargli un’altra sistemazione, in Italia o all’estero. A motivo di tale richiesta, il prefetto adduce la sua stanchezza e il suo esaurimento, dovuto all’eccessivo peso di un ruolo così pesante (18). È il ministro degli Esteri, Sforza, a trovare la soluzione ideale, offrendo a Troilo un incarico diplomatico presso qualche ambasciata all’estero. Questi, contestualmente, si impegna a non comunicare nulla in merito alla sua sostituzione in attesa dell’arrivo a Milano del nuovo prefetto, consapevole della pericolosità di un vuoto di potere.
Il 27 novembre 1947, Troilo, che ha accettato di buon grado il nuovo incarico, provocando persino diversi malumori negli ambienti diplomatici, dove le nomine politiche sono ancora malviste, telefona al sottosegretario agli Interni Marazza per sollecitare la sua sostituzione. Scelba, incalzato dall’ormai ex-prefetto, chiede allora al prefetto di Torino, Vincenzo Ciotola, di trasferirsi con urgenza a Milano e comunica alla stampa l’ormai prossimo avvicendamento, evitando però di sottolineare – secondo i socialisti con malizia – che Troilo lasciava l’incarico di sua iniziativa e dietro sue espressa richiesta. L’Avanti!, il giornale del Psi, insiste nel descrivere tutta l’operazione come un grande inganno del ministro degli Interni, intenzionato a eliminare Troilo senza tener conto della sua importanza per i due partiti di sinistra.
Nella notte tra il 27 e il 28 novembre, intanto, l’agitazione che si è raccolta nelle settimane precedenti intorno alla questione sfocia in un’azione decisa dell’apparato sommerso comunista. Nei giorni successivi i giornali come L’Avanti! e L’Unità insisteranno nel presentare tutta l’operazione come una spontanea insurrezione degli operai milanesi contro la scelta reazionaria del governo volta a smantellare uno degli ultimi simboli della Resistenza, il prefetto partigiano Ettore Troilo. In realtà dietro vi è la regia accorta e sfrontata del partito “sommerso” comunista.
La versione della sinistra è che in realtà sia solo il governo a voler sostituire il prefetto e che questi sia tutt’altro che d’accordo. «La testa di Troilo è diventata per Scelba una questione di principio, ma la sua permanenza a Milano è diventata una questione di principio anche per tutte le forze democratiche della città» sostiene Miriam Mafai, una delle protagoniste di quelle giornate (19). Come confermerà in seguito l’interessato, però, la versione di Scelba è la più attendibile, poiché è stato lui ad accettare di passare a una nuova mansione meno impegnativa.
Nenni, nel suo diario, il 1° dicembre, avrà la lucidità di comprendere che «i nostri sono caduti in una provocazione di Scelba. Se nel suo primo comunicato il Ministro avesse pubblicato la lettera di dimissioni di Troilo, e avesse fatto conoscere la sua destinazione a un posto diplomatico, nessuno si sarebbe mosso di fronte all’intesa, o al mercato, fra il governo e un suo rappresentante» (20).
Il leader socialista non si fa scrupoli a parlare di “mercato”, quasi a voler deplorare lo stesso Troilo che, fatto passare per eroe dalla sinistra, ha in realtà le sue responsabilità per quanto accaduto. Una sua dichiarazione avrebbe infatti impedito il fraintendimento tra governo e le opposizioni, insorte in sua difesa.
L’analisi di Nenni è la più lucida e concreta degli eventi del 28 ottobre 1947. Nella mattinata di quel giorno, diverse colonne armate, giunte da tutta la Lombardia, sotto il coordinamento di Giancarlo Pajetta – ex partigiano e dirigente del Pci – prende pacificamente possesso della Prefettura, con Troilo che diventa un ostaggio consenziente. Le strade intorno al palazzo vengono bloccate e appaiono sofisticati apprestamenti difensivi, a testimonianza della certosina preparazione e organizzazione dell’ala armata del Pci.
Di fronte alla prefettura sono ben riconoscibili persino gli uomini della Volante rossa, il già citato gruppo sovversivo (21). Non giungendo informazioni dalla prefettura, Scelba chiama il questore di Milano Agnesina e al comandante militare di Bergamo, ordinandogli di tenersi pronto a sgomberare e occupare la prefettura, anche usando la forza, se necessario. I militari iniziano così a dispiegarsi, assieme a diverse unità dei carabinieri e della polizia, mentre continuano ad affluire militanti comunisti.
Nel pomeriggio la situazione sembra ormai giunta al massimo della tensione, quando Troilo invia un telegramma a Scelba, rassicurandolo. Si trova nella prefettura «in piena libertà e in attesa dell’onorevole Marazza» che il governo ha inviato come negoziatore. Troilo inoltre assicura che la situazione dell’ordine pubblico è tranquilla, nonostante lo sciopero in corso.
Nel frattempo Pajetta, dall’ufficio del prefetto, fa diverse telefonate. Chiama prima Scelba e lo sbeffeggia dicendogli: «da adesso hai una prefettura in meno». Telefona quindi a Togliatti e gli comunica «abbiamo la prefettura di Milano». «Bravi, e cosa intendete farne?» gli risponde gelido e ironico il segretario. Per Pajetta, che ha voluto mettere anche il suo leader davanti al fatto compiuto, è una doccia gelata. Togliatti non lo sosterrà ed è pronto a sconfessare la sua azione.
Pajetta, raccontando negli anni a venire l’episodio, sosterrà sempre che quel giorno lui e i suoi non avevano alcuna intenzione di dare via a una sollevazione, ma che lui e i suoi volevano mostrare al governo che «avevano una forza notevole ed erano pronti ad usarla, in modo da impedire che il governo e la Dc si illudessero di poterli liquidare facilmente».
Effettivamente, quando nella notte tra il 28 e il 29, Marazza giunge nella prefettura scortato dai militari, Pajetta e i militanti armati si ritirano senza cercare lo scontro, concludendo pacificamente la loro azione e ottenendo in cambio un salvacondotto.
Troilo, tra i principali responsabili dell’accaduto, una volta assicuratosi il nuovo incarico all’Estero si scaglia contro il governo, dichiarandosi vittima di quanto accaduto e contrario alla propria rimozione. I giornali di sinistra e in generale la cultura partigiana, in particolare comunista, racconteranno in seguito di un eroico Troilo, assediato nella sua prefettura dalle forze governative e che alla fine ha lasciato il suo incarico solo per evitare uno spargimento di sangue. Egli, in qualità di tutore dell’ordine, avrebbe potuto benissimo ordinare alla polizia di sgombrare la prefettura se avesse voluto, ma non lo fece, dicendo che non sarebbe stato lui a «ordinare di sparare sul popolo» (22).
Negli anni seguenti, venuta fuori la verità dei fatti, in particolare la volontà dello stesso Troilo di lasciare l’incarico, in un clima rasserenato, la vicenda perde d’interesse per i comunisti e passa alla storia come una semplice protesta risolta pacificamente proprio dalla capacità dell’ex-capo partigiano di mantenere il polso della situazione. Da incapace e irresponsabile, Troilo diventa quindi un simbolo.
Risolta la spinosa situazione milanese, in quei giorni la tensione rimane comunque alta in tutto il Paese. A preoccupare il governo è soprattutto il I Congresso nazionale della Resistenza. La prima manifestazione organizzata dell’Associazione nazionale Partigiani d’Italia (Anpi) in cui nel 1944 sono confluiti tutti i gruppi resistenziali, si è conclusa con la scissione dei gruppi cattolici, vicini alla Dc, che vanno a formare la Federazione italiana volontari della libertà (Fivl), coordinati da Enrico Mattei (23).
La manifestazione conclusiva a Roma del 6 e 7 dicembre 1947 è attesa con molta ansia da entrambe le parti. Migliaia di partigiani – molti dei quali armati – sono attesi in città e si temono duri scontri, sulla scia dello sciopero dei metalmeccanici romani, già in atto fuori città. L’allerta è massima, con l’Avanti! che denuncia il piano di repressione messo in atto dal governo. «Scelba vuole piombo contro i lavoratori» scrive il giornale socialista (24).
Se si legge il resoconto di quelle giornate della già citata Miriam Mafai, si può comprendere benissimo la gravità e la frenesia della situazione. Un semplice incidente durante una sosta del viaggio da Genova a Roma, racconta la scrittrice, sfocia in una «sparatoria infernale [con] raffiche di “Sten” [un tipo di pistola mitragliatrice], colpi di pistola e scoppi di bombe a mano». Una volta giunti a Roma, richiamati alla calma dal vice segretario comunista Longo, la manifestazione si svolge senza incidenti e i partigiani sfilano in città fra ali festanti di folla.
Molti militanti però non sono così entusiasti. «Ricordo la delusione di tutti» scrive la Mafai, «le intenzioni dal basso erano diverse, [avevamo] il proposito di spaccare il mondo e a un certo punto c’era la sensazione che si stava per concludere qualcosa di grosso. Ma poi la tensione cadde» e i partigiani si dispersero senza causare trambusto (25).
Dicembre 1947: la reazione della Dc e i documenti della Cia
Il caso della prefettura di Milano rappresenta l’apice di una situazione davvero difficile. Nessuno in effetti, neppure i servizi segreti statunitensi, sanno con certezza come e quando hanno scelto di agire i comunisti. C’è sicuramente la consapevolezza che un apparato sommerso, comunista, di origine partigiana, è pronto all’azione, che per il momento Togliatti riesce a tenere a freno le spinte eversive, ma fino a quando non è dato saperlo. Le elezioni – fissate per la primavera del 1948 – sono sempre più vicine e nessuno si fida circa le intenzioni del rispettivo avversario. La Dc in particolare teme un aperto tentativo di colpo di Stato comunista, mentre il Pci nutre il timore di essere messo fuori legge e quindi soppresso con la forza.
Quanto accaduto a Milano il 27 novembre, e la situazione generale nel Paese, hanno in effetti scosso duramente sia il governo che gli alleati americani. Nella direzione di partito della Dc del 2-3 dicembre, i principali dirigenti democristiani – De Gasperi, Scelba, Gronchi, Piccioni, Taviani, Dossetti – discutono a lungo della situazione e di come reagire. Dai verbali di quelle sedute si evince che anche la Dc, in quanto partito, ha deciso di riarmarsi.
La questione dibattuta in direzione infatti, non è se reagire o meno alle provocazioni comuniste, ma piuttosto come, quando e con quanta forza. Dai verbali emerge nettissima la difficoltà che Scelba, in qualità di ministro degli Interni, sta incontrando nel far fronte non solo alle minacce reali, come gli scioperi, ma anche a quelle potenziali, viste come incombenti.
La soluzione a cui giungono i dirigenti dello scudocrociato è innanzitutto quella di prendere le distanze dai gruppi partigiani della sinistra, decidendo quindi per la scissione della Fivl di Mattei dall’Anpi. L’eventuale repressione dei moti di matrice social-comunista viene contestualmente affidata alle forze dell’ordine – e non ai gruppi armati del partito democristiano – in particolare ai carabinieri e alla Marina militare, essendo l’Esercito e la polizia ancora fortemente infiltrati da elementi partigiani. Tale repressione avverrebbe, però, solo nel caso in cui siano i comunisti a dare il via per primi ad atti di violenza contro le istituzioni.
Nel caso di insurrezione, quindi, importantissima diventa la difesa dei depositi di armi, munizioni e automezzi, oltre che la salvaguardia dei quadri di partito e delle loro famiglie, bersagli scontati di un’eventuale insurrezione. I dirigenti democristiani ipotizzano poi uno scenario in cui la forza comunista riesca a prendere il sopravvento sulle forze governative. Per far fronte a una simile evenienza si decide di rafforzare gli apprestamenti difensivi in Sicilia, che in caso di emergenza fungerebbe da piazzaforte naturale.
Va sottolineato come in questa fase, i dirigenti democristiani si mostrano molto scettici circa l’allargamento della collaborazione ad altre forze anticomuniste: il rischio più grande è quello di rimanere prigionieri di gruppi eversivi neofascisti con esiti nefasti per la tenuta democratica del Paese (26).
Intanto, nella Venezia Giulia, dove il timore per le infiltrazioni di elementi jugoslavi è fortissimo, la Democrazia cristiana, già dal 1946 ha ripreso i contatti con diverse organizzazioni partigiane anticomuniste, come la Brigata Osoppo e il Gruppo Cividale, che già durante la Resistenza hanno avuto modo di scontrarsi con i partigiani comunisti e jugoslavi. In vista delle elezioni del 1948, tali gruppi furono ampiamente organizzati e sostenuti finanziariamente dal governo.
Anche nel milanese e in Emilia vengono riorganizzati gruppi di ex-partigiani “bianchi”, con il sostegno logistico dei carabinieri, che iniziano quindi a distribuire armi e munizioni, come in futuro confermerà Francesco Cossiga. Tali misure erano però da intendere in senso strettamente preventivo e difensivo, sottolineando inoltre la loro matrice antifascista, con i gruppi di destra che, per ora, rimangono esclusi da tale rete (27).
Gli Stati Uniti guardano con molto interesse e viva preoccupazione alla situazione italiana. L’eventualità che l’Italia scivoli nell’orbita comunista è per Washington politicamente e psicologicamente inaccettabile, secondo i dettami di quella che è la cosiddetta “teoria del domino”. All’Italia, secondo gli americani, sarebbe seguita la Francia e così via altri Paesi, alla stregua di quanto avvenuto in Europa orientale. Indicativo è quindi il fatto che il neonato National Security Council – organo di coordinamento politico, militare e di intelligence – dedichi le sue prime riunioni proprio al caso italiano (28).
Anche la Cia, la Central Investigation Agency, è molto interessata all’Italia. In una relazione declassificata, redatta tra il luglio e il dicembre 1947, gli agenti americani sottolineano come il governo italiano si stia mostrando debole nella repressione dei disordini e che l’Urss «potrebbe dirigere un’azione insurrezionale prima delle elezioni nazionali» poiché «nonostante il successo di De Gasperi nel mettere fine allo sciopero generale di Roma» la forza dei comunisti rimane inalterata.
Il documento spiega poi come i comunisti siano particolarmente forti al nord, «dove il partito [comunista] ha un largo consenso e comanda un seguito partigiano stimato in 50.000 uomini ben armati e altrettanti parzialmente armati» oltre a poter contare su «un adeguato trasporto via camion», mettendo al contempo in risalto la «forza limitata» degli apparati di sicurezza italiani oltre che la loro inadeguatezza in termini di «armi ed equipaggiamento». La Cia prende poi nota della presenza di «circa 20.000 uomini» appartenenti a «forze paramilitari di destra» le quali tuttavia sono ritenute rivali del governo, se non addirittura ostili, a conferma della reticenza della Dc nel cercare la collaborazione con i gruppi eversivi di destra (29).
Per gli analisti della Cia fondamentale alla riuscita dell’ipotetica insurrezione comunista è il supporto che gli insorti andrebbero a ricevere dagli alleati jugoslavi, e aggiungono che senza un «outside aid», ovvero senza un intervento militare americano, le forze governative incontrerebbero notevole difficoltà a riprendere il controllo delle aree conquistate dagli insorti comunisti. Si prospetta in definitiva, in caso di una seria – ma comunque improbabile – sollevazione dell’apparato militare comunista, una situazione analoga a quella della Grecia, con una prevalenza netta dei comunisti al nord, e il governo che riuscirebbe invece a mantenere il controllo del centro-sud e delle isole.
Nel caso poi di un ipotetico intervento militare americano, dunque, l’Italia si sarebbe trasformata in una sorta di Corea o Vietnam ante litteram con contingenti americani impegnati a sostenere il governo del Sud nei combattimenti contro insorti comunisti più o meno apertamente spalleggiati nelle retrovie da Paesi amici come la Jugoslavia.
Temendo una simile evoluzione, De Gasperi chiede agli Stati Uniti di dilazionare il più possibile, fino al termine ultimo previsto dal trattato di pace, la partenza delle ultime truppe di occupazione alleate ancora di stanza in Italia, oltre all’invio di forniture militari per rafforzare il debole e malconcio esercito italiano. La proposta di una missione militare statunitense da inviare in Italia, invece, non viene tenuta in considerazione dal presidente del Consiglio, il quale teme di esacerbare ancora di più gli animi e di delegittimare il suo governo affidandolo alla tutela militare straniera. Gli americani accettano dunque di posticipare la loro partenza fino al dicembre 1947 e nel frattempo rafforzano la loro presenza in Austria – paese ancora sottoposto all’occupazione duplice degli Alleati e dell’Urss – in modo tale da essere pronti a qualsiasi evenienza.
Il 13 dicembre, infine, De Gasperi chiede alla Casa Bianca di rilasciare una dichiarazione che affermi l’intenzione da parte americana di intervenire qualora l’integrità territoriale e la tenuta democratica dell’Italia siano in pericolo. Truman rilascia la suddetta dichiarazione, parlando tuttavia di un impegno generico degli Stati Uniti nel mantenimento della pace in caso di minacce alla libertà e all’indipendenza dell’Italia, senza offrire alcuna garanzia.
Gli Stati Uniti, in sostanza, si impegnano a sostenere finanziariamente e dal punto di vista logistico il governo italiano, riservandosi la possibilità di un intervento militare solo come ultima spiagga. Soprattutto nel caso in cui i comunisti arrivassero legalmente al potere, gli Stati Uniti non interverrebbero mai con la forza, salvo mantenere sempre aperta questa possibilità per intimorire gli avversari e influenzare l’opinione pubblica in vista delle elezioni.
Riassumendo, sia sul fronte interno che sul versante internazionale, da parte occidentale vi è un serio timore non solo di perdere la sfida elettorale con il comunismo, ma di dover affrontare, anche in caso di vittoria, un’eventuale insurrezione armata e violenta. Gli american oscillano tra la fiducia nei confronti della leadership di De Gasperi e l’ansia che il presidente del Consiglio e il suo partito non siano abbastanza forti per reggere un confronto aperto con i comunisti e contestualmente al sostegno economico e logistico, vagheggiano circa propositi decisamente più interventisti, come il rafforzamento della presenza militare in Austria o l’ipotetico invio di una missione militare con il preciso compito di sostenere il fronte anticomunista italiano.
Stalin, Togliatti e Secchia: la strategia del Pci e il rapporto con Mosca
L’eventuale azione comunista, come sottolineato anche dalla Cia, ha bisogno del benestare del Cremlino e di una decisione in tal senso di Stalin. Gli americani credono, a ragione, che i sovietici opteranno una simile soluzione solo con la certezza di poter «abbattere l’European Recovery Program» e hanno ragione nell’affermare che senza un consenso da parte di Mosca, i comunisti italiani non daranno il via a nessuna insurrezione.
Proprio mentre la Dc si riunisce in direzione, all’interno del Pci infuria un dibattito senza esclusione di colpi fra le due anime del partito, quella togliattiana e quella militarista, che ha come punto di riferimento il numero due del partito, Pietro Secchia. Mentre Togliatti, nonostante l’esclusione dal governo, si impegna per mantenere la credibilità del partito e impedire che esso venga messo fuori legge, Secchia morde il freno, impaziente di reagire con violenza alle provocazioni dei reazionari democristiani, anche a costo di scatenare una guerra civile.
L’ambiguità di Stalin in merito rende ancora più intricata la situazione: il dittatore georgiano infatti è consapevole di non poter fare nulla per mutare il confine tra i blocchi senza scatenare una guerra contro gli Stati Uniti, ma ciò non gli impedisce di continuare con l’opera di disturbo, affidata ai partiti comunisti occidentali come il Pci o il Pcf in Francia (31).
Proprio nel dicembre 1947, Secchia parte per Mosca per incontrare Stalin e chiedergli istruzioni sulla strategia da seguire ora che i social-comunisti non sono più al governo. Prima di incontrare Koba – uno dei soprannomi di Stalin – Secchia vede Zdanov, dirigente di punta del Pcus, che rimprovera i comunisti italiani di aver «condotto finora una politica fiacca, di capitolazione, con troppe illusioni parlamentari»: un chiaro attacco alla linea moderata e prudente di Togliatti.
Secchia coglie subito l’occasione e scrive un rapporto in cui critica alcuni «compagni» che troppo spesso si sono «lasciati dominare dalle minacce della guerra civile» mentre a suo avviso il partito può «ancora prendere l’offensiva, vi sono le forze per farlo, e se il nemico cercasse di sbarrarci la strada con la violenza, noi disponiamo di un potenziale di forza tale che saremmo in grado di spezzare ogni violenza» (32).
Il rapporto approda sulla scrivania di Stalin che Secchia può infine incontrare poco dopo, alla presenza di Zdanov, Berija, il capo dei suoi servizi segreti e Molotov, ministro degli Esteri. Nonostante le premesse poste da Zdanov, il dittatore si mostra prudente. Lungi dallo sconfessare la politica di Togliatti, suo principale interlocutore in Italia, il leader sovietico spiega a Secchia che non si tratta per l’Italia di porre il problema dell’insurrezione bensì di «condurre lotte economiche e politiche più decise, con maggiore ampiezza» soprattutto in contrasto all’ormai prossimo European Recovery Program degli americani.
Stalin tuttavia non chiude definitivamente la porta a una possibile svolta insurrezionale, rimandando però la rivoluzione a tempo indeterminato e subordinando eventuali azioni violente solo in risposta a eventuali minacce reazionarie da parte degli ambienti anticomunisti. Un caso ipotetico, sarebbe quello di una vittoria del Fronte popolare (l’unione di Pci e Psi in un’unica lista) alle prossime elezioni, non riconosciuta dagli avversari anticomunisti e ostacolata con violenza. Stalin decide dunque di non rinnegare la politica di Togliatti, che lui ritiene la più adatta alla situazione italiana, ma così come il segretario del Pci, non chiude definitivamente neppure la strada dell’insurrezione armata.
Tale impostazione viene sancita nel VI Congresso del Pci: Togliatti è riconfermato segretario con Longo suo vice, mentre anche Secchia viene eletto alla carica di vice segretario, nomina quasi certamente richiesta direttamente da Mosca e quindi mal digerita da Togliatti, che però accettava i dettami sovietici affermando che «[noi comunisti] seguiamo una linea di azione democratica, ma non ci lasceremo sorprendere da nessuna provocazione, da nessun piano reazionario» (34).
Nei mesi successivi, in accordo con Stalin, Togliatti è ormai convinto di dover tenere il partito sulla difensiva, in attesa delle elezioni. Il Cremlino infatti autorizza il Pci a usare la forza solo in caso di attacchi a uomini e sedi del partito. Il timore è quello di scatenare un conflitto generalizzato che dall’Italia possa poi dilagare a tutta l’Europa, coinvolgendo inevitabilmente gli Stati Uniti e l’Urss. A pesare su questi giudizi è anche la distanza sempre maggiore fra Stalin e Josip Broz, detto Tito, il dittatore della Jugoslavia.
I due arriveranno effettivamente alla rottura definitiva nel giugno del 1948, con il Pci che rimane fedele a Mosca. Privato del sostegno di Belgrado, quindi, le possibilità dell’apparato sovversivo comunista italiano si ridurranno notevolmente.
Il 1947 in Italia
Dopo l’esclusione dei social-comunisti dal governo in maggio, gli ultimi mesi del 1947, come si è visto, sono caratterizzati da fratture profondissime con diversi elementi di tensione pronti a infiammare da un momento all’altro il Paese, come nel caso della prefettura di Milano e dello sciopero generale a Roma, con annessa marcia dei partigiani per le vie della città.
Il governo e le istituzioni reggono l’urto, nonostante all’interno di entrambi gli schieramenti esista una sorta di «partito della guerra civile» che preme per una resa dei conti con i rispettivi avversari. La direzione democristiana da una parte e l’ala più moderata del Pci dall’altra, riescono a mantenere la calma. Troppo forte è la paura di trasformare nuovamente l’Italia in un campo di battaglia, così come sta avvenendo in Grecia, dove alla fine della tremenda guerra civile si conteranno oltre 80.000 morti. Da entrambe le parti la decisione è quella di tenere pronte le armi, senza passare però all’azione, pur non disdegnando l’idea di poter annichilire con la forza i rispettivi nemici.
All’epoca, ovviamente, è impossibile conoscere le intenzioni degli avversari, pertanto ci si avvia verso le elezioni del 1948 in un clima tesissimo, con scontri di piazza, scioperi, occupazioni, in sostanza con lo spettro incombente di una nuova guerra civile, che però non impedisce il completamento del processo costituzionale – avviato con il referendum del 2 giugno 1946 e l’elezione dell’Assemblea costituente – a cui le sinistre, nonostante siano state escluse dal governo – continuano a partecipare, fornendo un contributo decisivo: la Costituzione della Repubblica italiana sarà infatti promulgata proprio sul finire del 1947 e rappresenta il massimo risultato della cooperazione tra le forze antifasciste, nessuna esclusa.
Lungi dal considerare determinanti solo i condizionamenti internazionali, dunque, in questo processo risultano decisive le scelte e la leadership di De Gasperi e Togliatti che, pur essendo ormai nemici dichiarati, scelgono di affrontarsi democraticamente, nell’arena politica ed elettorale, e non in quella militare, mettendo in primo piano gli interessi di un Paese ancora devastato e ferito nel profondo dalla tragedia della Seconda guerra mondiale.
La sconfitta del Fronte alle elezioni dell’aprile 1948 e la netta vittoria del blocco democristiano, centrista e anticomunista, sembrò congelare la situazione, tuttavia l’attentato contro Togliatti del 14 luglio 1948, e la successiva reazione – poi fermata dallo stesso segretario – della frangia armata comunista, dimostrano come in realtà la tensione è destinata a durare ancora a lungo e a condizionare irrimediabilmente i primi decenni di vita della Repubblica.
Note:
- Montanelli e M. Cervi, “L’Italia della Repubblica. 2 giugno 1946-18 aprile 1948”, Rizzoli 2018. pp. 115-116.
- Per approfondire si veda il volume “Il secolo degli Stati Uniti” di A. Testi, il Mulino, 2014.
- Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda. 1943-1978”, il Mulino, 2016. p. 98.
- Montanelli e M. Cervi, “L’Italia della Repubblica”, op. cit., p. 117.
- Ivi, p. 121.
- p. 111.
- Montanelli e M. Cervi, “L’Italia della Repubblica”, op. cit., p. 154.
- Ivi, pp. 137-138.
- Ivi, p. 139.
- Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda”, op. cit., p. 114.
- Ivi, pp. 121-122.
- Associazione nazionale Partigiani d’Italia, Ettore Troilo, scheda informativa (www.anpi.it).
- Guido Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda”, op. cit., p. 78.
- Montanelli e M. Cervi, “L’Italia della Repubblica”, op. cit., p. 140.
- Ivi, p. 141.
- Mafai, “L’uomo che sognava la lotta armata” in I. Montanelli e M. Cervi, “L’Italia della Repubblica”, op. cit., p. 142.
- Montanelli e M. Cervi, “L’Italia della Repubblica”, op. cit., p. 143.
- Ivi, p. 145.
- “Troilo prefetto antifascista e galantuomo”, L’Unità, 28/01/2006.
- Guido Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda”, op. cit., p. 124.
- “L’on. Scelba non vuole risse domenicali. L’on. Scelba vuole piombo contro i lavoratori”, Avanti!, 6 dicembre 1947.
- Mafai, “L’uomo che sognava la lotta armata” in I. Montanelli e M. Cervi, “L’Italia della Repubblica”, op. cit., p. 150.
- Bernardi, “La Democrazia cristiana e la guerra fredda: una selezione di documenti inediti (1947-50)” in Ventunesimo secolo, n. 10, 2006, pp. 127-165.
- Guido Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda”, op. cit., p. 124.
- Ivi, p. 125
- “Prospects for communist action in Italia”, in “Book III – Weekly summary 3 july 1947 – 30 dec. 1947”. FOIA electronic reading room, number: CIA-RDP78-01617A001900020001-8, pp. 1-2.
- Guido Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda”, op. cit., pp. 127-129.
- Ivi, pp. 111-113.
- Montanelli e M. Cervi, “L’Italia della Repubblica”, op. cit., p. 143.
- Ivi, pp. 154-157
- Guido Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda”, op. cit., p. 118.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- I. Montanelli e M. Cervi, L’Italia della Repubblica. 2 giugno 1946-18 aprile 1948, Rizzoli, Milano 2018.
- G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda. 1943-1978, il Mulino, Bologna 2016.
- U. Gentiloni, Storia dell’Italia contemporanea, 1943-2019, il Mulino, Bologna 2019.